Gesù invita tutti ad entrare “per la porta stretta”…,  perché la porta stretta è quella che conduce alla vita eterna. Quindi uno dei criteri fondamentali dell’autenticità della vita cristiana consiste nel suo coefficiente di difficoltà o, se si vuole di scomodità. Il termine greco utilizzato per dire lo sforzo da fare per entrare “per la porta stretta” comporta l’idea di lotta e di combattimento. Una vita cristiana addolcita, imborghesita, facilitata, dove viene eliminato tutto ciò che può recare fastidio, è solo un’illusione. Ci vuole un impegno sempre più arduo. Comunque Gesù enuncia piuttosto la condizione per salvarsi: lo sforzo…

Accettare la salvezza per superare la mediocrità

Is 66,18-21; Salmo 116; Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30

Il tema di questa domenica è dato dalla prima lettura tratta dal libro di Isaia. Questo brano si chiude con una visione di grande respiro ecumenico. Il profeta parla di una processione al monte Sion, dopo il ritorno dall’esilio, dove sorge il tempio del Signore ricostruito. Ne fanno parte gli israeliti, ma anche i rappresentanti di tutti i popoli. Infatti, è il contatto con altri popoli, religioni e culture che stimola questo processo di ripensamento universale, da parte di Israele, della propria esperienza religiosa.

In questa processione ideale, i popoli vengono al monte del tempio del Signore per essere integrati nel corteo trionfale del popolo di Dio: tutto sembra ancora collocato dentro un orizzonte etnocentrico. Tuttavia l’oracolo si chiude con un’affermazione ardita che annuncia il superamento di queste barriere tra Israele e i popoli: “Anche tra essi mi prenderò sacerdoti e leviti”. Queste parole danno compimento alla speranza di salvezza universale che percorre l’insegnamento dei profeti e si esprime in alcuni salmi. Se ne ha un esempio nel più piccolo dei salmi, scelto come commento della prima lettura di questa domenica: Lodate il Signore, popoli tutti, voi tutte, nazioni, dategli gloria. Forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura in eterno”.

Lo stesso tema appare nel brano evangelico. Uno della folla rivolge una domanda a Gesù: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. L’interrogatore pensa probabilmente ai suoi connazionali, poiché non poteva immaginare i pagani nella vita eterna e beata, tra gli eletti. Gesù non risponde direttamente ma invita tutti ad entrare “per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno”. Egli enuncia piuttosto la condizione per salvarsi: lo sforzo.

La porta stretta è quella che conduce alla salvezza o alla vita eterna. Quindi uno dei criteri fondamentali dell’autenticità della vita cristiana consiste nel suo coefficiente di difficoltà o, se si vuole di scomodità. Il termine greco utilizzato per dire lo sforzo da fare per entrare nella sala delle nozze comporta l’idea di lotta e di combattimento. In modo chiaro, si tratta di fare penitenza, e urgentemente. Una vita cristiana addolcita, imborghesita, facilitata, dove viene eliminato tutto ciò che può recare fastidio, è solo un’illusione. Ci vuole un impegno sempre più arduo. Gesù commenta questo invito con una breve parabola che ricorda quella più ampia di Matteo sulle dieci vergini: “Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma Egli vi risponderà: non vi conosco, non so di dove siete”.

Durante questa esclusione non vale vantare legami di familiarità e di sangue, l’origine e i precedenti rapporti di contiguità. La “discriminazione” sarà fatta in base al tempo dell’arrivo. Quindi il dialogo che si svolge alla porta tra il padrone di casa e coloro che sono fuori consiste nell’esame della conoscenza reciproca e della qualità dell’agire. Quando le relazioni con Gesù sono puramente esteriori, senza una comunione intima di pensieri e conformità di vita al col suo insegnamento, la salvezza risulta difficile. “Là ci sarà pianto e stridore di denti…”. Si tratta di una scena di delusione e di disperazione degli esclusi nei confronti della situazione dei santi della loro nazione: Abramo, Isacco, Giacobbe e i profeti.

C’è una altra situazione ancora più dura riguardante i nuovi chiamati (dall’oriente e occidente, da settentrione e da mezzogiorno) che prendono parte al banchetto del regno di Dio. “Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi”. Si tratta qui di una logica dell’agire sovrano di Dio nella storia di salvezza che vale non solo per i cristiani del tempo di Luca ma anche per quelli del nostro tempo. Nessuno può contare soltanto sul suo privilegio della sua appartenenza ecclesiale. L’unica cosa che conta è l’accoglienza umile di Gesù e del suo insegnamento, accompagnata da uno stile di vita coerente.
Don Joseph Ndoum

Quella “porta stretta”
aperta sull’infinito

Il desiderio più profondo di ogni uomo è quello di essere felice, felicità che assume forme diverse, dal benessere economico alla salute, dalla serenità interiore alla pace con le altre persone. Tuttavia, questa aspirazione rimane sempre insoddisfatta perché l’esperienza insegna che da solo l’essere umano non è in grado di raggiungerla da sé. Infatti, né la scienza, né la tecnica e neanche il potere sono in grado di soddisfare questa sete di vita, perché Dio ci ha creato per vivere con lui. Infatti, solo la comunione con Dio dona la quiete al cuore dell’uomo e salva la vita dal non senso. Ma come si ottiene la salvezza? È questa la domanda che ogni discepolo pone a Gesù, proprio come facevano i contemporanei del rabbi di Nazaret, a cominciare dal tale di cui parla il vangelo odierno (Lc 13,23) e dall’uomo che domandò al Maestro cosa dovesse fare per avere la vita eterna (cfr Mc 10,17).

La risposta di Gesù spiazza il richiedente: la salvezza non si ottiene facendo qualcosa ma ponendosi alla sua sequela, perché la salvezza è egli stesso. Tutto ciò viene descritto con l’immagine dell’entrare per la porta stretta, quella porta attraverso cui bisogna passare per avere la vita (cfr Gv 10,9). Per questo la salvezza non si ottiene attraverso la partecipazione a riti religiosi o nell’accoglienza formale dell’insegnamento del Maestro, come Gesù spiega al suo interlocutore (Lc 13,26). Al contrario serve entrare in una relazione di amicizia, dove si impara a volere quello che Cristo vuole, conformando giorno dopo giorno la propria vita alla sua, facendo diventare storia concreta il Vangelo e non relegandolo a una semplice parola o a un buon proposito.

Infatti, la tentazione più grande per ogni discepolo, come ha scritto il Santo Padre in Gaudete et exsultate, è quella «di trasformare l’esperienza cristiana in un insieme di elucubrazioni mentali che finiscono per allontanarci dalla freschezza del Vangelo». Per questo se la partecipazione all’Eucaristia non si prolunga nella vita di tutti i giorni con un’esistenza che testimonia un amore fino alla fine riflesso di quello del Maestro, se l’ascolto della Parola non si traduce in un’obbedienza filiale, il discepolo si illude di avere incontrato il Salvatore.

La salvezza, dunque, non la si ottiene rimanendo seduti, immobili nelle proprie convinzioni, certi di avere raggiunto la maturità nella fede, ma al contrario alzandosi quotidianamente per varcare la Porta. Una Porta stretta, perché il Vangelo è esigente, ma che in realtà si apre sull’infinito: Dio, uno e Trino, che dona alla vita un nuovo senso.
[Nicola Filippi – L’Osservatore Romano]

Essere riconosciuti

Durante la sua salita a Gerusalemme, passando attraverso città e villaggi e predicando come un profeta a coloro che venivano ad ascoltarlo, Gesù si sente rivolgere questa domanda da qualcuno in mezzo alla folla: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. È una domanda che abita ancora oggi i nostri cuori: la salvezza sarà riservata a pochi giusti oppure la misericordia di Dio aprirà le porte del cielo a molti?

Il problema della salvezza implica che il Signore vada verso Gerusalemme, abbracci la croce per noi, per la nostra salvezza: non siamo noi che ci salviamo, ma siamo continuamente dei salvati. Il problema non è chiedere se a salvarsi sono pochi o molti, perché Cristo si dona sulla croce per la salvezza di tutti e fra le lacrime vede chi sceglie di rimanere lontano, di non accogliere questo dono, ma lottare per riuscire ad entrare per la porta del Regno che è stretta . Questa porta stretta non è tale tanto per lo spazio, ma per il tempo cioè è una porta che verrà chiusa prima o poi. Ha un tempo in cui è aperta, in cui è l’occasione di salvezza ma prima o poi “il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta”. Siamo chiamati nell’oggi della nostra vita alla vigilanza, a discernere bene come scegliere di condurre la vita secondo il Vangelo.

Gesù non risponde direttamente ma proclama con chiarezza ciò che è urgente per tutti coloro che lo ascoltano: “Sforzatevi (lottate- agonízesthe) di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno”. Ciò che Gesù mette in evidenza, negando un interesse per il numero dei salvati, è la necessità, l’urgenza della lotta. Nessuna illusione: la sequela di Gesù è a caro prezzo, costa fatica e impegno, richiede di combattere con le armi spirituali, a volte fino all’agonia, alla lotta davanti alla morte, come l’ha vissuta Gesù (cf. Lc 22,44). Il Salvatore è sempre solo il Signore, ma a noi è chiesto di entrare per questa porta stretta e se viviamo del Vangelo non è uguale vivere nel peccato oppure no, obbedire o non obbedire a Dio, vivere ciò in cui diciamo di credere o usare solo le parole. Le semplici cose di ogni giorno hanno un peso e sono l’occasione che ci è data per entrare al banchetto di nozze del Signore.

“Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Quanti sono rimasti fuori non ne comprendono il motivo e continuano a pregare e a chiedere l’apertura della porta, ricordando le loro relazioni con il Signore stesso, tutte relazioni religiose, tutte le azioni che hanno vissuto e per le quali ora aspettavano una ricompensa mostrando di non avere imparato dal Maestro la gratuità dell’amore che lui predicava nelle piazze. Ai loro occhi quanto vissuto, ritenuto vicinanza e comunione con il Signore dovrebbe far cambiare la sua decisione e quindi indurlo ad aprire la porta a gente che si ritiene conosciuta da lui, che pensa di vantare meriti dovuti all’appartenenza religiosa.

“Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Il Signore contesta la verità di una vicinanza e di una comunione vantata da quelli che sono respinti, perché giudica che durante la vita non hanno operato la giustizia, sono stati dei malfattori, anche se formalmente ascoltavano la predicazione di Gesù ed erano ospiti alla sua tavola, ma il loro vivere non veniva da Lui, il Signore non ne riconosce l’origine. Questo è un ammonimento che noi cristiani, che ci diciamo discepoli e discepole di Gesù, non prendiamo sul serio. Purtroppo i nostri gesti liturgici, l’appartenenza alla parrocchia, la frequentazione dei pastori posti dal Signore nella sua chiesa, sovente possono diventare sicurezze false, che quasi ci impediscono di chiederci se quotidianamente siamo operatori di bene, cioè abbiamo un comportamento che nutre il bene comune, oppure operatori di male, con parole che dividono e calunniano, con sentimenti di inimicizia e di orgoglio, con comportamenti omissivi, che non fanno il bene. Magari non commettiamo il male seminando violenza, ma basta che pensiamo al nostro comportamento omissivo, a quando non vediamo l’altro e non ci impegniamo per colui che è nel bisogno, affamato, assetato, immigrato, nudo, malato, in carcere (cf. Mt 25,31-46)… Noi crediamo di essere nell’intimità con il Signore, assidui alla sua presenza, ascoltatori della sua Parola, nutriti dai sacramenti, ma domandiamoci se a questo corrisponde ciò che il Signore domanda come impegno, urgenza, amore verso gli altri. Solo se lo riconosciamo nei volti dei fratelli, solo se viviamo quell’amore e quella giustizia che lui ci ha testimoniato in parole e opere, solo se saremo tra gli ultimi che non hanno nulla da pretendere o da vantare, saremo a nostra volta riconosciuti dal Signore e siederemo a mensa non solo con Lui, ma anche con i fratelli che giungono da ogni confine della terra. L’unico segno di riconoscimento e di appartenenza sarà l’ aver accolto la sua salvezza, l’essersi riconosciuti bisognosi di essere salvati e in questa attesa aver continuato ad amare i fratelli nella giustizia che è la sua misericordia. C’è un tempo in cui occorreva il nostro gesto d’amore, c’è un tempo che ci chiede di stare accanto ad un fratello. Mangiamo con lui, ascoltiamo la sua parola, ma i nostri atti possono non arrivare dall’intimità con Lui. La condanna è essere allontanati da Cristo, perché l’essere con lui è il paradiso. Scriveva sant’Agostino: “In quel giorno molti che si ritenevano dentro si scopriranno fuori, mentre molti che pensavano di essere fuori saranno trovati dentro”. Capovolgimento della situazione e delle precedenze: i primi invitati, i primi destinatari della buona notizia appariranno gli ultimi, addirittura saranno fuori dal Regno, mentre proprio quelli che non si supponevano vicini a Dio troveranno posto al banchetto del Regno.

Oggi che occasione mi dà Cristo per stare con lui? Quale porta stretta devo varcare fidandomi di Lui? Quale amore che ha radice in Lui devo imparare e vivere la mia giornata?

Sorelle Povere di Santa Chiara
Monastero Santa Maria Maddalena
http://www.clarissesantagata.it

Sulla soglia

Ci è capitato senz’altro, almeno una volta nella vita, di chiederci che senso abbia vivere in un certo modo, professare una certa fede, tenere a determinati valori. Della serie: ma io, poi, in Paradiso ci andrò? Io mi salverò? Che senso avrà avuto la preghiera, la frequentazione assidua alla celebrazione?

E di solito abbiamo sempre visto la salvezza come un essere affrancati da tutto ciò che ci blocca, ci vincola, ci impedisce di correre speditamente: salvati da tutto ciò che mette a rischio di fallimento la nostra esistenza. Il problema, però, ripete il vangelo di questa domenica, non è soltanto essere “liberi da” (evitare il male, fuggire le occasioni prossime di peccato), ma diventare “liberi per” (imparare a compiere il bene). Posso anche essere affrancato da tutto ciò che mi è di ostacolo, il peccato, ma non posso passare l’esistenza a compiacermi di questo senza sentire un impulso a vivere da uomo libero. Non è sufficiente una politica dell’evitamento se questa poi non si traduce in una convinta prassi che sceglie il bene, comunque.

Una è la categoria – vangelo alla mano – che deve temere qualcosa da Dio, quella di chi si ritiene giusto, chi si sente arrivato, chi sente di dover essere annoverato tra i consiglieri dell’Eterno, chi crede di dover meritare il plauso per essere stato nella vita in un certo modo, chi ha vissuto cercando di ottenere punti.

Il vangelo riserva sempre delle sorprese. E la fine ne riserva ancora di più. C’è qualcuno – afferma Gesù – che alla fine può operare una rimonta da lasciar sbalorditi chi per anni si è allenato regolarmente. Accade nello sport, accade nella vita, accade nella fede. Ci si può allenare per anni, infatti, dando per scontato l’esito e, quindi, quasi sedendosi e crogiolandosi, andando avanti più per inerzia che per passione, più per dovere che per amore. C’è chi, invece, toccato dalla grazia, tenta l’ultimo colpo per un sussulto del cuore, ritrovandosi una energia insperata.

Tutto sta nell’essere trovati idonei ad attraversare una porta che Gesù definisce stretta per oltrepassare la quale è necessario uno sforzo. C’è il rischio, infatti, che quella porta possa essere chiusa addirittura con somma sorpresa di tanti che pure vantavano un diritto di primogenitura: dopotutto abbiamo mangiato e bevuto con lui. Lo dirà Gesù un giorno a quei Giudei che credevano di avere il futuro assicurato perché “figli di Abramo”. La garanzia, infatti, non te la dà la tua origine (Abramo, in questo caso) ma il compiere ciò che Abramo fece: fidarsi di Dio.

“Allontanatevi da me, voi operatori di ingiustizia”. A salvarci, infatti, non è anzitutto una intensa vita di preghiera, soltanto, ma la capacità di intessere relazioni vere improntate a misericordia e carità.

Che cos’è che può diventare ostacolo al passaggio di quella porta che Gesù definisce come unica per avere accesso alla vita in pienezza? Il gonfiore della nostra superbia e del nostro orgoglio, l’incapacità ad avere il giusto sentire di sé. L’unico codice che permette l’accesso attraverso quella porta è l’umiltà.

C’è un criterio per essere riconosciuto da lui? Sì, c’è: la possibilità, per lui, di riconoscersi in me. Sarò riconosciuto da lui, se in me saranno presenti “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”. La vita cristiana non è anzitutto un insieme di cose da fare ma permettere che i sentimenti di Gesù Cristo scorrano in me.

La vita dell’uomo è tutta un attraversamento di soglie, pensiamo soltanto i passaggi da un’età all’altra, o alle porte che attraversiamo dal mattino alla sera per passare dagli impegni agli affetti. Qual è lo spirito con cui attraversiamo queste soglie?

Saremo riconosciuti al passaggio della porta stretta se saremo stati capaci di aprire la porta del nostro cuore al Signore che continuamente bussa per essere accolto.

Don Antonio Savone
https://acasadicornelio.wordpress.com

Domenica «del numero degli eletti»

Luca 13,22-30; Isaia 66,18-21 (leggi 66,18-24); Sal 116;Ebrei 12,5-7.11-13

«Sono pochi quelli che si salvano?» A tutti è capitato di porsi questa domanda, di fronte a certe esigenze della fede o al modo in cui venivano presentate, o pensando alla moltitudine degli uomini senza Dio, senza il Cristo. Accanto a una certa sensazione di angoscia, questo pensiero normalmente suscita in noi anche la convinzione di essere comunque dalla parte giusta, a differenza degli «altri». A meno che non sì lascino cadere le braccia, dicendo fra sé, con un certo fatalismo: «In ogni caso, qualunque cosa si faccia…».

Una cosa è certa: porre la questione teorica del numero dei salvati non serve a nulla. Che la porta della salvezza sia stretta, e che sia aperta ad alcuni e chiusa ad altri, lo sappiamo. Ciò che conta è agire, facendo coraggiosamente tutto ciò che è in nostro potere per arrivare ad entrarvi e restando vigilanti sino alla fine, perché non c’è prenotazione che ci garantisca, una volta per tutte, un posto nella sala del banchetto. Il Regno di Dio nella Scrittura è infatti spesso simboleggiato da un banchetto, un luogo d’incontro e di comunione. Ci è offerto, siamo invitati, ma ci dobbiamo andare. E un dono gratuito: ma deve essere accolto.

Il popolo d’Israele credeva, per la sua storia e per il suo passato, di essere privilegiato e di poter godere incondizionatamente di questo invito. Il profeta che legge in profondità gli avvenimenti, riconosce che il privilegio non è né incondizionato né esclusivo. Gli uomini stanno di fronte a Dio come un’unica e sola umanità. Dall’incontro con lui non è escluso nessun popolo, nessun uomo. Tutti sono fratelli perché un rapporto radicale li lega al medesimo Padre.

Il privilegio di Israele aveva questo significato: proclamare a tutti gli uomini che non è l’unità di origine che fonda l’uguaglianza tra gli uomini, non l’appartenenza a una razza o a una classe che giustifica una ricchezza o una libertà. Tutti gli uomini devono avere le stesse possibilità perché tutti hanno un’identica mèta: incontrarsi col Padre, contemplare la stessa gloria, e quindi operare una convergenza e una uguaglianza universali (prima lettura).

L’appartenenza al popolo di Dio non è un privilegio neanche per noi, ma un servizio per gli altri.

Un identico invito rivolto ancora da Dio a tutti gli uomini e alle stesse condizioni per rispondervi è il principio di una nuova uguaglianza e di nuovi rapporti fra gli uomini. Tutti dobbiamo arrivare nel Regno, entrare nella casa del Padre, sedere alla stessa mensa. Tutti ci muoviamo nella storia verso un medesimo futuro, una medesima terra promessa. Se c’è una sola mèta, c’è anche una sola porta d’ingresso.

L’universalismo intravisto dai profeti viene portato a pienezza da Gesù. Per i suoi connazionali, chiusi nel privilegio, egli presenta la parabola della porta stretta. Sta per nascere un mondo nuovo, in cui Giudei e pagani si troveranno insieme alla stessa tavola, perché l’impurità dei pagani, che vietava ai Giudei di mettersi a tavola con loro, è definitivamente cancellata. La selezione alla porta del banchetto non consisterà nella separazione di Israele dai pagani, ma nella scelta di chi avrà risposto all’invito con sollecitudine e di chi avrà praticato la giustizia, chiunque esso sia.

La tradizione, la parentela non gioveranno per sé alla salvezza e neppure le parole, la cultura o l’appartenenza alla Chiesa. Sarà solo l’impegno per la costruzione di un mondo che sia visibilmente la concreta realtà del Regno.

L’impegno per realizzare una comunione fa scoprire il volto di chi mi siede vicino o davanti alla mensa del regno. Una cultura cristiana forse lo rendeva meno chiaro e sovente gratificava automaticamente di salvezza facendo dei battezzati gli appartenenti al regno, com’era per gli Ebrei l’appartenenza alla stirpe di Abramo. L’invito al banchetto ha per tutti una sola risposta: donare la vita sull’esempio di Cristo. La Croce è anche il modo con cui egli è entrato: è la porta stretta. Solo chi avrà donato la vita come Gesù potrà entrare nella sala e sedere al banchetto. Egli è davvero la Via, la Verità e la Vita.  (…)

Con le parole di questa pagina dell’Evangelo Gesù è consapevole di provocare una crisi in coloro che lo seguono; ma si è preparato a questa prova, disposto a lasciarci la vita. E si preoccupa dell’incuria e dell’apatia di coloro che invece dovrebbero illuminare le folle, cioè gli scribi. È a loro che rivolge la parabola della porta stretta. Sta per nascere un mondo nuovo, in cui giudei e pagani si ritroveranno alla stessa tavola; ma le rubriche e le pratiche religiose addormentano nell’incoscienza i maestri del popolo, i quali così perderanno il posto nella sala del banchetto. Anche tanti cristiani si assopiscono, nella convinzione di avere la verità e di godere già la salvezza. A forza di dormire, non potranno più varcare in tempo la porta del mondo nuovo, dove saranno invece preceduti da tutti gli uomini in buona fede, incessantemente alla ricerca della verità e della gioia.

Esaminiamo il brano

v. 22 – «Passava per città e villaggi»: Gesù lungo la sua via, che percorre accompagnato dai suoi discepoli, ma anche dalla Donne fedeli (Lc 8,1-3), visita tutti gli abitati che gli è possibile, annunciando l’Evangelo e insegnando le realtà del Regno, operando grandi prodigi di guarigione e di liberazione dai demoni, assolvendo tutto il suo programma messianico.

«insegnando, mentre camminava verso Gerusalemme»: Idue verbi, insegnare e camminare, sono in relazione con il contenuto della domanda dell’anonimo interlocutore, poiché 1’insegnamento di Gesù è a riguardo di una salvezza che si compirà in Gerusalemme. La questione posta è veramente rilevante nell’ambiente religioso-culturale del tempo: alla fine dei tempi, quanti si salveranno?

v. 23 – «Un tale gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”»: Appare abbastanza incongrua la brusca, equivoca e non specificata domanda rivolta dal solito ignoto a Gesù che passa, se i salvati siano “pochi”. Forse l’interlocutore anonimo era uno dei tanti che attendevano e trepidavano per questa realtà così attesa, la salvezza, e forse voleva la conferma pacifica che essa era destinata solo a un numero ristretto di privilegiati, quelli che il “liberatore” venturo avrebbe compreso nella sua azione. La domanda rivela e indica che chi la pone conosce in modo distorto “la salvezza”divina, la quale non si pone nella prospettiva dei pochi o dei molti.

«Rispose»: Gesù non risponde a lui, ma alla folla circostante e non risponde direttamente, ma trasforma la domanda in un insegnamento. Per prima cosa ci sollecita a non preoccuparci per un futuro conosciuto soltanto dal Padre, ma a focalizzare la nostra attenzione sul momento presente.

v. 24 – «Sforzatevi di entrare»: Gesù subito indica quale sia la direzione vera e l’itinerario unico verso la salvezza autentica, quella divina: è cercare con ogni sforzo di «lottare per entrare attraverso la porta stretta», quella più difficile (Mt7,13), l’unica entrata. Tipico qui è il verbo di questo medio imperativo presente “lottate”, agōnízomai che indica l’agone, la lotta, la gara sportiva in atto.

«per la porta stretta»: È una porta stretta e l’entrata richiede uno sforzoPer comprendere l’entità di questa richiesta possiamo aprire il libro degli Atti dove, subito dopo il racconto del tentativo di lapidazione subito da Paolo a Listria, leggiamo: «Dopo aver annunciato l’Evangelo a quella città e aver fatto un numero considerevole di discepoli, ritornarono a Listra, Iconio e Antiochia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede “perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni”» (14,22-23). Entrare nel Regno richiede perseveranza.

La collocazione della risposta di Gesù sulla strada che conduce a Gerusalemme precisa che si tratta di perseverare nella sequela di Colui che cammina verso la Croce. Ad una comunità oscillante tra facili entusiasmi e successivi abbandoni, Luca ricorda che occorre «prendere la propria croce ogni giorno» (9,23), per non essere come coloro che «quando ascoltano, ricevono la Parola con gioia, ma non hanno radici; credono per un certo tempo, ma nel tempo della prova vengono meno» (8,13). Per la mancanza di perseveranza “molti” non potranno entrare.

«molti cercheranno di entrare ma non ci riusciranno»:Gesù spiega che molti cercheranno di entrare e non potranno, perché la loro “lotta” non fu sufficiente o non fu perseverante e mancò a essi la forza, e poi in realtà, come è dato di vedere, tutti o quasi tutti di solito cercano di entrare per la porta larga e facile, nell’illusione, perché non esiste.

v. 25 – «Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta…»: Ora Gesù dà un insegnamento parabolico. Il richiamo è di nuovo alla parabola delle 10 Vergini (vedi Mt25,1-13; qui in specie i vv. 10-12). Il Padre di famiglia, termine che indica anche lo Sposo, quando viene dalle nozze chiude la porta della casa dove si celebra il convito. Egli vuole per tutti i presenti l’unione, la pace e l’ordine e quindi vuole che tutti già stiano dentro, che tutti si siano preparati, che tutti abbiano indossato la veste nuziale (Mt 22,1142). A guardare bene, come sempre negli evangeli quando si tratta della preparazione del Convito, oppure nella narrazione delle nozze di Cana (Gv 2,1-12), non si parla della Sposa, ma è chiaro che la Sposa del Signore è la comunità stessa che Egli si è trovata, si è acquistata e si è formata da ogni parte, in città e nella campagna, nei palazzi e nei crocicchi, comunità di poveri e di ricchi, di sani e di malati, di abbandonati e di trovati, impegnando anche tutti i suoi servi fedeli per questo grande raduno. Egli lo ha convocato e lo ha bandito, e se qualcuno ha diritto di rifiutarlo liberamente, nessuno ha diritto di ignorare in che consista, e come si svolga, e quale scopo voglia raggiungere.

Luca aggiunge anche un particolare inquietante: la porta non rimarrà aperta per sempre. Il padrone di casa sta per tornare e la porta sarà chiusa. La domanda iniziale deve dunque essere modificata dal lettore: non «quanti si salveranno», ma «come essere incluso».

Tutti sono avvertiti. Perciò chi ritarda, chi non è pronto, chi si fa trovare impreparato è colpevole. Per sua sola mancanza egli resta fuori dell’aula del convito, e bussa in irrimediabile e quindi fatale ritardo, invocando il Signore affinché apra anche a lui.

v. 26 – «Allora comincerete a dire…»: del loro ritardo, della loro impreparazione, portano perfino i motivi pretestuosi, anzitutto quello più stringente, l’avere «mangiato e bevuto» davanti a Lui, il che significa con Lui. Questa espressione semitica indica una vita trascorsa insieme. E avere «mangiato e bevuto» sempre con il Signore, nel senso visto adesso, segnerà l’idoneità di alcuni discepoli a essere Apostoli, e quindi «testimoni della Resurrezione» (1,22; poi At10,41; 1,4). Insomma, questi ritardatari si appellano al fatto, assunto come valido e cogente, di avere vissuto sempre con il Signore.

Come gli scribi dei tempi di san Luca, che si aggrappavano ai riti e alla prediche dell’antico testamento, pensando che avessero il potere di condurli al messia, oggi alcuni cristiani che credono di poter evitare le lotte e le contraddizioni di questo mondo, e non si sporcano le mani, accontentandosi di un cristianesimo a buon mercato, vissuto in un piccolo gruppo in cui ci si trova a proprio agio. La sola strada che conduce alla sala del banchetto è quella su cui si cammina con Gesù: una strada dura, ma su cui avanzano con gioia uomini e donne che vengono da ogni luogo, impazienti di salire a Gerusalemme, costi quello che costi. Se non abbiamo il paradiso in fondo al cuore, non possiamo sperare di entrarvi!».

«hai insegnato nelle nostre piazze»: eccepiranno anche di avere ascoltato la sua dottrina predicata apertamente sulle piazze. “Ascoltare”, come si sa bene, biblicamente significa “obbedire”, ossia eseguire fedelmente la volontà espressa di colui che ha parlato e si è ascoltato. Anche questo è eccepito falsamente, altrimenti quelli non si troverebbero adesso agli estremi. Infatti, ascoltarono solo materialmente, ma poi non misero in pratica. Infatti, «chi ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica, è madre e fratello di Gesù» (Lc 8,21). Fa parte della sua famiglia. È la sua Comunità. È finalmente questa sua Sposa. Le parole di Gesù non sono “magiche”: richiedono l’attuazione responsabile di chi ascolta con un «cuore integro e buono, capace di custodirle e di produrre frutto con perseveranza» (8,15).

v. 27 – «egli vi dichiarerà…»: La prima risposta di Gesù è netta e dura: «Non conosco voi donde siate»Essa sarà irremovibile, è la prima e l’ultima. Con il sigillo finale della sentenza di condanna:

«Allontanatevi via da me, »: è una citazione del Sal 6,9. A essi fu lasciato tutto il tempo di operare la giustizia prescritta e non l’iniquità contraria che nega ogni giustizia. Non vollero farlo. Nulla più adesso possono pretendere dal Signore pur sempre longanime.

«voi tutti operatori d’iniquità»: Il problema è operare lagiustizia. Il termine è molto importante in Luca al punto che Gesù stesso è qualificato come “giusto” (23,47; cfr. At 3,14; 7,52; 22,14). Dikaios (che con ‘alfa privativo diventa Adikía, cioè senza giustizia) non indica solamente l’innocenza, ma una qualità religiosa e morale, designando chi vive nel corretto rapporto con Dio e trasforma l’esistenza in un atto di adesione alla sua volontà. Il Regno appartiene ai giusti di ogni tempo.

vv. 28 – «Là ci sarà pianto…»: Adesso segue la descrizione del Convito. Da fuori, gli esclusi riusciranno solo a intravedere i Patriarchi, padri del popolo di Dio, Abramo e Isacco e Giacobbe, e tutti i Profeti di Dio. Essi sono le figure rappresentative dei beati che sono ammessi a godere del Regno di Dio, insieme a tutto il loro popolo redento. Quelli esclusi, da fuori piangeranno senza più speranzaSta qui un velato rimando, che sarà poi sviluppato, alla parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone (Lc 16,19-31), ancora con il richiamo ad Abramo ed ai Profeti (Lc 16,24-31).

v. 29 – «dall’Oriente e dall’Occidente, dal Settentrione al Meridione»: sono due inclusioni letterarie che indicano la totalità dei popoli della terra, che partiranno dai quattro punti cardinali e si disporranno al Convito nel Regno.«siederanno»: Questo disporsi è indicato dal verbo anaklínōche significa lo stare semisdraiati su cuscini intomo alla mensa comune, come era tipico per il mangiare nel mondo antico dell’uomo libero, da cui si ha il latino “triclinio” Luca spiegherà nel «lógìon ecclesiale» della Cena, che il Regno è inaugurato dalla Resurrezione e consiste nel Convito, al quale dopo la Resurrezione già mangerà e berrà lo stesso Signore Risorto con i suoi già in terra da allora per sempre(Lc 22,14-20 che appartiene all’Evangelo della Domenica delle Palme).

v. 30 – «Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi»: La clausola finale è amara. Gli ultimi tra i chiamati hanno obbedito e si ritroveranno come primi. Mentre i primi chiamati che non obbedirono, si troveranno ultimi, con la porta chiusa, saranno esclusi. Gesù lo ripete anche, in altro contesto, Mt 19,30.

Il Signore così mostra che nulla avverrà alla fine, che non sia già dall’inizio del tutto chiaro in forza della sua Rivelazione di misericordia. Ciascuno è avvertito. Chi dunque si salverà? Gesù ci ha fatto capire che non è un problema di numero, ma di cuore: si salveranno tutti coloro che abbracceranno la logica della croce, che seguendo il loro Signore diverranno simili a lui. Il Padre aprirà per loro il Regno, perché riconoscerà nei loro volti i lineamenti del Figlio.

Ritroviamo un’eco di queste parole in At 10,34-35: «Pietro allora prese la parola e disse: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”».

Ognuno può essere escluso e ognuno può essere incluso; dinanzi alla parola profetica di Gesù non conta ormai più l’essere giudeo o pagano, ciò che conta è la conversione e lo sforzo perseverante per non divenire ‘operatori d’ingiustizia’. L’appello ultimo dunque è al lettore perché agisca ‘ora’ per non correre il rischio di negarsi l’ingresso nella porta della vita.

Quanti si salveranno? Se la domanda è sbagliata, la rispostadel profeta escatologico è sorprendente: tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, popolo costituito di Giudei e Gentili, di poveri, di disabili, di donne, di chiunque ‘lotta’, perseverando nella sequela.

Preghiamo dunque:

O Padre, che chiami tutti gli uomini
per la porta stretta della croce
al banchetto pasquale della vita nuova,
concedi a noi la forza del tuo Spirito,
perché unendoci al sacrificio del tuo Figlio,
gustiamo il frutto della vera libertà
e la gioia del tuo regno.

Abbazia Santa Maria di Pulsano
http://www.abbaziadipulsano.org