Mercoledì 19 agosto 2015
Tra due settimane inizia il 18° Capitolo Generale dei Missionari Comboniani. Come vedo oggi l’Istituto e i suoi componenti? Di recente qualcuno mi ha posto questo quesito. Il titolo del Capitolo ci riconduce all’essenza di ciò che vorremmo essere e siamo chiamati ad essere: “Discepoli missionari comboniani chiamati a vivere la gioia del vangelo nel mondo di oggi”. E’ prevedibile che si faranno ottime disquisizioni in merito alla situazione delle persone, alla sfida dell’interculturalità, al bisogno di ‘rinfrescare’ la nostra spiritualità, metodo di lavoro, struttura di governo e condizione economica ecc. [Nella foto: P. Giuseppe Cavallini, comboniano, autore dell'articolo].

Va riconosciuta pensando a tutto ciò la positività e lo spessore delle intuizioni, priorità e prospettive delineate dai precedenti Capitoli. Avrebbero dovuto poi incarnarsi, storicizzandosi nel vissuto dei membri dell’Istituto presente nei diversi continenti. In parte va riconosciuto che lo sono state. Tuttavia, come già si è scritto non ci sentiamo soddisfatti di come e quanto le decisioni e linee programmatiche dibattute in aula e raccolte poi negli ‘Atti Capitolari’ abbiano poi preso forma concreta nella quotidianità del singolo comboniano e nell’attività di evangelizzazione nelle Province-Delegazioni.

Va detto che ispirazioni, intuizioni e indicazioni concrete sorte dal suo speciale carisma a noi trasmesse da Comboni, sono stati meglio definite e rielaborate a più riprese lungo gli anni: ‘Fare esperienza del Cuore di Cristo, Buon Pastore, e della relazione filiale profonda con Dio’,coltivare e conservare la comunione con Gesù primo missionario’, ‘tenere lo sguardo su Gesù amandolo teneramente’, ‘capire che significa un Dio morto sulla croce per salvare il mondo’, ‘credere nello Spirito protagonista della missione’, ‘pregare e coltivare il rapporto personale con Cristo’ , ‘essere contemplativi in azione’, ‘sentirsi chiamati ai più poveri e abbandonati’, ‘evangelizzare come comunità’, ‘essere cenacoli di apostoli’, ‘servirsi di mezzi poveri’, ‘vivere e operare come  Famiglia Comboniana’, ‘far causa comune’, ‘identificare e assumere le situazioni di Nigrizia’, ‘lavorare con e non solo per i poveri’, ‘scegliere le periferie e la missione di frontiera’ ecc.  Tutto bene e tutto bello, quando tuttavia passo dall’elenco di questi ideali forti e unificanti  alla constatazione odierna di ciò che siamo e stiamo divenendo come Istituto, sorgono in me interrogativi ineludibili. Stiamo davvero assumendo e incarnando questi valori fondanti  nella nostra vita di singoli, di comunità, di Provincie-Delegazioni, di Istituto?

Le mie impressioni rispecchiano certo la limitata prospettiva della mia esperienza come comboniano, ma non le ritengo per questo meno obiettive. Cosa vedo dunque? Voglio dare un esempio estremamente concreto che vorrei fosse l’eccezione piuttosto che la norma (ma ne dubito). Un confratello mi raccontava di recente di un giovane comboniano che, rientrato nella propria Provincia (non è opportuno menzionare né il Continente né la Provincia…) dopo qualche anno di studi a Roma, telefonò che qualcuno lo andasse ad accogliere all’aeroporto. Giunto in comunità in perfetto ‘completo semi-clericale’, munito di un tablet e in tasca lo smartphone (e naturalmente con un ‘personal computer’ infilato nell’apposita valigetta…), aveva a malapena salutato il superiore mostrandosi  alquanto risentito. Questo per due motivi (come si seppe più tardi): il fatto che ad accoglierlo non fosse andato un confratello bensì un operaio della missione (evento interpretato in chiave discriminatoria) e poi perché parte del suo bagaglio non era giunta a destinazione. Il giorno successivo il giovane comboniano fu accompagnato con un pulmino all’aeroporto a ricuperare… la valigia. Rientrato in missione scaricò il bagaglio: un baule che occupava metà pulmino, un televisore al plasma e due borsoni da aggiungere alla valigia da lui portata il giorno precedente.  Non è certo questo nè il primo né l’unico confratello così… organizzato, e lungi da me la tentazione di esprimere giudizi; ma se fosse questa la ‘forma mentis’ che caratterizza la maggior parte della nuova generazione ‘comboniana’, mi chiedo che futuro attenda l’Istituto in merito ai princìpi e agli ideali prima elencati e storicamente acquisiti riflettendo sul ‘carisma comboniano’; mi chiedo se essi vengano approfonditi  e interiorizzati in modo appropriato nelle comunità di formazione; se si verifichi con la dovuta attenzione che i candidati abbiano maturato e applicato alle proprie scelte questi valori e soprattutto se per caso, come Istituto Missionario e come singoli ‘religiosi’, non stiamo mentendo a noi stessi e alla gente che serviamo quando sbandieriamo davanti a loro, e soprattutto ai giovani,  gli ideali di Comboni illudendoci che ispirino le nostre scelte, la nostra metodologia missionaria e soprattutto la nostra vicinanza e partecipazione alla vita delle popolazioni tra cui lavoriamo. Qui sembra aver senso ciò che si dice a volte con ironia: “noi facciamo professione pubblica di povertà, la gente comune la mette in pratica”!

Se la ‘forma mentis’ dei nuovi comboniani è quella del giovane confratello menzionato (e ho avuto modo di vederla riprodotta in vari casi…); se la tendenza-tentazione di molti è di ‘servirsi dell’Istituto’ per i propri comodi e la propria auto-realizzazione piuttosto che di porsi a servizio di Istituto, Chiesa, Missione, Popolo e Regno di Dio; se l’obiettivo dei singoli è di conseguire dottorati e specializzazioni a propria gloria; se si ritiene che l’Istituto debba riconoscere i diritti della persona garantendogli la copertura delle proprie esigenze materiali ed economiche magari nella convinzione che, comunque vada, il Fondo Comune Totale dovrà provvedere; se insomma vengono prima di tutto le proprie esigenze rispetto alle necessità e alle richieste dell’Istituto… siamo fuori strada alla grande. Eppure questo è esattamente l’impressione che io ho se considero quanto osservato e vissuto in molte istanze in questo primo scorcio di millennio in molti componenti dell’Istituto! Credo che una seria e ben guidata riflessione auto-critica su questi temi nell’ambito dell’incombente Capitolo sia più che mai opportuna! Condotta con tutta l’onestà e l’apertura di mente necessarie per porla in atto.

Considerando in concreto una tra le aree di coinvolgimento definite in precedenti Capitoli ‘prioritarie’ perché rispondenti al nostro carisma, sono tuttora un’esigua minoranza i confratelli, giovani e meno giovani, che hanno posto alla base delle proprie scelte l’inserimento tra i poveri delle periferie urbane e aree di emarginazione, dove inserirsi credendo in uno stile di vita semplice e nell’uso di mezzi poveri piuttosto che nell’efficienza dei soldi. Altre sfide dovrebbero vederci tutti coinvolti: una maggiore condivisione delle risorse disponibili; un  impegno più diretto nel sensibilizzare le chiese locali ad affrontare e sentirsi interpellate dai gravi fenomeni odierni (immigrazione, emarginazione sociale, disagio giovanile, sfruttamento d’ogni sorta…); un’attenzione maggiore a coinvolgere nelle attività di evangelizzazione volontari laici  locali e stranieri nonché istituzioni pubbliche e organizzazioni non governative ecc. Gran parte delle ‘forze nuove’ dell’Istituto (fin dagli anni della formazione di base…) mi sembrano propense a vivere una missionarietà auto-centrata, lontana dalla quotidianità della gente, con tendenze neo-clericali e ‘ritualistiche’, mirante a specializzazioni varie, chiusa nelle strutture interne all’Istituto, poco inserita nelle dinamiche delle chiese locali, con scarsa capacità o propensione a leggere i segni dei tempi e il dipanarsi della storia per affrontarne le contraddizioni e schierarsi a fianco dei più deboli.

In una parola, in contrapposizione con quanto da due anni papa Francesco va ribadendo a tempo e fuori tempo,  si delinea una tendenza che pare rispecchiare molto poco la spinta rivoluzionaria e il richiamo alla testimonianza di vita nella povertà e nella solidarietà con gli ‘impoveriti’ che animano l’energico apostolato del pontefice, e a cui ci si è in parte ispirati nel titolo del prossimo Capitolo! Che dire in conclusione? Che se non facciamo un serio esame di coscienza, se non rinnoviamo il proposito e l’impegno personale a non lasciare solo sulla carta le pur belle linee programmatiche che ogni Capitolo formula, se non assumiamo in prima persona la determinazione e la radicalità di Comboni nel vivere il carisma da lui ereditato, rischiamo di nullificare il programma di vita e di Istituto espressi nel tema globale del Capitolo:  vivere in spirito di ‘discepolato’, di sequela di Gesù Cristo cioè;  porre la gioia della missione alla base di ogni nostra iniziativa di annuncio evangelico; immergerci nei processi storici del nostro tempo per poter dare consistenza e autenticità alla nostra testimonianza superando il rischio di cadere come Istituto in una progressiva irrilevanza.
Giuseppe Cavallini, mccj