P. Manuel Augusto Lopes Ferreira: Daniele Comboni e “il bambino rapito dal Papa”

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Lunedì 21 settembre 2020
Marco Bellocchio, l’ottantenne regista italiano (tra gli altri film, Il Traditore, del 2019), in una recente intervista al quotidiano La Repubblica
[i], rivela che farà un film “sul bimbo ebreo rapito dal Papa,” riprendendo un progetto, prima elaborato e poi abbandonato, del regista americano Steven A. Spielberg. Questa vicenda storica ha interessato vari scrittori (“Prigioniero del Papa Re”, di David Kertzer; “Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX”, di Vittorio Messori, del 2005). Bellocchio non vuole fare un adattamento di questi libri ma una sua “ricostruzione storica” basata sulle fonti.

Daniele Comboni
e “il bambino rapito dal Papa”

Marco Bellocchio, l’ottantenne regista italiano (tra gli altri film, Il Traditore, del 2019), in una recente intervista al quotidiano La Repubblica[ii], rivela che farà un film “sul bimbo ebreo rapito dal Papa,” riprendendo un progetto, prima elaborato e poi abbandonato, del regista americano Steven A. Spielberg. Questa vicenda storica ha interessato vari scrittori (“Prigioniero del Papa Re”, di David Kertzer; “Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX”, di Vittorio Messori, del 2005). Bellocchio non vuole fare un adattamento di questi libri ma una sua “ricostruzione storica” basata sulle fonti.

Rapporto cristianesimo-ebraismo

Il bambino al centro della vicenda si chiama Edgardo Mortara ed è figlio di genitori ebrei. Il padre è calzolaio e la famiglia vive a Bologna. Nel 1858, Pio IX ne decreta il “rapimento”, cioè, il sottrarre del bambino alla famiglia, messo in atto il 24 giugno di quell’anno, in base al fatto che cinque anni prima il bambino era stato battezzato di nascosto da una domestica, a causa di una malattia che lo aveva messo in pericolo di vita.

Il bambino cresce da cristiano cattolico e ha una vita lunga, fino ai 90 anni. Il film – anticipa il regista – “non potrà seguire tutta la vita di Mortara” ma partirà dal suo rapimento per finire con la presa di Porta Pia o con la morte della madre, che lui cercò di convertire ma lei disse: sono nata e morirò ebrea”.

Una ricostruzione storica, dunque, che – così nelle intenzioni del regista – metterà a confronto “la violenza del fanatismo religioso, l’idea che in nome di una fede si possa fare tutto” e l’apertura della società moderna, che rifiuta questo fanatismo; l’affermazione del potere temporale del Papa e la sua preannunciata fine (con la presa di Porta Pia); la chiusura mentale di Pio IX, che “utilizza il piccolo come baluardo contro i liberali” e le esigenze della modernità e del progresso.

Una “ricostruzione storica” fatta a partire da criteri, oltre che storici, odierni e che può tacere, o sottovalutare, alcuni elementi, altrettanto storici e interessanti, come l’attenzione che il papato del tempo dava a queste situazioni e l’investimento che faceva nell’educazione e preparazione alla vita sociale e culturale, oltre che ecclesiale, di persone venute da altri contesti religiosi e culturali. Sottolineiamo questo aspetto non per giudicare il regista sulla base delle sue eventuali intenzioni, e prima che la sua opera sia compiuta, ma per collegare la storia alla persona di Daniele Comboni e dare ragione del nostro titolo: “Daniele Comboni e il bambino rapito dal Papa”.

Rapporto cristianesimo-religioni e popoli

Daniele Comboni è un’esponente di spicco del movimento missionario italiano dell’Ottocento, come fondatore di istituti missionari[iii] e protagonista di un’iniziativa missionaria per portare il Vangelo e la sua forza di trasformazione sociale e culturale al centro dall’Africa.

Gli storici della Chiesa sono unanimi nell’affermare che il movimento missionario incarnò l’apertura più significativa della Chiesa dell’Ottocento[iv]. Non si trattò di una fuga in avanti, ma di un vero “andare alle periferie”, di un “vivere i dinamismi di una Chiesa in uscita”, per usare le parole di papa Francesco[v]. I fondatori missionari – e quanti li hanno seguiti nell’avventura di andare oltre e cercare un nuovo rapporto con i popoli, con le loro culture e religioni – si sono rifiutati di restare prigionieri delle tensioni della Chiesa del loro tempo e del loro spazio geografico (soprattutto il centro Europa) e si sono lanciati in iniziative missionarie innovatrici. Nel loro amore e nella loro adesione alla Chiesa, hanno intuito che i tempi stavano cambiando, ma i cammini nuovi per la nuova uscita ecclesiale non si conoscevano, bisognava scoprirli per dare loro concretezza storica.

Questa è la situazione di Daniele Comboni (1831-1881). Reduce da un viaggio in Africa, che quasi gli costa la vita, vive, dal 1859 al 1864, anni di ricerca di un modello nuovo per l’incontro della fede cristiana con i popoli e le loro culture e religioni. Nel settembre del 1864 concepisce un “Piano per la Rigenerazione dell’Africa,” che prevede l’empowerment degli Africani, rendendoli protagonisti della loro trasformazione sociale, attraverso la forza del Vangelo e l’educazione civica. Convinto di questa svolta da operare nell’agire della Chiesa e del suo incontro con i popoli, si dedica a questa rigenerazione dell’Africa centrale fino alla morte, a soli 50 anni, nella capitale del Sudan, Khartoum[vi].

Dal vecchio verso il nuovo

Questa breve presentazione della figura di Daniele Comboni ci permette di capire la sua valutazione della vicenda del bambino ebreo rapito da Papa Pio IX, che Comboni incontra personalmente, spiegando anche il ricordo che ne ha conservato.

Nell’anno in cui incontra Edgardo, il 1864, Daniele Comboni vive la sua pasqua, il passaggio dal vecchio al nuovo, con il suo Piano per la Rigenerazione dell’Africa. È ancora membro dell’Istituto Mazza di Verona e, come tale, incaricato di trovare una sistemazione per i giovani africani che venivano educati in Europa e di seguirli, secondo la visione educatrice del Mazza, affinché siano poi “mandati” da laici professionisti preparati per essere soggetti e protagonisti della rinascita africana.

Daniele Comboni, nel suo Piano per la Rigenerazione dell’Africa, progetta di abbandonare questo modello e sceglie di preparare gli africani in Africa, in alcuni centri delle zone costiere dove gli europei non soccombano e gli africani non perdano la loro identità. Ma, fin quando la via del nuovo non si apre, come può non apprezzare le aperture che si fanno a Roma e altrove, quello che fanno Pio IX (1846-1878) prima e poi Leone XIII (1878-1903), per accogliere giovani africani e altri di religione islamica e garantire loro la necessaria formazione umana e cristiana?!

Comboni incontra Edgardo, che ha dieci anni di età, nell’Ospizio dei Catecumeni, dove era stato educato anche il turco Bescir Paolo (con un altro giovane di Damasco), convertito dall’islamismo e portato, dopo il suo battesimo, da papa Pio IX. Bescir era stato mandato a Roma da Comboni per l’educazione cristiana per poi tornare a Khartoum, come il missionario ricorda in una lettera del 1881[vii]. Anche in un’altra lettera[viii], ricorda la vicenda di Bescir: “Il turco che io spedii all’Ospizio dei Catecumeni a Roma, perché il Papa me l’accordò, fu solennemente battezzato dall’Arcivescovo di Colossi e giovedì l’ho presentato al Papa. Ebbi un’udienza privata di un’ora e mezza dal Papa, sempre seduto davanti a lui; ed un’altra mezz’ora rimasi solo con lui e il turco Bescir e due sacerdoti di Vicenza. Il Papa ha a cuore la povera Africa, e benedice tutti e tutte, e tutti e tutte di Cairo e di tutto il Vicariato. Rimase poi commosso dalla dedizione delle nostre Suore dell’Africa Centrale”.

Comboni dice che è stato costretto a mandarlo a Roma, ma da chi, da che cosa? Perché, come dice nella stessa lettera, “non fu mai tolta e abrogata la pena di morte contro chi fra i musulmani si fa cristiano e contro chi amministra il Battesimo”. Nel 1864 le cose stanno così in Egitto e in Sudan, politicamente sotto l’Egitto. Nel 1881 a Khartoum, Daniele Comboni, già vescovo, sfida questa proibizione e amministra il battesimo a vari giovani musulmani[ix].

L’incontro col figlio del calzolaio

Ritorniamo alla storia di Edgardo, attraverso le parole di Daniele Comboni[x]: “Nel 1864 trovandomi in Roma dopo la Beatificazione di Alacoque[xi] l’E.mo Barnabò di p.m. m’incaricò di andare all’Ospizio dei Catecumeni (ove fu istruito Bescir) per prendere un giovane di Damasco convertito dall’islamismo (oggi è ricco lord che vive a Londra) per presentarlo al Papa Pio IX avendo già ricevuto il Battesimo. Vo’ ai Catecumeni e vi trovo anche quel povero calzolaio giovanetto di 10 anni che era ebreo, e aveva ricevuto il Battesimo col Damasceno. Il Rettore dell’ospizio ed io entrammo coi due fortunati convertiti nella carrozza di Mgr. Jacobini, che allora era prelatino dei Catecumeni ed oggi è Cardinale Segretario di Stato di Leone XIII, e andiamo dal Papa, torniamo, e Mgr. Jacobini mi conduce in Propaganda, ove doveva riferire all’E.mo Cardinale Prefetto. In questa circostanza conobbi bene il giovanetto calzolaio del ghetto, assai più rozzo e meno educato dei nostri calzolai di campagna, ma beato per essere divenuto cristiano”.

La vicenda del giovane ebreo era, in quei giorni, sulla bocca dei monsignori a causa della richiesta dell’Imperatore Napoleone III a papa Pio IX, di consegnare il ragazzo alla sua famiglia. La storia di Edgardo torna, così, di nuovo nella vita di Comboni, come racconta nella stessa lettera.

“Nella seguente domenica in ottobre mi trovava a pranzo dal Conte di Sartiges, ambasciatore di Francia presso la S. Sede in compagnia del Barone Visconti Commissario delle Antichità, e di Mgr. Place, allora Auditore della S. Rota Romana, poi Vescovo di Marsiglia ed oggi Arcivescovo di Rennes. L’ambasciatore ci raccontò come dietro incarico dell’Imperatore Napoleone III, egli il giorno avanti era stato da Pio Nono e gli annunziò che è volontà dell’Imperatore che Sua Santità debba far consegnare ai genitori ebrei il ragazzo calzolaio che si aveva battezzato, e che il Papa aveva risposto con un no risoluto e decisivo. ‘Che follia!’ diceva il Conte di Sartiges, ‘che sciocchezza! che fanatismo! quello del Papa di negare all’Imperatore una sì piccola cosa! un calzolaio! è un fanatismo! Questo è troppo, rifiutare all’Imperatore dei francesi una tal piccolezza! Non va bene: non è politica’, ecc. Dopo che il Commendator Visconti e Mgr. Place parlavano e rispondevano per giustificare il Papa, l’ambasciatore rivolto a me, mi disse ‘Et Vous, mon cher Abbé, que pensez-vous? Vous n’auriez pas fait ainsi’. ‘Vi domando perdono, mio caro ambasciatore’, risposi io. ‘E non vedete che il Papa è un perfetto imitatore di Gesù Cristo che avrebbe sparso tutto il suo sangue per un’anima sola? Non vedete lo stupendo spettacolo di un Papa che dà al mondo una splendida lezione di quel che costi un’anima, per la quale il divin Redentore morì? A me pare invece di scorgere in quest’atto sublime del Sommo Pontefice la poesia della nostra Santa Fede. Sì, il rifiuto che fa la più grande autorità della terra al più potente imperatore del mondo di non voler consegnare al genitore ebreo calzolaio il suo povero figlio convertito è veramente uno spettacolo sublime degno dell’ammirazione dell’universo. Questo sorprendente coraggio di Pio IX di respingere la richiesta di Napoleone terzo di consegnare un giovanetto calzolaio mostra la grandezza d’animo, lo zelo apostolico, e la carità sovraumana del più gran Papa dell’età moderna, che io ammiro, e che rende veramente sublime Pio IX’”.

Questa risposta del Comboni non soddisfa del tutto l’ambasciatore, ma non gli fa perdere il buon umore: “‘Oh! come siete poeta, mio caro amico’, riprese sorridendo l’Ambasciatore; e gli altri applaudirono alla mia risposta”, conclude Comboni. Questa scena, alla tavola dell’ambasciatore francese, descritta in questo modo, è degna di una sequenza cinematografica, ma non sono certo che Bellocchio possa includerla nel copione del suo film.

Poesia o concretezza?

Per il missionario Daniele Comboni non si tratta di ideologia ma di concretezza, della capacità di giocarsi tutte le proprie idee nella valutazione del singolo caso, nell’azione concreta a favore di una persona.

Dall’Africa, racconta questo suo ricordo dell’incontro con Edgardo, e ciò che ha significato per lui, in una lettera a padre Giuseppe Sembianti, superiore del suo Istituto missionario a Verona e incaricato della formazione dei candidati, della loro ammissione o esclusione. Comboni contesta la decisione, presa a Verona, di allontanare dall’Istituto delle Missionarie Comboniane la postulante Virginia Mansur, una donna araba, già suora dell’Istituto di San Giuseppe dell’Apparizione e missionaria in Africa per vari anni, che voleva diventare missionaria comboniana.

Il messaggio che Comboni vuole dare al Sembianti è che, nella Roma di Pio IX, il figlio del calzolaio ebreo è trattato meglio di una ex suora araba e missionaria dell’Africa a Verona. Infatti, termina così la sua lettera: “Da questo concluda, mio caro Rettore, che a Roma Virginia, benché infelice ed un essere da nulla, troverà maggior carità, di quella che ha trovato in alcune parti del mondo”[xii].

L’idealismo del missionario da sempre fa sorridere i difensori del politicamente corretto, quelli che tendono a ridurre la realtà a dimensioni ideologiche contrapposte. Nell’Ottocento romano così come oggi, nello schieramento dei vari fondamentalismi ideologici e moralisti.

Per il missionario non si tratta di ideologia ma di concretezza, perché le idee si giocano la loro consistenza nella concretezza dell’azione. Nel caso della donna araba, illuminato dalla vicenda del bambino ebreo, Daniele Comboni gioca, nella difesa di una sola persona, tutta la sua visione missionaria e reputazione personale, scrivendo: “Ho sudato e patito per salvare, bianchi, neri, protestanti, turchi, infedeli, peccatori, e prostitute; ho questuato da Mosca a Madrid, e da Dublino all’India per salvar neri e bianchi, per favorir vocazioni a buoni e a cattivi, ho fatto bene a gente che poi m’ha sputato in faccia, a buone giovani; ho questuato e sudato per alimentar poveri, infelici, preti, frati, monache, e piattere e bastarde… e non suderò e questuerò per Virginia, che fu uno dei più valenti e fedeli operai della vigna aspra e difficile dell’Africa?”[xiii].

Daniele Comboni e Papa Pio IX, ognuno a suo modo, hanno giocato tutto per una sola persona, partendo da quello che percepivano come il bene maggiore di quella persona. Naturalmente noi, oggi, possiamo continuare ad argomentare, nei libri e nei film, se tutto questo è legittimo, se quello che viene percepito come il bene maggiore della persona possa essere il criterio unico, ultimo e supremo, da seguire. Ma qualunque sia la nostra posizione, la capacità di giocarsi tutto per una sola persona va, comunque e sempre, ammirata, come espressione alta di umanità, al di là degli schieramenti ideologici, o del politicamente e religiosamente ammesso, perché “chi salva una persona salva l’umanità, il mondo intero”[xiv], come dicono i nostri fratelli ebrei, un’affermazione che è illuminante non solo per loro, ma anche per tutti noi.
Manuel Augusto Lopes Ferreira, mccj

 

[i] La Repubblica del 20 luglio 2020, p. 28.

[ii] La Repubblica del 20 luglio 2020, p. 28.

[iii] Missionari Comboniani, fondati nel 1867; Missionarie Comboniane, fondate nel 1870.

[iv] Vedere, per esempio, Manuale di Storia della Chiesa, Volume 4, Epoca Contemporanea, p. 63. O ancora: Daniele Comboni e la Rigenerazione dell’Africa, di Fidel González Fernández, Roma 2003, pagina 37-79.

[v] Papa Francesco, Evangelii gaudium, numeri 20-24.

[vi] Per conoscere la vicenda missionaria del Comboni, e la sua novità, vedere: Gianpaolo Romanato, Daniele Comboni, L’Africa degli Esploratori e dei Missionari, Rusconi, Milano 1998.

[vii] Daniele Comboni, Scritti, lettera del 29 settembre 1881: “Ed è quel Bescir… che io fu costretto a mandare a Roma… e che fu messo nell’ospizio dei Catecumeni e dopo un mese fu battezzato, e poi condotto dal Santo Padre Leone XIII. Ora è qui a Khartoum, ottimo catechista nella missione e molto pio”.

[viii] Daniele Comboni, Scritti 6128.

[ix] Daniele Comboni, Lettera citata.

[x] Daniele Comboni, Scritti 7050-7054.

[xi] Margherita Maria Alacoque (1647-1690), suora Visitandina francese, beatificata il 18 settembre 1864, a Roma, da Pio IX.

[xii] Daniele Comboni, Scritti 7054.

[xiii] Daniele Comboni, Scritti 6580.

[xiv] Affermazione del Talmud di Babilonia. Citazione libera di un’affermazione di Itzhak Stern, nel film Schindler’s List.