Fr. Alberto Degan, missionario comboniano in Ecuador : “Indegni del nostro pianto?”

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Martedì 7 novembre 2023
La violenza continua imperterrita in Ecuador e ha conseguenze pratiche sulla vita quotidiana di tanta povera gente. Ad esempio, il giovane José, che io conosco da quand’era bambino, figlio di uno dei carcerati che visitavo, è conducente di camion pesanti. L’impresa per cui lavora lo manda a ritirare la merce che arriva al porto di Guayaquil... [
Lettera di Fr. Alberto Degan agli amici]

Ma quando si esce dal porto è molto facile essere assaltati – a un semaforo, ad esempio. Quest’anno José è stato assaltato sei volte, e per sei volte gli hanno rubato il cellulare e la patente. Ed ogni volta ha speso soldi per comprare un nuovo cellulare e per rifarsi la patente. E per lui questa è una spesa abbastanza pesante. Quanto a suo fratello, Miguel, stava pagando a rate una moto, ma la settimana scorsa l’hanno assalito e gliel’hanno rubata.

L’Ecuador, comunque, non è solo violenza. E come diceva qualcuno, le cattive notizie si combattono con buone notizie. E io voglio darvi una buona notizia: l’amore di Dio, “che è stato versato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo” (Rm 5,5) ha ispirato Patricio ad aprire una casa di accoglienza. Patricio, un ex-attore di telenovelas comiche, dopo aver incontrato gente che vive in strada, si è sentito toccato ed ha voluto aprire una casa che accolga i piú poveri e abbandonati. La casa si chiama “Amor que cobija”, che significa “Amore che protegge”. In questa casa vengono accolti tutti coloro che hanno bisogno di un riparo: drogati, persone senza-tetto, migranti venezuelani, invalidi, etc.   

È importante mantenere questo sguardo d’amore sulle persone che soffrono. Quando Gesù vedeva una persona, non si soffermava sul suo peccato ma sul suo dolore. Come afferma il teologo Johann Baptist Metz, “il primo sguardo di Gesù non si rivolgeva al peccato degli altri ma alla loro sofferenza. Il principio motore della fede cristiana è la misericordia, cioè salvare il povero dalla morte lenta della povertà e dalla morte rapida della violenza, della repressione e della guerra”. Ringrazio Dio che ha dato a Patricio questo sguardo.

Ebrei per la pace

Dobbiamo salvare il povero dalla povertà e dalla guerra, diceva Metz. E il mio pensiero si dirige immediatamente alla guerra tra Israele e Palestina. A questo riguardo, mi sembrano molto interessanti le riflessioni di una famosa filosofa ebrea, attivista nonviolenta, Judith Butler. Butler è una delle decine di scrittori e artisti ebrei che hanno recentemente inviato una lettera al presidente Biden, chiedendogli un immediato ‘cessate il fuoco’: “Vogliamo chiedere la fine di questo genocidio. Finché la Palestina non sarà libera continueremo a vedere violenza”. E ci sono state varie manifestazioni di ebrei contro il genocidio a Gaza.

Indegni del nostro pianto?

Generalmente, afferma Butler, noi pensiamo che “la violenza di Israele è moralmente giustificata, mentre la violenza palestinese è barbarica; ma non sarebbe corretto descrivere come barbarico anche il bombardamento di civili nelle loro case e nei loro ospedali e nelle loro scuole, o mentre stanno fuggendo obbedendo a istruzioni date dagli israeliani? Quello che stiamo vedendo non è solo l’uccisione di civili palestinesi come effetto collaterale della guerra. Questi civili sono l’obiettivo della violenza armata. E prendere di mira civili che appartengono a un determinato gruppo etnico è una pratica di genocidio”.

Ma perché siamo arrivati a questo doppio standard?, potremmo domandarci. E la filosofa ebrea risponde: perché abbiamo diviso le popolazioni in due categorie: persone e popoli degni del nostro lutto (‘grievable’) e persone o popoli indegni del nostro pianto (‘ungrievable’). Le vite degli esseri umani sono valutate in maniera diversa: “I palestinesi sono stati etichettati come ‘ungrievable’. Detto in altri termini, sono persone le cui vite non sono considerate degne di valore, degne di continuare a vivere e a prosperare in questo mondo. Se muoiono, non lo consideriamo una vera perdita, perché essi sono meno che umani”.

E così, continua Butler, “potremmo pensare alla guerra come una maniera di dividere le popolazioni in due categorie: quelle che sono degne del nostro pianto e quelle che non lo sono. Una vita indegna del nostro pianto è una vita che non merita il nostro lutto perché non è mai stata vissuta, cioè, è una vita che per noi non ha mai contato niente”.

‘All Human lives matter’

Per cui, dobbiamo affermare con profonda convinzione che non solo “Black lives matter”, ma anche “Palestinian lives matter” e “Jewish lives matter”. La vita di un bianco vale come quella di un nero; la vita di un ebreo vale come quella di un palestinese. È una ovvietà, potrebbe commentare qualcuno, ma purtroppo è una ovvietà spesso misconosciuta.

Se la morte di una persona non produce nessun dolore significa che per noi la vita di questa persona non ha nessun valore. Pensiamo, ad esempio, a quanti migranti africani sono morti nel Mediterraneo. Chi ha pianto per loro?, si domandava il papa Francesco a Lampedusa.

Dobbiamo allora costruire una comunità mondiale in cui tutte le vite umane siano valorizzate, ed impegnarci a proteggere ogni vita umana dalla violenza, perché ogni vita umana conta. Questa dovrebbe essere la finalità della politica estera dei nostri Stati, soprattutto di quelli che si richiamano alla fede cristiana.

In un episodio del Vangelo, sembrerebbe che lo stesso Gesù, come essere umano, abbia vissuto la tentazione di considerare alcune vite meno importanti di altre. Nel capitolo 15 di Matteo, all’inizio Gesù si rifiuta di soddisfare la richiesta di una donna pagana che gli chiede di guarire la figlia, e le dice: “Sono stato inviato solo alle pecore perdute della casa di Israele… Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cani (Mt 15,24-26). All’inizio Gesù dà del ‘cane’ a questa donna. Ma è una tentazione che dura solo due secondi. Nel passo parallelo di Marco, Gesù alla fine dice alla donna pagana: “Va’, il demonio è uscito da tua figlia (Mc 7,29). E quattro versetti prima l’evangelista l’aveva definita figlioletta (Mc7,25). La bambina che la madre vuole guarire, dunque, non è un cane, ma una figlioletta. Per Dio non ci sono vite di serie A e vite di serie B: valiamo tutti allo stesso modo, siamo tutti suoi figli e sue figlie. Nel mondo non ci sarà pace fino a quando non considereremo tutti i bambini, di qualsiasi razza, nostri figlioletti e figliolette; fino a quando non valuteremo ogni vita umana come degna del nostro pianto.

Pausa umanitaria

In questi giorni molti stanno chiedendo una ‘pausa umanitaria’ per Gaza. È una richiesta senza dubbio urgente e ammirevole ma, dall’altra parte, trovo un po’ curiosa questa espressione. ‘Pausa umanitaria’: praticamente stiamo chiedendo che si metta uno stop temporaneo alla disumanità, chiediamo di fare una piccola pausa al genocidio per poi, dopo qualche giorno, tornare ad essere brutali e disumani. Siamo rassegnati ad una politica disumana, siamo rassegnati alla brutalità come strumento di politica internazionale, e l’unica cosa che sappiamo chiedere è una piccola pausa di umanità in mezzo a tanta crudeltà. Certamente questo è meglio che niente ma, come cristiani, non dovremmo chiedere molto di più? Più che una pausa umanitaria dovremmo chiedere. una politica umanitaria, una politica umana, da tutte le parti, che valorizzi e protegga la vita di ogni persona. Ma perché non lo diciamo? Ci vergogniamo a sognare i sogni del Vangelo?

‘Crimine’ o ‘sbaglio’?

Il fatto che usiamo due pesi e due misure si riflette anche nel nostro linguaggio. E così, uccidere in maniera brutale vari bambini ebrei lo consideriamo, giustamente, un crimine. Ma fare a pezzi con le bombe 3.000 bambini palestinesi lo consideriamo, al massimo, uno sbaglio. Questo è il termine che ha usato qualche giorno fa un giornalista italiano, esponente del mainstream: “Sì, dobbiamo dire a Israele che sta sbagliando”. Ma una cosa è sbagliare, altra cosa è commettere crimini contro l’umanità. E allora, qual è la differenza tra un crimine e un deplorevole sbaglio? La differenza è nel valore che diamo alle vite: alcune sono degne del nostro pianto, altre non lo sono; ci sono vite che contano e vite che non contano niente.

Che Gesù ci aiuti a costruire un mondo in cui tutte le vite umane contano, allo stesso modo!

Un abbraccio fraterno,
Fratel Alberto Degan
Missionario comboniano