«Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito». Nella storia della salvezza lo Spirito “ha parlato per mezzo dei profeti” più volte. Se Giovanni Lo avesse visto solo discendere, non ci sarebbe niente di nuovo. Ma il Battista ha visto e testimonia che Costui è il Figlio di Dio proprio perché ha visto non solo scendere, ma rimanere lo Spirito. (...)

Agnelli o leoni?
Giovanni 1,29-34

Seconda domenica del Tempo Ordinario (A)

1. Continuano le epifanie

Dopo l’epifania del 6 gennaio e del battesimo del Signore, questa domenica continua ancora sotto il segno delle rivelazioni su Gesù. Perché Gesù noi non lo conosciamo! Infatti, qualche versetto prima, Giovanni ci diceva: “in mezzo a voi c’è uno che voi non conoscete” (Giovanni 1,26). E lui stesso, oggi, confessa due volte: “io non lo conoscevo”. Purtroppo, noi, invece, crediamo di sapere tutto su di lui! E forse non lo conosciamo affatto. Spesso la nostra conoscenza della persona di Gesù è statica, ferma da anni, forse da una tappa della nostra iniziazione cristiana. Come se uno potesse indossare per sempre l’abito della prima comunione o della cresima.

Di epifania in epifania

La vita cristiana è un cammino di crescita che dura tutta la vita. Guai a noi se ci fermiamo! Fermarsi può significare solo due cose: abbandonare la fede o viverla senza slancio, senza gioia, una fede con l’odore di muffa o di naftalina. Talvolta possiamo avere l’impressione di camminare, ma non ci rendiamo conto che giriamo a vuoto, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno.

Il cammino cristiano non è routine, abitudine, noia, un camminare per inerzia, finché la barca va!… È la fatica di riprendere ogni giorno la strada, magari con fatica, ma sempre con la tenacia di una passione. Come quella del profeta Geremia: “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre” (Geremia 20,7).

La vita cristiana è un andare di epifania in epifania, di gloria in gloria, trasformati dai misteri che contempliamo. Perché i misteri hanno un potere su di noi. “E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2 Corinzi 3,18).

Il rischio della fede

Vivere la fede implica dei rischi. Significa affrontare le sfide che ci vengono dalla cultura e dai non credenti e riconoscere umilmente di non avere tutte le risposte. È più facile arroccarsi dietro delle idee “chiare e distinte”, con la pretesa di possedere la verità. Purtroppo questo pericolo oggi è fortissimo in alcuni movimenti religiosi e nella Chiesa. Sono sintomi di fondamentalismo, in fondo suscitato dalla paura, che portano spesso all’intolleranza, alla aggressività verbale o, in casi estremi, alla violenza. Ho trovato delle persone che, coscientemente, evitavano di approfondire la propria fede… per paura di perderla!

Solo una fede capace di confrontarsi, di dialogare, di ascoltare chi non la pensa come noi diventa veramente libera, personale e convinta, cresce, si arricchisce e ci rende “pronti sempre a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi” (1 Pietro 3,15).

Domenica della ripresa della sequela

Ecco perché questa domenica, all’inizio del tempo liturgico Ordinario, in continuità con la precedente, è un invito a seguire Gesù, a diventare suoi discepoli e frequentatori: “Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù” (Giovanni 1,35-37). Quel ‘giorno dopo’ è il nostro!

2. La nuova epifania: Ecco l’agnello di Dio!

Possiamo avere la sensazione che il vangelo di oggi è, in qualche modo, la ripetizione di quello di domenica scorsa, del battesimo di Gesù. È, invece, il suo sviluppo. Oggi Giovanni ci rivela qualcosa di inedito che né lui né noi conoscevamo. Il Battista addita Gesù come “l’agnello di Dio”. Cosa vuole dire questa espressione? Se ci pensiamo bene, questo titolo è, per certi versi, insolito, anche se siamo abituati a ripetere questa espressione, per tre volte, durante l’Eucaristia, prima della comunione.

Mi pare opportuno precisare che la parola agnello/agnelli ricorre spesso nella Bibbia. La troviamo circa 150 volte nell’Antico Testamento (la stragrande maggioranza nei libri del Levitico e dei Numeri) e una quarantina di volte nel Nuovo Testamento (nella versione italiana della Bibbia curata dalla CEI, edizione 2008).

La prima costatazione è che l’agnello viene associato quasi sempre al sacrificio. È l’animale ritenuto puro, innocente, mite e, pertanto, quello preferito per il sacrificio offerto a Dio. Una seconda constatazione è che nel NT esso appare quasi esclusivamente in Giovanni, nel vangelo (3 volte) e soprattutto nell’Apocalisse (35 volte). Una terza constatazione è che nel NT si riferisce quasi sempre al sacrificio di Cristo: “Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia” (1 Pietro 1,18-19).

L’affermazione di Giovanni “ecco l’agnello di Dio” evoca nella mente dei suoi ascoltatori, in primo luogo, l’agnello pasquale, oppure l’agnello che era sacrificato ogni giorno, mattino e sera, nel Tempio di Gerusalemme. Ma la ricchezza di questo titolo va ben oltre. Possiamo trovarci una allusione al misterioso “Servo di Jahvè” (di cui si parla oggi nella prima lettura): “era come agnello condotto al macello… mentre egli portava il peccato di molti” (Isaia 53,7.12). Tanto più che in aramaico, la lingua del Battista, il vocabolo, ‘talya‘, significa sia “servo” sia “agnello”. Ma può evocare, inoltre, il sacrificio di Isacco e “l’agnello che Dio provvederà per l’olocausto” (Genesi 22,1-18). O ancora un riferimento al profeta Geremia che “come un agnello mansueto viene portato al macello” (Geremia 11,19).

Al mettere questo titolo messianico eccezionale sulle labbra del Battista, quasi certamente l’evangelista Giovanni aveva in mente il ricco e complesso sfondo biblico, ma soprattutto l’agnello pasquale (cf. Giovanni 19,36).

“Ecco l’agnello di Dio” rappresenta un’immagine rivoluzionaria di Dio, che non chiede sacrifici, ma che sacrifica se stesso. Papa Francesco la chiama “la rivoluzione della tenerezza”.

Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie “il peccato del mondo” (al singolare), il peccato radicale del mondo, quello di tutti gli umani di tutti i tempi. Non solo quelli individuali, ma pure la matrice del male sottostante ad ogni ingiustizia, la corruzione della storia, la degenerazione delle culture, la degradazione dei rapporti tra le persone e i popoli, la contaminazione e lo sfruttamento della natura… L’agnello di Dio ha caricato su di sé tutto il peso del male del mondo.

Va precisato però che la “giustizia” di Dio non richiede il sacrificio del Figlio, come lo fa pensare una certa rilettura classica. Il sacrificio di Gesù è quello della sua estrema solidarietà: “Egli pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Filippesi 2,6-8).

3. L’Agnello immolato e il Leone di Giuda

Questo titolo messianico viene sviluppato nel libro dell’Apocalisse, dove il protagonista è l’Agnello, nominato 34 volte. “Un Agnello, in piedi, come immolato; aveva sette corna (simbolo di potenza) e sette occhi (onniscienza)” (Apocalisse 5,6). “Un Agnello come immolato”, cioè che porta i segni, le stigmate della sua passione.

Ma l’Agnello, prima di entrare in scena, viene presentato come il leone di Giuda: “Uno degli anziani mi disse: «Non piangere; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli»” (5,5). Come per sottolineare le dimensioni della mitezza e della forza, rappresentate da questi due animali.

Sono queste due dimensioni anche della vita e della testimonianza cristiana: da una parte, la docilità, la dolcezza, la fragilità e la capacità di sopportazione dell’agnello; dall’altra, la forza, l’eroismo, la nobiltà e il coraggio del leone. Coniugare i due aspetti non è sempre facile. Purtroppo, tante volte quando dovremmo essere miti ci comportiamo da leoni, dominatori e aggressivi; e quando dovremmo essere dei leoni ci comportiamo da agnelli, timorosi e codardi!

4. Ecco, eccomi!

Concludo accennando brevemente all’aspetto della vocazione alla testimonianza che emerge fortemente dalle letture: “Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”, dice il Signore al suo Servo (Isaìa 49,6). Paolo si presenta alla comunità di Corinto come colui che è stato “chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio”. E Giovanni, il testimone, afferma solennemente: “E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio”.

E noi? Credo che al “Ecco l’agnello di Dio” dovremmo rispondere come il Salmista: “Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà”!

Come cristiani siamo chiamati a vivere e ad annunciare la Parola. “Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato” (Atti 4,20). Ecco, quindi, l’augurio per questo nuovo anno, che faccio a me e a voi: un terribile mal di pancia come quello provato dal profeta Geremia! “Le mie viscere, le mie viscere! Sono straziato. Mi scoppia il cuore in petto, mi batte forte; non riesco più a tacere!” (Geremia 4,19).

P. Manuel João, comboniano
Castel d’Azzano, 12 gennaio 2023

Fermarsi e lasciarsi salvare

«Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito». Nella storia della salvezza lo Spirito “ha parlato per mezzo dei profeti” più volte. Se Giovanni Lo avesse visto solo discendere, non ci sarebbe niente di nuovo. Ma il Battista ha visto e testimonia che Costui è il Figlio di Dio proprio perché ha visto non solo scendere, ma rimanere lo Spirito.

Viviamo in un mondo evanescente, immersi nella cultura dello zapping, e inseguiamo il totem efficientista del multi-tasking: un orecchio lì, un occhio qui, le mani che fanno altro ancora. Infatti, pare che la prima causa di incidenti stradali sia l’uso del cellulare durante la guida. Andiamo di fretta, ottimizziamo tutto e accumuliamo soluzioni sbrigative, sistemando alla meglio o buttando via. Nessuna profondità, solo togliersi d’impaccio.

Ma questo non si può fare nella relazione con Dio, né con le persone, e neanche con sé stessi. La vita autentica chiede profondità. Un’ispirazione autentica non tollera pause pubblicitarie...

Il contrario di tutto questo è la moda, l’impressione, lo stato d’animo, ma non si può governare la vita o la società sulla base della labile opinione corrente.

Lo Spirito scende e rimane: non è un fatto episodico, è il luogo della dimora. Nella tradizione spirituale c’è la stabilitas, che non è solo dei monaci, è il fondamento necessario della fede sopra la roccia che permette di avere radice e non essere incostanti. L’Agnello di Dio, dimora dello Spirito, può prendere su di sé il più infido e ambiguo dei problemi: il peccato del mondo.

Abbiamo visto e attestiamo che Gesù è il Signore, il Figlio di Dio, perché la sua radice era più forte del nostro peccato, perché lo Spirito in lui rimane. In Lui non c’è la frase: “questo è troppo!” perché eterna è la sua misericordia, e Dio è lento all’ira.

In Lui lo Spirito rimane. È lo scoglio contro cui si infrange la confusione dell’uomo. Contro la pazienza di Chi rimane sulla croce, non scende. Non abbiamo bisogno di altre mode, anche spirituali, ma di fermarci. E lasciarci salvare.
[Fabio Rosini – L’Osservatore Romano]

Giovanni indica la via per seguire Cristo

Is 49,3.5-6; Salmo 39; 1Cor 1,1-3; Gv 1,29-34

Siamo entrati in un nuovo periodo liturgico: il tempo ordinario o tempo della Chiesa. Il verde, simbolo della speranza, caratterizza questo tempo delle domeniche “durante l’anno”, nelle quali seguendo il primo vangelo, quello di Matteo, mediteremo sulla vita e gli insegnamenti del Signore nostro Gesù Cristo. Nella liturgia della parola si sente ancora l’eco della celebrazione della festa del battesimo di Gesù. Infatti, la testimonianza del Battista, che applica a Gesù l’immagine dell’agnello innocente, avviene nella cornice del battesimo, pur non essendo esplicitamente menzionato nel quarto vangelo.

La prima lettura, dal profeta Isaia, riporta il secondo canto del “servo del Signore” per prolungare il primo canto letto domenica scorsa nel ricordo del battesimo di Gesù. Con altre parole sono riproposte la chiamata e la missione del “servo”, identificato con Israele. Il popolo di Israele è scelto da Dio per essere “luce delle nazioni e perché porti la salvezza divina fino all’estremità della terra”. Questo compito avverrà perfettamente con Gesù Cristo, la “Luce vera”. Questa immagine della luce che illumina il mondo viene ripresa proprio dal quarto vangelo per presentare la missione di Gesù, “luce del mondo”. La rilettura cristologia della figura del servo è favorita anche dal salmo responsoriale (39) che fa da risonanza al testo di Isaia. Per il salmista, tutta la legge di Dio si condensa in una parola: “compiere il tuo volere”. Il servo vero che rivela e compie integralmente la volontà di Dio è Gesù Cristo.

Nel brano evangelico Gesù è chiamato l’”agnello di Dio”, “colui che toglie il peccato del mondo”. In queste parole del Battista si profila l’immolazione del Signore, il nuovo e vero Agnello pasquale, che nel suo sangue laverà le colpe di tutti gli esseri umani. Questa frase è entrata nella liturgia eucaristica prima della comunione. Gesù vi è ogni volta presentato come l’Agnello che Dio ha predisposto e inviato per eliminare in modo definitivo “il peccato del mondo”. Quest’argomento viene ripreso dalla Lettera agli Ebrei che presenta la missione di Gesù culminante nel dono della sua vita come “sacrificio” unico che sostituisce tutte le offerte e vittime sacrificali dell’Antico Testamento. “Ecco colui che toglie il peccato del mondo”. Da notare: il Battista non parla di qualche peccato commesso da qualche individuo, ma dice: “il peccato”, per indicare tutti i peccati o tutto ciò che è peccato; parla anche “del mondo”, senza cioè porre limiti di spazio e di tempo. Purtroppo, li “postcristiani del postmoderno respingono l’idea del peccato. Si ritengono liberi in una società laica, si vantano delle loro turpitudini e considerano la trasgressione una moderna virtù; o più semplicemente scaricano le colpe sugli altri, oppure si mettono a giustificarsi tirando in ballo l’istinto, l’inconscio, l’ereditarietà …Come insegna Giovanni: “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità di Dio non è in noi”.

Queste osservazioni ci portano alla verità vera sull’uomo. E chi riconosce i suoi peccati domanda perdono e si converte. Gesù stesso si fa carico dei suoi peccati. È umano commettere peccati, diabolico persistervi, cristiano odiarli, ed abbandonarli (un modo di parafrasare il famoso Errare humanum est, sed perseverare est diabolicum). Nell’”Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo”, Giovanni segnala la presenza dell’Atteso. Tuttavia, questa informazione presuppone in chi la ricerca un interesse. Il Dio, che viene a cercare e salvare gli uomini, si fa trovare soltanto o soprattutto da quelli che lo cercano. D’altra parte, un vero cercatore di Cristo, il Dio che è venuto a cercare i peccatori non i giusti, non diventa mai un possessore. È uno che, dopo l’aver trovato, si mette di nuovo a cercare, nello stesso tempo con il compito di additare a tutti il Cristo, il Messia, Colui che ci libera dal peccato. Si tratta di un bel programma per noi cristiani.
Don Joseph Ndoum

“Ecco l’Agnello…”: un annuncio carico di Missione

Isaia 49,3.5-6; Salmo 39; 1Corinzi 1,1-3; Giovanni 1,29-34

Riflessioni
Continua l’epifania, la manifestazione di Gesù. Dopo la stella dei magi e il battesimo al Giordano, è ancora Giovanni Battista a segnalare con insistenza Gesù come l’Agnello di Dio (Vangelo). Giovanni è andato crescendo nella sua conoscenza di Gesù: dapprima non lo conosceva (v. 31.33), o lo conosceva probabilmente solo come suo parente. Ora lo proclama Agnello di Dio, (v. 29), Figlio di Dio (v. 34), ripieno di Spirito, anzi colui che battezza nello Spirito Santo (v. 33). Giovanni Battista lo dichiara presente: “Ecco l’agnello di Dio” (v. 29), colui che carica su di sé e, in questo modo, toglie il peccato del mondo: tutti i peccati.

Per “togliere il peccato del mondo” Gesù non utilizza meccanismi giuridici esteriori come il condono, la sanatoria, l’indulto o l’amnistia, ma il battesimo nello Spirito Santo: cioè l’immissione nel cuore delle persone di un dinamismo nuovo, lo Spirito (v. 33), la forza dell’amore, unica energia vincente su ogni male umano. Perché solo l’amore trasforma e risana il cuore. Come spiega Papa Francesco, il battesimo non è un rito esteriore, una formalità, un atto di iscrizione in una società, ma un atto di fede e di amore, un dono che arricchisce interiormente la persona che lo riceve e marca una differenza con chi non l’ha ricevuto. (*)

Il secondo canto del Servo di Iahvè (Is 49, I lettura) contiene una prefigurazione del Battesimo di Gesù. È Lui il vero ‘talya’ (termine aramaico usato da Giovanni Battista per indicare agnello e servo): è l’agnello pasquale, immolato, che toglie, caricandoli su di sé, i peccati del mondo intero; è il servo, chiamato fin dal seno materno (v. 5), che diventa luce delle nazioni, con una missione universale di salvezza che supera i confini nazionali per arrivare fino all’estremità della terra (cfr v. 6; Lc 2,30-32; Atti 13,47). Il salmo responsoriale canta la prontezza di Gesù - e della Chiesa evangelizzatrice - ad assumere questa missione senza restrizioni né confini: “Ecco, Signore, io vengo”.

Da notare un particolare importante: Giovanni parla di “peccato del mondo”, al singolare, non dei peccati al plurale. Secondo le prime pagine della Bibbia, da sempre il peccato delle origini, la causa di ogni azione peccaminosa (violenza, odio, ingiustizia, falsità…) è l’egoismo-orgoglio: il non fidarsi di Dio, l’arroganza di ritenersi autosufficienti, capaci di fare a meno degli altri, e anche di Dio. L’espressione “Agnello di Dio”, usata dal Battista, è pregna di evocazioni bibliche e di applicazioni missionarie. Evoca, anzitutto, l’agnello pasquale, il cui sangue fu segno di salvezza dallo sterminio nella notte dell’esodo dall’Egitto (Es 12,23); rimanda, inoltre, all’immagine del Servo sofferente e silenzioso, che portava il peccato della moltitudine (cfr. Is 53,12). Infine, l’espressione del Battista evoca il sacrificio di Abramo, nel quale Isacco fu risparmiato e Dio stesso provvide all’agnello per il sacrificio (Gn 22,7-8): non il figlio di Abramo, ma lo stesso Unigenito Figlio di Dio. Di solito, in tutte le religioni del mondo è l’uomo che sacrifica qualcosa per Dio. Qui, invece, sta la novità della fede cristiana: è Gesù Cristo, l’agnello-vittima innocente, che per amore dona la sua vita per noi.

La progressiva scoperta e identificazione con Gesù fanno di Giovanni Battista un modello per la Chiesa missionaria e, in essa, per ogni evangelizzatore ed evangelizzatrice: Giovanni crede in Gesù, lo riverisce, lo annuncia presente, ne dà testimonianza fino al sangue. Giovanni sa di non essere lui il Messia, ma soltanto una voce che Lo annuncia e Gli prepara il cammino; è pieno di gioia per la Sua crescita (Gv 3,29-30), e non gli importa di scomparire. Ritroviamo alcuni tratti di Giovanni nel ruolo di Benedetto, il Papa emerito. (**)

La Chiesa continua a additare Gesù con le parole di Giovanni; lo fa nell’Eucaristia-comunione: “Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati...”, e lo fa nell’annuncio e servizio propri della missione. Il messaggio missionario della Chiesa sarà tanto più efficace e credibile quanto più sarà - come nel Battista - frutto di contemplazione, libertà, austerità, coraggio, profezia, espressione di una Chiesa serva del Regno, decisa a “far causa comune” (S. Daniele Comboni) con le sofferenze e le aspirazioni della famiglia umana. Solo così, come per Giovanni Battista, la parola del missionario sarà all’origine di nuovi discepoli di Gesù (cfr. Gv 1,35-37).

Tale è stata anche la vocazione missionaria di San Paolo, apostolo innamorato di Gesù Cristo: lo nomina ben 4 volte nei 3 versetti della II lettura. Il suo ampio saluto a tutti i “santificati in Cristo Gesù (battezzati), santi per chiamata” (v. 2), si fa nuovamente attuale nella Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani (18-25 gennaio). L’Ecumenismo e la Missione costituiscono un binomio vitale e irrinunciabile per la Chiesa di Gesù. Per questo, l’unità della Chiesa è finalizzata alla missione: uniti “affinché il mondo creda” (Gv 17,21). Uniti per diventare credibili! Uniti per vincere il male e le divisioni, per togliere il peccato del mondo, cioè l’egoismo, con la tenerezza, la semplicità, la nonviolenza: con il programma delle Beatitudini.

Parola del Papa

(*) “Il Battesimo non è una formalità! È un atto che tocca in profondità la nostra esistenza. Un bambino battezzato o un bambino non battezzato non è lo stesso. Non è lo stesso una persona battezzata o una persona non battezzata”.
Papa Francesco, udienza generale mercoledì 8 gennaio 2014

(**) “Ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato… Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio… E tra voi, tra il Collegio Cardinalizio, c’è anche il futuro Papa al quale già oggi prometto la mia incondizionata riverenza ed obbedienza”. 
Benedetto XVI, ai Cardinali, 11 e 28 febbraio 2013

P. Romeo Ballan, MCCJ