Proprio quando si scandalizzano di Gesù, senza volerlo, i farisei affermano una delle cose più belle su Dio: Egli accoglie i peccatori e mangia con loro. Egli è il Dio che si mescola con l’umanità ferita e si sporca le mani con la fragilità. E quando ci scandalizza un Dio così umano e una Chiesa che si china sulle ferite del mondo è solo perché dimentichiamo che, in realtà, siamo noi la moneta perduta, la pecora smarrita, il figlio lontano dal calore della casa.

Perdonare con gioia
Es 32,7-11.13-14; Salmo 50; 1Tm 1,12-17; Lc 15,1-32

Domenica scorsa il Signore Gesù spiegava come devono comportarsi coloro che vogliono essere suoi discepoli: amarlo al di sopra di tutto, mettere in secondo piano gli affetti, gli averi, come pure la propria vita, ed essere pronto a condividere la sua sorte, portando la croce dietro di lui. Questa domenica, l’immagine di Dio misericordioso che accoglie il figlio perduto e lo ristabilisce nella dignità filiale domina la liturgia della parola.

Le due prime piccole parabole (del pastore e quella della donna) sembrano preparare la parabola del padre misericordioso e dei due figli. La misericordia di Dio si manifesta anche nelle due altre letture. Infatti, le due prime letture ci presentano l’esperienza del perdono di Dio vissuta da due personaggi emblematici: il patriarca Mosè e san Paolo.

Il patriarca Mosè si era recato sul monte Sinai per ricevere le tavole della Legge, mentre i figli di Israele in attesa si abbandonarono nel peccato dell’idolatria, con la venerazione di un’immagine a portata di mano. Dio decise allora di distruggere il popolo dalla dura cervice. Ma l’intercessione di Mosè, che nella supplica parte dall’esperienza dell’Esodo e risale fino all’impegno di Dio con i padri (Abramo, Isacco e Israele, suoi servi, ai quali ha giurato di rendere la posterità numerosa come le stelle del cielo…), gli ottiene il perdono di Dio. Sembra che Dio abbia spesso bisogno di qualcuno che, stando alla sua presenza, porta alla luce il suo lato positivo e gli ricorda o riscopre il suo volto misericordioso.

Anche san Paolo si inserisce in questa corrente dell’amore misericordioso di Dio. Egli si autopresenta come il prototipo dei peccatori, poiché era “un bestemmiatore, un persecutore e un violento”. Proclama la sua gioia perché il Signore gli ha concesso la sua misericordia, e gli ha restituito piena fiducia chiamandolo all’apostolato. Dio gli ha usato misericordia (“tutta la sua magnanimità”) per mostrare che egli vuole salvare tutti.

Nel brano evangelico, la raccolta lucana delle tre parabole della misericordia di Dio è preceduta da un contesto vitale molto suggestivo. Il testo dice che si avvicinarono a Gesù “tutti i pubblicani e peccatori per ascoltarlo”, cioè gli impuri (a causa del loro contatto permanente con gli stranieri o pagani) e quelli che trasgredivano la Legge di Mosè. Sul lato opposto si colloca la scena di due altre categorie, “i farisei e gli scribi”, che si ritenevano buoni, e mormoravano contro Gesù perché “riceve i peccatori e mangia con loro”.

Nelle due prime parabole (della pecora e della dracma) è esplicito l’invito a partecipare alla gioia e alla festa di Dio per il peccatore che si pente. Infatti tutta la sollecitudine e tutto l’interesse di Dio stanno nel cercare e ritrovare quello che è perduto. Egli si occupa con tenerezza e singolarmente delle sue creature. Ogni persona ha un valore unico, irripetibile e non sostituibile agli occhi di Dio. Siamo importanti per Dio al punto che siamo oggetto di ricerche ostinate, di preoccupazioni, di sollecitudini infinite da parte di Dio e “c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”. Queste due parabole sono per noi peccatori un motivo grande di speranza. Dio che ci ha creati per la felicità eterna non ci abbandona mai.

La terza parabola ruota attorno alla figura del padre e descrive lo smarrimento del peccatore, il suo pentimento e il suo perdono. Si tratta ancora di una lezione sulla misericordia di Dio, sull’accoglienza paterna che egli fa al peccatore pentito. Ma prima di arrivare al perdono, la parabola ci presenta lo smarrimento o il peccato del figlio prodigo e le tappe della sua conversione: il desiderio di una vita libera, piena di godimenti, la richiesta della sua parte di eredità, l’abbandono della casa paterna e una serie di azioni degradanti, la miseria (all’estremo della sua degradazione egli tenta di sfamarsi con il cibo degli animali immondi; era la suprema umiliazione per un israelita) che lo porta alla riflessione e a uno sguardo su un passato fedele paragonato alla triste condizione attuale, alla speranza di un perdono possibile, al dispiacere della sua colpa e al ritorno in grazia. La sua colpa è troppo evidente; però, la sua risoluzione di chiedere perdono al padre appare come la riparazione dell’offesa.

Questa profonda umiltà fa pensare a una conversione completa. A questo punto entra in scena il padre che prende l’iniziativa dell’accoglienza e della riabilitazione del figlio, prima che egli faccia la sua dichiarazione (“Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te…”). I sandali, il vestito e l’anello stanno per indicare la dignità recuperata e la comunione col padre. Il ritorno a casa del figlio minore viene considerato dal padre una risurrezione, perché per il padre era come morto. Il comportamento di Dio è diverso dal nostro. Non è esatto dire che portiamo a Dio i nostri peccati, quando ci convertiamo a andiamo a confessarci, poiché li riportiamo piuttosto la nostra presenza con la nostra conversione. Il padre non sta neppure a sentire le mascalzonate del figlio, non è quello che lo interessa, ma il fatto che il prodigo entri da “figlio” in casa. È il motivo della festa. Il tentativo fatto dall’uomo di prendere nelle mani la propria salvezza, come lo ha preteso la “modernità”, contro un Dio sentito come troppo invadente, può essere paragonato al comportamento del figliol prodigo.

Onestamente, e nessuno lo può negare, siamo anche noi oggi pervenuti, con la crisi della modernità, a una situazione in cui è urgente un pentimento e un ritorno al Padre. Gli uomini non si sentono più peccatori, la colpa è sempre degli altri. Oppure. ci sono i giusti che si credono peccatori, e i peccatori che si credono giusti. In ogni caso, bisogna sempre aver presente in mente che: È umano commettere peccati e diabolico perseverarvi; è cristiano odiarli e abbandonarli. Il figlio maggiore non si è allontanato dalla casa paterna ma ha fatto di peggio. Ha bisogno di premio. Non considera premio e gioia la possibilità di osservare i comandamenti del padre e di stargli vicino. Il problema non è di andare o rimanere col padre, ma di rimanere in “un certo modo”. Poiché c’è un rimanere senza amore e senza gioia che rappresenta un tradimento sotto le apparenze della fedeltà e della regolarità. Infatti, come i farisei e gli scribi, con la loro giustizia esteriore, si può “ubbidire” esattamente e non avere nulla a che vedere con Dio, rimanendo sempre “distante” da lui.
Don Joseph Ndoum

Il Padre dei perduti e dei lontani

Proprio quando si scandalizzano di Gesù, senza volerlo, i farisei affermano una delle cose più belle su Dio: Egli accoglie i peccatori e mangia con loro. Egli è il Dio che si mescola con l’umanità ferita e si sporca le mani con la fragilità. E quando ci scandalizza un Dio così umano e una Chiesa che si china sulle ferite del mondo è solo perché dimentichiamo che, in realtà, siamo noi la moneta perduta, la pecora smarrita, il figlio lontano dal calore della casa.

Le tre parabole, allora, raccontano anzitutto la nostra storia ferita, segnata da perdite e lontananze, così bisognosa di misericordia e di abbracci. Al contempo, esse ci svelano il vero volto di Dio: amore senza misura, oltre il calcolo, oltre la pura giustizia umana. Mentre noi ci fermiamo all’errore, Dio ci viene a cercare e spera il nostro ritorno per far festa. Mentre noi abbiamo piantato le tende nella giustizia umana del “chi sbaglia, paga” e proiettiamo questa immagine perversa anche su Dio, Egli vive il tormento per chi è perduto e non si dà pace fin quando non ha cambiato il nostro cuore. Così, Gesù rovescia la nostra immagine spietata di Dio, per annunciare che Egli non è il Signore dei giusti, dei puri e dei perfetti, ma il Padre dei perduti e dei lontani.

I due verbi sullo sfondo sono “perdere” e “ritrovare”. Siamo tutti lontani da noi stessi, dagli altri e da Dio, bisognosi di tornare a casa; tutti perduti, nelle pretese eccessive del nostro io, nelle effimere illusioni del mondo, negli affetti disordinati o semplicemente nelle nostre paure e fragilità. Ma, soprattutto, siamo mendicanti di abbracci, di avvertire ancora il brivido dell’essere amati e accolti senza che nessuno ci chieda il conto. E Dio, infinita misericordia, è colui che ricerca il perduto, ma anche colui che attende con speranza il nostro ritorno: un Padre che ci vede “quando siamo ancora lontani”, che scruta l’orizzonte dalla terrazza di casa desiderando ardentemente di rivedere l’amato.

Cercare e sperare, senza scoraggiarsi mai, sono i nomi della misericordia che possono diventare lo stile delle nostre relazioni e del nostro stare al mondo. Verso noi stessi e verso gli altri. Oltre la pura giustizia umana e senza arrendersi mai dinanzi al male. Come il Padre che — scriveva David Maria Turoldo — «attende ogni giorno per anni interi, salendo sul terrazzo con la speranza di scorgerlo di lontano, e di fargli qualche gesto con la mano… tanto da indicargli che non abbia paura di tornare».
[Francesco Cosentino – L’Osservatore Romano]

Il ‘Dio della festa’ vuole che neppure una pecora si perda!

Esodo 32,7-11.13-14; Salmo 50; 1Timoteo 1,12-17; Luca 15,1-32

Riflessioni
Il capitolo 15° è il cuore del Vangelo di Luca. Con le tre famose parabole - della pecora smarrita, la moneta perduta, il papà di due figli sbandati - Gesù ci rivela il volto e il Cuore di Dio: è un Dio-pastore, un Dio-madre, un Dio-padre. Un Dio che che possiamo incontrare nella vita: in casa, nel lavoro, nelle vicende quotidiane. Un Dio che è Padre e Madre, buono, amico, solidale, accogliente; Dio di tenerezza e di misericordia, sempre disposto al perdono, all’abbraccio, a voltar pagina, a far nuovo il cuore di chiunque a Lui si affida e di Lui si fida. Per Lui nessuna pecora è anonima o superflua: tutte sono importanti, nessuna si deve smarrire, fa il possibile perché neppure una si perda e, se succede, fa di tutto per ricuperarla. Dà perfino la vita per riunire i figli dispersi (cfr Gv 11,52). Il Padre ricco di misericordia è il nucleo centrale del Vangelo - un vangelo nel Vangelo! - la bella notizia per eccellenza, che apre il cuore alla speranza, alla gioia, alla vita.

L’orientamento fondamentale di una persona e la sua solidità psichica-emotiva-spirituale dipendono anche, in buona misura, dall’idea che una persona ha di Dio. Spesso, per condizionamenti familiari o metodi educativi, varie persone sono indotte a portarsi addosso l’idea falsa di un dio giudice severo, gretto, controllore, castigatore, lontano, distratto, chiuso nel suo mondo… Nulla di più aberrante e pericoloso! Tutte e tre le parabole odierne di Luca terminano con una festa. Il Dio del Vangelo è Dio della festa, della vita, della gioia; vuole che siamo felici. Ama la festa, gioisce, invita a far festa, provoca la festa… (v. 5.6.7.9.10); ama essere nostro compagno di viaggio nei momenti di gioia come pure in quelli di dolore, sempre pronto a dare ali alla speranza e coraggio nelle frustrazioni.

Il Dio cristiano offre a tutti la possibilità della festa, con la tipica gioia che nasce dal mistero pasquale. Ma sempre con libertà. Dio è Padre, non un padrone: nella sua casa vuole figlie e figli liberi e gioiosi, non servi amareggiati; invita ma non costringe. Per esempio, Gesù non dice che il pastore abbia poi sbarrato la porta dell’ovile per impedire alle pecore altre scappatelle; né dice che il padre abbia chiuso a chiave la porta di casa per impedire al figlio minore di andarsene nuovamente; non dice neppure se, alla fine, il figlio maggiore sia entrato alla festa, o sia rimasto chiuso nella posizione di rifiuto di suo padre e di suo fratello… Dio si offre come centro e luogo della festa, della vita, ma non forza nessuno. Nella sua libertà l’uomo può anche arrivare al punto di resistere a Dio e di chiudersi al dono che Egli fa di sé stesso. Ma se uno Gli apre il cuore, Dio entra a far festa con lui (cfr Ap 3,20).

San Paolo (II lettura) si presenta come una persona radicalmente trasformata da Dio, il quale, andando oltre i gravi sbagli dell’apostolo, lo ha reso forte, lo ha giudicato degno di fiducia chiamandolo al suo servizio e usandogli misericordia (v. 12-13). Infatti “Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori” (v. 15), rivelandoci così il vero cuore di Dio Padre, come appare già nel Primo Testamento (I lettura). Dio minaccia di castigare il popolo che lo ha rifiutato facendosi “un vitello di metallo fuso” (v. 8). In realtà, la minaccia è solo apparente, è parte di una pedagogia salvifica più ampia, per far comprendere la forza della preghiera di intercessione. Mosè ne è un esempio luminoso: egli si colloca sulla breccia, fa da ponte fra il popolo e Dio, supplicando Dio in favore del popolo. Da bravo avvocato, osa perfino suggerire a Dio le ragioni per le quali Egli non può distruggere il suo popolo (v. 11-13).

Mosè appare come modello di orante, convinto della forza missionaria della preghiera di intercessione, che spesso va unita all’offerta della sofferenza e della propria vita. «Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio» (v. 11). “In realtà l’espressione usata nel testo originale ebraico andrebbe tradotta così: ‘Mosè allora cominciò ad accarezzare il volto del Signore, suo Dio, dicendo…’. Mosè si comporta come un bambino che vede il papà corrucciato e si mette a coccolarlo, fino a quando riesce a strappargli un sorriso. L’immagine di Mosè che accarezza il volto di Dio è una delle più belle della Bibbia” (Fernando Armellini). La preghiera di intercessione è documentata nella Bibbia e nella storia della spiritualità incarnata nei grandi oranti: Abramo, Mosè, Samuele, Davide, Geremia, Ester, Paolo, Maria, Cristo, lo Spirito Santo… E poi San Benedetto, Teresa d’Avila, Giovanni M. Vianney, Teresa di Calcutta (*) e tanti altri grandi evangelizzatori che imploravano da Dio l’efficacia della loro azione missionaria e la conversione della gente. Un esempio fra gli altri è San Daniele Comboni, un missionario che scriveva dall’Africa: “L’onnipotenza della preghiera è la nostra forza”.

Parola del Papa

(*) “Non esiste alternativa alla carità… Madre Teresa, in tutta la sua esistenza, è stata generosa dispensatrice della misericordia divina, rendendosi a tutti disponibile attraverso l’accoglienza e la difesa della vita umana, quella non nata e quella abbandonata e scartata… Questa instancabile operatrice di misericordia ci aiuti a capire sempre più che l’unico nostro criterio di azione è l’amore gratuito, libero da ogni ideologia e da ogni vincolo e riversato verso tutti senza distinzione di lingua, cultura, razza o religione. Madre Teresa amava dire: «Forse non parlo la loro lingua, ma posso sorridere». Portiamo nel cuore il suo sorriso e doniamolo”.
Papa Francesco
Omelia nella canonizzazione della Madre Teresa di Calcutta, 4.9.2016

P. Romeo Ballan, MCCJ

Domenica 
«della parabola della divina misericordia»

XXIV-C (2)

Luca 15,1-32;
Esodo 32,7-11.13-14 (leggi 32,1-14); Sal 50; 1 Timoteo 1,12-17

L’amore di Dio verso gli uomini è così gratuito che non possiamo pretendere di averne diritto: è talmente assoluto che non possiamo mai dire che ci venga a mancare. L’amore umano, al contrario, è così limitato e chiuso dal nostro egoismo, si spinge così raramente oltre la stretta giustizia o fuori della severità moraleggiante, che noi immaginiamo facilmente un Dio vendicatore ed una religione basata sul timore. Chi di noi sa ancora che la «grazia» che egli chiede a Dio significa «tenerezza» di Dio e «pietà» per il peccatore? Soltanto uno studio attento della parola di Dio può aiutarci a prendere coscienza del significato della misericordia indefettibile di Dio.

Cristo ci ha rivelato un Dio come lo vorremmo. Un Dio che è amore e misericordia. È una persona che stenta a trovare posto nella nostra società, la quale proprio per questo ne ha un bisogno vitale. Apparentemente non serve, non è utile, non frutta: però ci dà tutto, ci dà ciò che nessuna analisi scientifica, nessun progresso tecnologico e neppure lo sviluppo delle scienze umane potrà mai darci: sentirci amati singolarmente, uno per uno, in modo assoluto. Quando ci accorgiamo che Dio ci ama così, allora sentiamo che lo stare lontano da lui e dagli altri per altre ragioni umane è perdere tempo, è perdere Dio. Nasce spontaneo allora il bisogno di chiedere perdono.

I lettura: Esodo 32,7-11.13-14

Mosè è salito sul Sinai per il colloquio a cui dopo l’alleanza (Es 24) il Signore lo chiama per ricevere le Tavole della Legge santa. Il popolo non tollera l’attesa, e si fabbrica il vitello d’oro, che adora al posto del Dio Vivente. Il Signore allora avverte Mosè della nefanda apostasia idololatrica e lo invita a recarsi a vedere (v. 7). E gli spiega la gravità del misfatto: il popolo intero tradì la via, si fece un idolo morto che adora, e lo onora come se fosse un dio, e avesse guidato l’esodo dall’Egitto (v. 8). Il Signore in modo giusto e severo constata adesso che si tratta di «un popolo dalla dura cervice», e chiede a Mosè di lasciare che lo punisca, distruggendolo, per costruire per lui un altro popolo da guidare (vv. 9-10). È evidente che il Signore vuole che Mosè interceda, e Lo implori, affinché possa fare misericordia.

E Mosè intercede con una «supplica epicletica per la nazione». Il suo argomento è fondamentale, ed egli sa altresì che esso è secondo quanto desidera da lui il Signore, e quindi a suo modo è inattaccabile e deve essere efficace. Come, argomenta nella sua perorazione, il Signore prima ha operato con tanta potenza per estrarre via questo popolo dall’Egitto, e adesso, anche se gravemente colpevole, vuole distruggerlo? Ma allora qual è la coerenza del Disegno divino per questo popolo? (v. 11). Di più. Il Signore deve fare memoriale della Promessa irreversibile e vincolante concessa ai Patriarchi, di costituire a essi un popolo innumerevole e di donare la terra, per sempre (v. 13). Questo voleva sentire il Signore, che Mosè, mentre ama il suo popolo, ha un’indefettibile fedeltà verso il suo Signore, e che ha anche una forte comprensione della Fedeltà di Lui. Perciò immediatamente si placa, e lo manifesta (v. 14). Infatti, nessun peccato è senza remissione, se se ne chiede al Padre Buono il perdono, per sé e per gli altri.

Evangelo: Lc 15,1-32

Al centro della liturgia troviamo oggi quel capolavoro dell’Evangelo di Luca che è il capitolo 15. Il testo riporta l’insegnamento di Gesù sulla divina Misericordia, contenuto in 3 parabole, le quali possono essere chiamate anche, e più esattamente, le «parabole della Misericordia e della Gioia divina».

Il brano evangelico può essere anche diviso in tre parti:

vv. 1-2: l’introduzione che offre l’ambientazione ed insieme la giustificazione dei racconti parabolici che seguono;

vv. 3-10: due parabole sulla ricerca ed il ritrovamento, rispettivamente collocate nell’ambiente agricolo e domestico;

vv. 11-32: una parabola riguardo ad un padre e ai suoi due figli.

Parabole che più di tante altre di Gesù hanno fatto breccia nel cuore dei credenti e dei non credenti. La terza, propria di Luca, è la più nota, la più lunga per la sua ampiezza e pienezza di significato, per la vastità del respiro e la dottrina che contiene e viene giustamente definita «un piccolo Evangelo nell’Evangelo».

Una prima osservazione: il testo non parla di “parabole”, ma di “parabola”: i tre racconti costituiscono dunque un’unica parabola, quella della misericordia di Dio. Alcuni esegeti nella loro lettura vedono infatti espresso l’amore trinitario:

  1. del Figlio nel pastore che cerca la pecora;

  2. dello Spirito Santo nella donna che spazza la casa alla ricerca della moneta perduta;

  3. del Padre che ama e cerca i due figli.

Il contesto della parabola è dato dai vv. 1-3 posti ad introduzione del racconto: è la risposta diretta alle mormorazioni dei farisei e degli scribi, indignati del modo umano e delicato con cui Gesù avvicinava i peccatori e si rallegrava per la loro conversione. Accusato di essere troppo condiscendente con i peccatori, Gesù risponde proponendo il comportamento del Padre, che egli è venuto a rivelare al mondo: «Chi ha veduto me, ha veduto il padre» (cfr. Gv 14,9): forse mai come nella condotta di Gesù verso i peccatori queste due parole, dette alla vigilia della morte trovano la più convincente esemplificazione. Più che del “figliolo prodigo” o del “fratello maggiore”, è la parabola del Padre, e sono proprio le sue parole che ci danno la via per comprendere il racconto: «Bisognava far festa». L’hanno capito i peccatori, che fanno festa a Gesù; i giusti sono chiamati a fare altrettanto.

La festa e la gioia del perdono cominciano quaggiù. Nel racconto accanto al verbo della gioia che scandisce le due parabole gemelle della pecora e della dramma perduta e ritrovata si aggiunge anche, e per quattro volte nella terza parabola, il verbo “festeggiare”.

La gioia biblica è, certo, un’esperienza psicologica e umana, comprendente l’allegria e la serenità, ma va oltre: è, infatti, lo stato di chi è in comunione con Dio e partecipa della sua perfezione.

È partecipazione al suo amore: il figlio maggiore della parabola non riesce a condividere la gioia del padre perché il suo cuore è gretto ed egoista.

L’evangelista Luca, in particolare, sente la gioia come l’atmosfera dei tempi messianici inaugurata da Gesù; a lui si accosta Paolo, che così si rivolge ai cristiani di Filippi: «Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete saldi nel Signore così come avete imparato, carissimi! Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil 4,1.4-5).

Esaminiamo il brano

v. 1 – «si avvicinavano…pubblicani e peccatori»: nonostante le strettissime esigenze appena espresse sul discepolato (14,25-35), “rinnegati e furfanti” non desistono dall’avvicinarsi a Gesù.

«tutti»: si sottolinea la totalità; nessuno è escluso, specialmente i lontani.

«per ascoltarlo»: tutti i peccatori sono ammessi come uditori della gloria di Dio. Ascoltare significa diventare discepoli.

v. 2 – «Farisei e scribi mormoravano»: Luca contrappone al gruppo dei pubblicani e dei peccatori il gruppo dei farisei e degli scribi. Per entrambi Gesù costituisce un polo d’attrazione, tuttavia, mentre il primo gruppo si avvicina per ascoltarlo, il secondo lo osserva per criticarlo. Nelle sacre Scritture gonguzō è il vocabolo della contestazione di Dio e del rifiuto del suo modo di dare salvezza («Perché ci hai fatto uscire dall’Egitto ?»; è il verbo che percorre i libri biblici che parlano di Israele nel deserto e della ribellione a Dio e ai suoi doni (Esodo, Numeri, Deuteronomio). È il verbo con cui l’uomo pretende di suggerire a Dio come dovrebbe comportarsi con l’uomo e come dovrebbe dargli la salvezza (o il castigo). Per costoro (farisei e scribi) i pubblicani e i peccatori sono persone ormai «perdute»: su di loro incombe il giudizio di Dio. L’accoglienza calorosa che essi ricevono da Gesù è inspiegabile e contro ogni logica (cfr. Lc 19,7).

v. 3 – Il motivo che spinge Gesù a narrare questa parabola è dimostrare che Dio non la pensa come gli scribi e i farisei. Scribi e farisei sono i veri destinatari del racconto; la parabola è un invito ai giusti perché si convertano dalla propria giustizia, che condanna, alla gioia del Padre, che giustifica. Gesù parla non tanto per difendersi dalle loro obiezioni, quanto per aprire loro gli occhi al mistero di Dio. Dio è misericordia.

vv. 4-6 – La prima celebre parabola è del pastore che possiede un gregge di 100 pecore. Di esse una si è incautamente lasciata distanziare dal resto del gregge e quindi si perduta nel deserto. Il pastore buono allora lascia incustodito il gregge delle altre 99 pecore, torna sui luoghi del pascolo e ricerca quell’unica pecora dappertutto, nel deserto e altrove, finché la ritrovaAllora se la prende in braccio «nella gioia» e chiamerà tutti gli amici per farsi congratulare per il ritrovamento, perché ha recuperato una pecora «che era perduta», era andata alla rovina.

v. 7 – «Così vi dico…»: La parabola conclude ancora «dal minore al maggiore», al modo rabbinico. Se per così poco si fece gioia sulla terra, allora per quell’immenso valore che è un uomo, il peccatore convertito, quello che più di tutti gli altri aveva bisogno della salvezza, quello che perciò deve essere più amato degli altri, tanto più si farà «gioia nel Cielo», ossia Dio gioirà. E questo più che per 99 giusti, che non hanno necessità della conversioneMa così il gregge è nuovamente al completo. Nessuno può essere perduto: anche se “uno solo” manca, la comunione non è completa e la festa non può iniziare.

Notiamo che Luca introduce la parabola con una domanda rivolta direttamente a scribi e farisei: «Chi di voi…?». Gesù vuole incontrarli nella comune vocazione di pastori del popolo di Dio. Come agisce dunque un pastore? Chi ha bisogno di lui: le pecore sicure nell’ovile o quella perduta?

In Gesù, nelle sue azioni e parole, l’agire di Dio diventa visibile. Dio si fa pastore delle proprie pecore, un pastore che corre il rischio di perdere il gregge pur di ritrovare l’unica pecora che manca all’appello. Un pastore che rischia perché si fida delle sue pecore. Un pastore capace di fare festa.

vv. 8-19 – La seconda parabola è della dracma, oggi della moneta smarrita. Una donna possiede dieci monete e dentro casa, come succede così spesso, ne perde una. Allora fa tutte le ricerche febbrili in casa e spazza con cura ogni angolo, finché finalmente trova la sua monetaPerciò subito convoca e raduna le sue amiche per gioire insieme del ritrovamento. Anche qui la conclusione necessaria va «dal minore al maggiore»: tanto più nel Cielo, alla presenza di Dio circondato dalla sua corte regale che contiene le miriadi degli Angeli, si farà gioia per un solo peccatore convertitosi.

v. 11– Con la terza parabola il Signore narra la vicenda del celeberrimo «figlio prodigo». Questa parabola ha il doppione alla Domenica IV di Quaresima di questo Ciclo C. . In sintesi, Gesù invita i capi del popolo a fare proprio il cuore del Padre. Se ciò non accade, anche farisei e scribi sono figli perduti, mai allontanatisi da casa, ma incapaci di comprendere il cuore del Padre. Per questo racconta loro la terza storia.

«Un uomo»: È Dio, che nel corso della lettura si rivelerà insieme padre e madre, legge e amore.

«aveva due figli»: i due figli indicano la totalità degli uomini; peccatori о giusti, per lui siamo sempre e solo figli, per questo ha compassione di tutti e non guarda i peccati.

v.12  «Padre»: così lo chiama il figlio minore; non tanto per dei sentimenti positivi, quanto per far valere i propri diritti. Lo conosce come uno che gli deve dare delle cose.

«dammi»: attivo imperativo aoristo: inizia un’azione nuova. Alcune norme regolavano il diritto di successione alla morte del padre, о la spartizione dei beni mentre era ancora in vita il padre: cfr. Dt 21,17; Sir 33,20-24.

«divise»: Dio non è antagonista, concede ai suoi figli tutto quanto ha.

vv. 13-16 – Preso dall’ansia di vivere, portandosi via tutto, si allontana dal Padre, ma così, presto, perde tutte le sue sostanze e se stesso.

«a pascolare i porci»: il peggio che poteva capitargli in fatto di degradazione (cfr. 8,32), perché oltre a tutto, si trovava in uno stato di impurità legale (cfr. Lv 11,7; Dt 14,8).

vv. 17-19 – «rientrò in se stesso»: semplicemente rinsavisce; constata che la realtà non era come pensava. Si noti come in questo soliloquio Luca non esprima grandi sentimenti di pentimento; è una conversione a sé, più che al Padre, intuisce il vero proprio interesse. La fame gli fa capire che s’è sbagliato nel valutare le cose; è l’inizio di un cammino. Dice un antico proverbio ebraico: «Quando gli israeliti hanno bisogno di mangiare carrube, è la volta che si convertono».

«salariati…di mio padre»: lo considera e lo chiama padre, anche se non considera sé come figlio. Instaura il paragone con i salariati: istintivamente pensa che l’alternativa sia diventare come il fratello maggiore! Ha ancora una falsa immagine del Padre.

«ho peccato»: dalla considerazione della sua miseria il giovane passa al riconoscimento delle sue colpe; non ha infatti una colpa sola, ma parecchie: aver chiesto la divisione dell’eredità; l’essere andato lontano; l’aver dilapidato tutto; il non aver pensato al padre prima di cercare il lavoro umiliante.

«contro il cielo»: modo ebraico di dire, per evitare di pronunciare il nome di Dio, qui particolarmente espressivo per chi, come il figlio minore, si sente indegno di ogni perdono.

«non sono degno di esser chiamato tuo figlio»: un altro peccato si aggiunge al fardello già pesante del figlio minore: essere figlio non è questione di dignità o di merito; è un dato di fatto. Il padre può essere libero nel mettere al mondo il figlio, ma nell’essere figlio non c’è libertà; non si sceglie né di nascere né da chi. Il figlio minore non ha ancora capito che il Padre è amore necessario e gratuito; pensa, non avendola meritata, di rinunciare alla sua paternità. Il poveretto ha aggiunto ai suoi anche il peccato del giusto: il rifiuto di Dio come amore gratuito. La conversione non è diventare “degni”, o almeno “migliori” o “passabili”, per meritare la grazia di Dio; la conversione è accettare Dio come un Padre che ama gratuitamente.

«trattami»: attivo imperativo aoristo positivo: ordina di cominciare un’azione nuova.

v. 20 – La scena dell’incontro col padre è travolgente.

«ancora lontano»: fin qui abbiamo parlato dell’atteggiamento del figlio; suo padre è ben altro, non aspetta al varco l’indegno per rinfacciarli una colpa senza scuse, previene ogni suo atto di pentimento,

«lo vide»: è il verbo horáō, un vedere che giunge fin sotto la superficie, nella verità delle cose. Per quanto lontano il Padre lo vede sempre; nessuna oscurità e tenebre può sottrarlo alla sua vista (Sal 139,11s). L’occhio è l’organo del cuore: gli porta l’oggetto del suo desiderio. Vedere e commuoversi sono anche le due azioni attribuite al samaritano (10,33) e allo stesso Gesù nell’episodio della vedova di Nain (7,13).

«si commosse»: questo sentimento che sconvolge il cuore del padre fornisce la chiave della sua condotta; in quella commozione è narrata tutta la sua passione per l’uomo. Letteralmente splanchnízomai «fu colpito alle viscere» indica l’aspetto materno della paternità di Dio. È la qualità di quel Dio che è misericordia In Lc 6,36 Dio ci è presentato come «padre misericordioso », cioè insieme come padre e come madre (Luca usa “ oiktírmōn” che traduce l’ebraico «rahamin», che indica il ventre, l’utero materno che genera). La paternità di Dio per sé viene dopo la sua maternità; per questo siamo generati e amati senza condizioni, da sempre e per sempre accolti. In quanto madre, ci ama visceralmente, ed entra con noi in un rapporto di necessità biologica, dandoci la vita, la casa e il cibo. In quanto padre ci ama liberamente ed entra in rapporto con noi mediante la parola: ci dà un nome e ci fa crescere adulti e responsabili. Lo sguardo di Dio verso il peccatore è tenero e benevolo come quello di una madre verso il figlio malato (cfr. Is 49,14-16; Ger 31,20 s; Sal 27,10; Os 11,8; ). Quale stridente contrasto con l’emozione opposta che prende il primogenito «egli fu preso da collera» (v. 28a)!

«correndo»: è un atteggiamento affatto normale per un orientale.

«si getto al suo collo»: la corsa del padre termina in uno slancio che lo fa letteralmente “cadere addosso ” al figlio. Esaù, il fratello al quale fu rubata la primogenitura, cadde sul collo di Israele, contro ogni sua aspettativa (Gen 33,4). L’incontro dei due fratelli, a lungo divisi e in lotta, è figura dell’incontro dei suoi figli. Anche Giuseppe, venduto come schiavo dai fratelli, si getta sul collo di Israele (Gen 46,29).

«lo baciò»: è il segno del perdono (cfr. 2 Sam 14,33).

vv. 21-24 – Il padre prende subito l’iniziativa: non permette al figlio di terminare la sua confessione; non dice nulla al figlio, ma quanto sta per dire ai servi parla per lui in modo più espressivo di ogni altro linguaggio.

«la veste migliore»: lett. il vestito primo, dove s’intende quella veste che è la prima in ordine di tempo e di dignità. È l’immagine e la somiglianza di Dio, gloria e bellezza originale che rivestiva l’uomo.

«rivestitelo… mettetegli»: attivo imperativo aoristo positivo: è il nuovo inizio.

«l’anello»: è il segno dell’autorità (cfr. Gen 41,42; Est 3,10; 8,2 ed anche Gc 2,2)

«sandali»: è un altro segno della recuperata figliolanza, della libertà di figlio; lo schiavo non porta sandali.

«portate»: attivo imperativo presente positivo: ordina di continuare un’azione già iniziata (siamo sempre considerati figli). Nel dare i primi ordini il padre usa l’imperativo aoristo: si tratta di cominciare azioni nuove, causate dall’inizio di una nuova condizione, quale nessuno (nemmeno il figlio stesso) oserebbe sperare possibile. Una volta restituito alla sua dignità, il resto viene di conseguenza e diventa normale: perciò il padre usa l’imperativo presente.

«il vitello grasso»: il sacrificio grasso (lett. di grano) immolato, che si “mangia”, “facendo festa” è un’allusione all’eucarestia. Per i commentatori questo vitello di grano è l’Agnello immolato per quell’amore che è prima della fondazione del mondo (Gv 17,24).

«ammazzatelo»: attivo imperativo aoristo: qui è necessario per indicare un’ azione che si compie una volta sola per sempre.

«cominciarono a far festa»: non si dice “fecero festa”, ma “cominciarono”; è l’inizio di ciò che sarà senza fine.

vv. 25-32 – «Il figlio maggiore»: il maggiore è Israele, il primogenito di Dio, figura di ogni giusto. Raggiungiamo ora l’apice della parabola: l’incontro con chi deve essere ancora ritrovato.

«chiamò… domandò»: il “giusto” non sa nulla della gioia di Dio, anzi gli è sospetta e per questo indaga minuziosamente, interroga un servo per sapere cosa sta accadendo.

«si arrabbiò»: conosciuto l’avvenimento reagisce come davanti ad una minaccia; è venuto meno il fondamento della sua esistenza. Quest’ira è il contrario della compassione del padre. Giona si contristò mortalmente alla prospettiva di un Dio simile (cfr. Giona 4,3.8.9).

«non voleva entrare»: l’ostinazione del giusto è dura, come quella di Giona. Attraverso la porta della misericordia i peccatori passano tutti, ma dei giusti nessuno, perché non lo vogliono.

«il padre uscì a pregarlo»: (lett. «a consolarlo») anche conquesto figlio il Padre è colui che si muove per primo. Dio consolò Israele mediante i profeti, fino al Battista che «consolava ed evangelizzava» (3,18), chiamando alla conversione.

«rispose a suo padre»: paziente, quel Padre che non ha ascoltato l’umiliazione penitente del secondogenito, ascolta ora le accuse del primogenito.

«ti servo… non ho trasgredito»: è il servizio dello schiavo (duleo), non l’obbedienza del figlio verso il Padre. Il tempo presento sottolineala condizione permanente scelta da questo figlio che come uno schiavo non si è mai sognato di trasgredire un comando del Padre.

«un capretto»: davvero una richiesta minima davanti al grosso vitello.

«il figlio tuo»: Il primogenito rifiuta di dare il nome di «fratello» al prodigo ma non gli contesta il nome di «figlio» in rapporto al padre. Di colpo, il padre del figlio indegno non gli sembra più neppure suo padre; parla di lui come di un padrone al cui servizio lavora come schiavo: «Ecco, io ti servo da tanti anni [come uno schiavo: duléo» (cfr. v. 29]. Se il secondogenito si augurava di divenire, a casa del padre, un servo ben pagato, il primogenito si considera come uno schiavo verso il quale il padrone non ha alcun debito di riconoscenza. La comprensione che egli ha del rapporto padre-figlio non è migliore di quella del fratello. La parabola tace, probabilmente ad arte, l’ulteriore reazione del figlio maggiore che del figlio minore. In una stupenda solitudine rimane il mistero dell’amore del Padre, che il peccatore non era riuscito a prevedere e il “buono” a spiegarsi. Quell’amore imprevedibile è come una lama di luce che squarcia le tenebre della nostra condizione, la condizione di peccatori bisognosi di misericordia.

In questa prospettiva comprendiamo sempre di più cos’è la nostra eucarestia: rendimento di grazie al Padre per l’amore che ci dona, per il perdono che ci offre, per la Pasqua che vuole celebrare con noi.

Lunedì 9 settembre 2019
Abbazia Santa Maria di Pulsano
http://www.abbaziadipulsano.org