Padre Giulio Albanese: “A proposito delle diversità culturali”

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Martedì 5 marzo 2024
Non molti anni fa, chi scrive ebbe modo d’incontrare Angelo Ferrari, un carissimo amico giornalista dell’Agi (Agenzia giornalistica Italia), scomparso recentemente, grande narratore delle vicende africane. In quell’occasione, raccontò un aneddoto sul quale varrebbe la pena riflettere. [L’Osservatore Romano]

Durante un viaggio nella regione senegalese della Casamance, gli capitò di vistare una scuola in un villaggio, sostenuta dalla cooperazione canadese. Entrato in un’aula, decise di sedersi dietro un banco con i giovanissimi alunni. Preso dalla curiosità, cominciò a sfogliare i loro libri di studio, donati appunto dai benefattori canadesi. In uno di questi testi gli alunni stavano studiando i comportamenti da assumere in certe situazioni. Improvvisamente il suo sguardo fu preso da un misto di riso e sorriso quando lesse il capitolo dedicato al «come comportarsi in metropolitana». L’episodio è emblematico del fatto che la generosità a volte non tiene in considerazione la realtà che s’intende sostenere.

Sentendo parlare Ferrari, sovviene alla mente, quasi istintivamente, il racconto dello storico burkinabé Joseph Ki-Zerbo (1922-2006): «Quando eravamo molto giovani, dovevamo usare a scuola un manuale di storia francese che inizia con: “I nostri antenati, i Galli”. All’inizio della nostra formazione c’era dunque una deformazione. Abbiamo ripetuto meccanicamente ciò che volevano instillare in noi». Premesso che Ki-Zerbo faceva riferimento a quando il Burkina Faso, allora Alto Volta, era sotto il dominio coloniale, la ragione per cui i francesi fecero di Vercingetorige un eroe della storia nazionale risale alla seconda metà dell’Ottocento. Fu soprattutto grazie all’impegno profuso dai ministri dell’educazione nazionale della Terza Repubblica che vennero pubblicati manuali di storia studiati ad arte per promuovere una singolare lettura gallo-romana del passato. Motivo per cui quando i ragazzi erano chiamati alla lavagna per recitare ad alta voce il loro primo capitolo di storia patria, esordivano dicendo: «Nos ancêtres les Gaulois», appunto i nostri antenati i Galli.

Sta di fatto che — vuoi in buona fede con l’intento d’essere generosi, vuoi per condizionamenti dell’epoca coloniale — i fraintendimenti nell’incrocio tra le culture Nord-Sud, Europa-Africa, sono ancora oggi frequenti. L’intellettuale senegalese Cheik Anta Diop (1923-1986), per comprendere la mentalità afro, nonostante le sue molteplici sfumature, consiglia di «partire dalle condizioni materiali per spiegare tutti i tratti culturali comuni agli africani, dalla vita domestica fino a quella della nazione, passando per la superstruttura ideologica, il successo, i fallimenti e le regressioni tecniche […], per cogliere il denominatore della cultura africana» . (L’unité culturelle de l’Afrique noire. Domaines du patriarcat et du matriarcat dans l’antiquité classique, Edizioni Présence africaine).

Ecco che allora la solidarietà diventa l’espressione di un’antropologia condivisa, cioè incentrata sull’«essere-con» e «essere-per». Ad esempio, nelle culture occidentali solitamente è fuori luogo chiedere denaro a un parente o a un amico, a meno che non si tratti di una situazione molto particolare e della certezza, da parte del richiedente, che il donatore sia di animo generoso. Nelle culture africane, l’esercizio di prestare denaro o addirittura donarlo viene inteso solitamente come modalità ancestrale per cementare il legame. Tale relazione deve comportare l’obbligo di condividere la propria vita con gli altri e il diritto di ricevere la propria energia dalla comunità. Così intesa, la relazione di solidarietà è dunque l’insieme delle prestazioni, materiali e immateriali, alle quali l’individuo è sottoposto a causa della sua appartenenza a una determinata comunità, prestazioni che vanno dalla partecipazione alla condivisione e alla reciprocità. Quando un membro della famiglia diventa benestante o comunque acquisisce un livello sociale che gli consente di avere denaro, è suo compito provvedere alle necessità di quei parenti più bisognosi.

Emblematico è il caso di chi, vivendo fuori dal proprio villaggio, in una città o addirittura all’estero, si fa carico delle spese scolastiche di quei giovani che appartengono al cosiddetto circuito della famiglia allargata. In molti Paesi africani la famiglia non è il piccolo nucleo di mamma, papà e figli, ma ingloba i nonni, gli zii, i cugini e c’è un senso di appartenenza molto forte, per esempio i cugini sono equiparabili ai fratelli. La figura della madre stessa non è soltanto quella della donna che ha generato il proprio figlio, ma può essere anche una zia, o una sorella maggiore che si è presa cura di un ragazzo/a.

Proviamo a portare un altro esempio emblematico relativo alla differente concezione del modus vivendi. Mentre in Europa il tempo è denaro, dunque non può essere sciupato, nella maggioranza delle tradizioni africane esso è in funzione delle relazioni e non viceversa. Nella cultura occidentale è forte l’impronta latina per cui il tempus fugit in quanto il tempo fugge irreparabile. Un detto congolese, diffuso in varie parti dell’Africa sub-sahariana, recita: «Dio ha dato gli orologi agli svizzeri, il tempo agli africani». Mentre in Occidente il tempo è quantizzato, dunque potremmo anche dire soggetto a pianificazioni e scadenze per ragioni non solo culturali ma anche socio-economiche, in Africa si vive soprattutto concentrati sul presente, dichiarando il primato della persona. Quando arriva un ospite in casa, fosse anche in un momento particolare della vita, tutto deve rispondere all’esigenza dell’accoglienza e il tempo coincide con la presenzialità dell’ospite.

Il tema è molto importante perché ci consente di comprendere alcune dinamiche che hanno spinto gli occidentali a peccare di presunzione. L’Occidente, infatti, ha relegato l’Africa in un tempo primitivo, utilizzandolo come metro di confronto per dichiarare quanto siamo migliori, avanzati, evoluti… Una sorta di rassicurazione, dunque, per credere d’essere migliori. La verità è che il tempo in Africa, come abbiamo visto, viene percepito in modo diverso dai suoi colonizzatori, vecchi e nuovi; di questo occorre tenerne conto, se si vuole uscire da un approccio etnocentrico, o meglio eurocentrico. L’Africa, dunque, pur essendo la culla dell’umanità, è stata disconnessa dalla storia legittimando le varie forme di sfruttamento e di egemonia nei confronti dei suoi popoli. Naturalmente, potremmo portare molti altri esempi sui tratti comuni dell’antropologia delle Afriche (usiamo il plurale perché comunque è un continente tre volte l’Europa) che si differenziano dalla cultura occidentale. Con il risultato che vi sono stati (e continuano ad esserci) equivoci e incomprensioni interculturali tra occidentali e africani. Ma per chi si dice credente, cioè per coloro che sono capaci di operare un sano discernimento, la posta in gioco è alta.

Bisogna vincere la paura, abbracciando quella maggioranza silenziosa che rispetta ogni genere di alterità, che non è capace di odiare e soprattutto non si rassegna all’inciviltà e che è, quella sì, la vera comunità cui apparteniamo per vocazione. La posta in gioco è alta stando al Vangelo. A coloro che dissentano da questa visione dell’esistenza umana, quella della testimonianza incentrata sui valori vissuti e non chiacchierati, sul coraggio di osare e non sul meschino interesse di parte, potrebbe giovare una citazione ad effetto della scrittrice statunitense Margaret Maron (che peraltro ha vissuto anche in Italia): «Ogni volta che iniziamo a pensare di essere il centro dell’universo, l’universo si gira e dice con un’aria leggermente distratta: “Mi dispiace. Può ripetermi di nuovo il suo nome?”».

P. Giulio Albanese – L’Osservatore Romano