Lunedì 27 ottobre 2014
A 150 anni dal “Piano per la rigenerazione dell’Africa” di san Daniele Comboni, la Famiglia religiosa che da lui prende il nome rilegge quel documento. E fa “mea culpa”. Gerolamo Fazzini, autore dell’articolo pubblicato in "Vatican insider", scrive: “Comboni muore, a soli 50 anni di età, eppure il suo sogno non va in frantumi. La direzione di marcia ormai è irreversibile: i popoli africani debbono essere protagonisti dell’evangelizzazione del continente”.


«Il missionario europeo, non potendo vivere in quelle infocate regioni, non riuscirà mai a stabilirvi e perpetuarvi la fede, e l’indigeno africano, istituito nell’Europa, diventa inetto a esercitare l’apostolico ministero nel suo paese natale»; pertanto «la S. Congregazione di Propaganda Fide è nella dura alternativa, o di decretare l’estinzione dell’importante Missione dell’Africa centrale, o di sollecitare la creazione di un disegno, che risvegli più fondate speranze di esito più felice per la conversione dei negri». Così scriveva centocinquant’anni fa, precisamente il 18 settembre 1864 Daniele Comboni, dal 2003 onorato dalla Chiesa come santo, fondatore della Famiglia religiosa che da lui prende il nome. Quello citato è un brano del famoso “Piano per la rigenerazione dell’Africa”: un documento che proponeva un cambio di rotta radicale nella strategia missionaria di allora e metteva i presupposto per un radicamento effettivo della fede cristiana nel cuore dell’Africa.

Comboni lo redige all’indomani dei clamorosi fallimenti missionari di quel periodo. Dopo i numerosi decessi di padri europei, la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli aveva deciso infatti nel 1862 di sospendere il Vicariato dell’Africa centrale, eretto solo 16 anni prima, perché l’invio di missionari equivaleva a condannarli a una morte certa, senza possibilità di passi avanti significativi.

A un secolo e mezzo di distanza dalla redazione del “Piano”, i responsabili delle quattro diverse realtà che costituiscono la famiglia comboniana - i missionari e le suore, cui si aggiungono l’Istituto secolare Missionarie Comboniane e i Laici Missionari Comboniani – hanno scritto una intensa Lettera che ripercorre il senso dell’iniziativa di Comboni («un’eredità preziosa che, ancora oggi, la Famiglia comboniana intende accogliere e conservare con responsabilità e impegno») e suggerisce piste di attualizzazione per l’oggi e il futuro.

«Nelle sue pagine – si legge nel testo della Lettera - si percepisce una volontà decisa a non abbandonare la missione soprattutto nel momento in cui crescono le difficoltà e il futuro sembra incerto. È un testo che emana il profumo della fede, che incoraggia ad andare avanti, nella convinzione che si lavora per un’opera voluta da Dio».

Comboni stesso non nasconde la drammaticità del momento: «Dal 1857, trovandomi nella Missione dei Kich sul Fiume Bianco, qui nell’Africa centrale, ho assaggiato tutte le prove di questo difficile apostolato ed essendo stato undici volte in punto di morte a causa del clima e delle enormi fatiche, sono stato obbligato a ritornare in Europa dove, dopo qualche anno, essendomi ristabilito, ho pensato al modo di ritornare su questo campo di battaglia per sacrificarvi la vita per la salvezza dei neri».

Il Piano vede la luce in maniera imprevedibile, come racconta lo stesso autore: «Fu il 18 settembre 1864 che, uscendo dal Vaticano dove avevo assistito alla beatificazione di M. Margherita Alacoque, mi è venuto in mente di presentare alla S. Sede l’idea del Piano per riprendere l’apostolato dell’Africa centrale. È il S. Cuore di Gesù che mi ha fatto sormontare tutte le enormi difficoltà per realizzare il mio Piano per la Rigenerazione della Nigrizia con la nigrizia stessa».

Salvare l’Africa con l’Africa: questa la geniale e profetica intuizione di Comboni. Fedele a essa, nel 1869 Comboni al Cairo affida una prima struttura a quattro donne africane (una delle quali è la futura santa Bakhita). Nel 1881, da Vescovo dell’Africa centrale, invia come parroco nel Kordofan un prete locale, uno dei “fanciulli neri” che l’Istituto Mazza aveva accolto nel 1860.

Lo stesso anno Comboni muore, a soli 50 anni di età, eppure il suo sogno non va in frantumi. La direzione di marcia ormai è irreversibile: i popoli africani debbono essere protagonisti dell’evangelizzazione del continente.

Un’intuizione e un programma missionario che ha affascinato da allora migliaia di uomini e donne: ancora oggi 4mila uomini e donne (sacerdoti e fratelli, suore, missionarie secolari e laici), operano nella missione “ad gentes” sulle orme del sacerdote bresciano. Provenienti da oltre 30 nazioni, sono presenti in oltre 40 paesi di quattro continenti.

Che il Piano sia profetico lo dicono molti elementi. Per esempio: in un’epoca segnata pesantemente dal razzismo, Comboni va controcorrente, scrivendo: «L’opera dev’essere cattolica, non già spagnola o francese o tedesca o italiana». E poi, in polemica con i tanti tentativi isolati fin lì realizzati: «Le iniziative cattoliche senza dubbio hanno fatto molto bene ai singoli neri, ma fino a ora non si è ancor incominciato a piantare in Africa il cattolicesimo e ad assicurarvelo per sempre. All’incontro col nostro piano noi aspiriamo ad aprire la via all’entrata della fede cattolica in tutte le tribù in tutto il territorio abitato dai neri. E per ottenere questo, mi pare, si dovranno unire insieme tutte le iniziative finora esistenti, le quali, tenendo disinteressatamente davanti agli occhi il nobile scopo, dovranno lasciare andare i loro interessi particolari»

Lungo la storia, però, ammettono i firmatari della lettera, i figli e le figlie di Comboni non hanno sempre adeguatamente tradotto le sue indicazioni. «L’irruzione della Mahdia (movimento islamista sudanese – ndr), quando i missionari e le missionarie dovettero affrontare la prigionia, il martirio, l’esodo forzato, è stata una forte esperienza che ha lasciato il suo segno e ha messo a prova la fedeltà al Piano di Comboni». Ancora: «E quando i primi Figli del S. Cuore giunsero in Egitto, divenne evidente che qualcosa era cambiato anche nella scala di valori indicata dal fondatore: ora, prima ancora che le esigenze della missione, era lo spirito religioso (…) che doveva ispirare e guidare la vita della comunità. Si stava creando una dolorosa e sofferta tensione tra istituzione e carisma. In quel tempo di cambiamenti, a soffrirne maggiormente e a portarne le conseguenze, furono soprattutto i laici e le “morette” che si trovarono in qualche modo escluse dall’Istituzione».

Continua il coraggioso “mea culpa”: «Né fu questo l’unico momento in cui sembrò venir meno la fedeltà al carisma».

Ma, al di là degli errori storici e delle infedeltà, «il frutto più evidente che lo spirito del Piano ha continuato a dare – si legge nella lettera - è l’abbondanza di vocazioni religiose e laicali alla missione, provenienti da paesi considerati un tempo “terra di missione”. (…) Un grande dono che dobbiamo guardare consapevoli del fatto che ci sfida ad abbracciare senza riserve e con entusiasmo l’interculturalità della missione oggi».

Conclude la lettera-documento: «La spiritualità ereditata dal Piano, questo “sentire il proprio cuore battere in unisono con il Cuore di Cristo”, ci spinge a portare il “bacio di pace” a ogni periferia geografica ed esistenziale, perché l’Africa di Comboni è diventata criterio per riconoscere nel mondo dove sono i “più poveri e abbandonati” (…) e continuare a essere fedeli al suo Piano nell’oggi della storia, dopo centocinquant’anni».

L’epopea della missione sudanese rivive ora nelle pagine di un volume, “Servitori del Vangelo. Testimoni sulle orme di san Daniele Comboni in Sudan e Sud Sudan” (ed. Dissensi), da poco in libreria. Si tratta di una galleria di ritratti di missionari e missionarie comboniani che in tempi diversi hanno incarnato, spesso in condizioni ai limiti delle possibilità umane (a causa di guerre, carestie, ecc.), il carisma del fondatore.

La lunga e complessa avventura in terra sudanese è ricapitolata in quattro grandi periodi storici. Il primo è quello dei pionieri e va dal 1846 alle soglie del nuovo secolo (1899). Il secondo periodo si sviluppa dal 1900 al 1955 ed è l’epoca dei primi organici tentativi di inculturazione, durante la quale nascono le prime grammatiche e i primi dizionari delle lingue del Sud Sudan.

Viene poi la fase (1956-1973) della nascita della Chiesa locale, con lo sviluppo dei catechisti e dei sacerdoti del posto. Nel mezzo di questo periodo la giovane Chiesa del Sud Sudan viene messa alla prova con l’espulsione dei missionari (primavera 1964).

Il quarto periodo (1974-2014), recita il volume, «in un certo senso segna il compimento del Piano di Comboni. La Chiesa locale assume la leadership della missione e i missionari svolgono il ruolo di collaboratori». È in questi ultimi anni che va in porto anche la fondazione di istituzioni universitarie sia nel Nord (Comboni College of Science and Technology) sia nel Sud (con l’Università cattolica di Juba). Un segno, l’ennesimo, della volontà di scommettere sull’Africa per la salvezza dell’Africa stessa.

Gerolamo Fazzini,
Vatican insider