Domenica 25 febbraio 2024
La geopolitica del Mediterraneo è una realtà estremamente complessa che interessa alla prova dei fatti tre continenti: Europa, tutto il settore mediorientale dell’Asia e l’Africa. Di fronte a questo scenario, se proviamo a ragionare in termini di “Mediterraneo allargato”, la regione ricompresa tra la linea Gibilterra-Golfo di Aden, il Medio Oriente e la sponda Nord del Mediterraneo, si pongono tutta una serie di sfide che non possono essere affatto sottovalutate. [P. Giulio AlbaneseL’Osservatore Romano]

Dall’adesione tra gli altri al blocco originale dei Brics di Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran, alle conseguenze devastanti della crisi israelo-palestinese, per non parlare delle tensioni sul Mar Rosso, il Mediterraneo allargato si presenta come una macroregione d’interesse globale. Le ragioni sono molteplici e andrebbero analizzate con oculatezza. Ad esempio, mentre si accentuano gli sforzi dei governi locali della macroregione per diversificare le proprie partnership, in un clima di crescente competizione a livello internazionale, dall’altra in molti Stati persistono instabilità economica e problematiche securitarie (in alcuni casi gravissime, come nel caso della tormentata Striscia di Gaza). Viene pertanto spontaneo domandarsi, su questo sfondo: in che modo i Paesi del Mediterraneo allargato stanno affrontando le persistenti mutazioni interne e la ridefinizione dei rapporti con i grandi player globali? Anzitutto è evidente che i Paesi del Nord Africa e quelli del Medio Oriente si stanno distanziando dall’Europa.

Concettualmente, il cosiddetto Mare Nostrum dovrebbe essere il contenitore dei beni comuni dei Paesi rivieraschi quali l’economia blu, la ricerca e l’innovazione digitale, il settore energetico, la diplomazia scientifica e culturale, la salute, la libera circolazione di persone e beni e l’agognata transizione verde. Si tratta di obiettivi che dovrebbero essere necessariamente declinati in un’accezione ampia che includa soluzioni politiche, assistenza umanitaria, ricostruzione civile, consolidamento istituzionale e sviluppo economico.

Dunque, anche se il contesto appare frammentato, la principale sfida, almeno sulla carta, dovrebbe consistere nella creazione di un multilateralismo basato su una logica a somma positiva, che affianchi l’azione bilaterale degli Stati.

Purtroppo questo non sta avvenendo a causa di una sporulazione di antagonismi dirompenti che causano insidiose turbolenze se non addirittura cataclismi dall’esito incerto. Se da una parte è vero che la crisi russo-ucraina ha acuito le distanze tra alcuni dei grandi attori internazionali con processi di differenziazione interna che hanno eroso l’omogeneità reale o solo presunta di intere comunità e Paesi; dall’altra lo shock di offerta prodotto dalla finanza speculativa sui prezzi delle materie prime agroalimentari e le commodity in generale ha generato rilevanti impatti sociali sulle popolazioni autoctone. Si tratta peraltro di una fenomenologia che acuisce comunque, con l’andare del tempo, le dinamiche migratorie, anche in relazione ai cambiamenti climatici in corso.

Una prospettiva, questa finora esposta, che ancora una volta dimostra quanto stabilità politica, integrazione interna e crescita economica siano inevitabilmente correlate tra loro. La situazione attuale nella macroregione del Mediterraneo allargato, pertanto, solleva interrogativi cruciali sulla resilienza delle economie nazionali e dei governi locali nel mitigare le tensioni geopolitiche che stanno peraltro parcellizzando le aree d’influenza. Se per ora è evidente il rinnovato slancio diplomatico e politico da parte di Russia e Cina, finalizzato ad allargare le relative sfere di influenza soprattutto in Africa, gli attacchi houthi dalla sponda yemenita, che hanno messo in crisi la libertà di circolazione nel Mar Rosso, sono frutto delle grandi divisioni che caratterizzano oggi lo scenario internazionale. Lo scacchiere è dunque segnato da equilibri precari a geometrie variabili che rendono lo scenario estremamente fluido.

Un piano ulteriore di riflessione e di analisi è poi posto dal fatto che lo scacchiere di cui stiamo parlando è fortemente sollecitato da competitors aggressivi e potenti, entità non-statali come le formazioni jihadiste che infestano la fascia saheliana, o quasi-statali come Hezbollah in Libano, le Forze di supporto rapido (Rsf) sudanesi e gli houthi di cui sopra.

La debolezza del multilateralismo, che trova la sua sintesi più efficace nella marginalità delle Nazioni Unite, contribuisce a minare la governance globale. Detto questo, il livello di complessità lungo le principali faglie del Mediterraneo globale è tale per cui la reductio ad unum risulta del tutto inattuale, distorcendone l’analisi e la comprensione.

Da questo punto di vista l’Europa è chiamata ad una decisa assunzione di responsabilità affinché il Mediterraneo torni ad essere spazio di crescita e sviluppo per i suoi popoli, oltre che cerniera di congiunzione tra Meridione e Settentrione, tra Oriente e Occidente. Pertanto, non aiuta l’esternalizzazione delle frontiere, intesa come l’insieme delle azioni economiche, giuridiche e militari realizzate da soggetti statali e sovrastatali (come la Ue), nei territori di Paesi terzi, finalizzate a impedire o ad ostacolare che i migranti possano entrare nel territorio degli Stati che sostengono dette azioni. Alla base di questo approccio vi sono una serie di asserti politici errati, a iniziare dall’idea dell’«aiutamoli a casa loro». Come ha ben spiegato il rappresentante per i diritti dei Migranti alle Nazioni Unite François Crepeau, non è assolutamente vero che, se si aumentano i fondi allo sviluppo, si evitano le migrazioni. Sono infatti numerosi gli studi che dimostrano che gli aiuti allo sviluppo non diminuiscono affatto le partenze. Anzi è vero l’esatto contrario: più sviluppo, più migrazioni. Ciò non significa che si debba rinunciare alla cooperazione allo sviluppo, quanto piuttosto che occorre garantire ai migranti vie di accesso legali e sicure attraverso i corridoi umanitari.

Ecco che allora è necessario operare un decentramento narrativo affermando che per evitare che il Mare Nostrum continui a essere un cimitero liquido, la Vecchia Europa ha l’obbligo di considerare la mobilità umana non solo un’opportunità per contrastare il deficit demografico, ma anche l’occasione per affermare la globalizzazione dei diritti.

Rimane il fatto che la macroregione mediterranea è diventata il bacino di scolo dei tanti conflitti che interessano fronti relativamente lontani e vicini. E qui, come stigmatizzato in più circostanze da Papa Francesco, si pone la questione della proliferazione di armi e munizioni un po’ ovunque. Un business che non conosce recessione di sorta, estremamente remunerativo di questi tempi, foraggiato lautamente da potenze esterne. Se a ciò aggiungiamo le riforme costituzionali e le modificazioni delle forme di governo desiderate dalle popolazioni autoctone e mai attuate, le traiettorie politiche all’insegna del riscatto sarebbero praticabili se vi fosse la volontà di sgomberare il campo alle prevaricazioni valorizzando il ruolo della società civile. L’unica in grado, almeno per il momento, di esprimere un multilateralismo dal basso perché scevro da interessi e decisamente voluto dalla gente.

[P. Giulio AlbaneseL’Osservatore Romano]