Lunedì 19 maggio 2025
La seconda monografia del 2025 della rivista Presbyteri, dedicata alla crescente attenzione delle comunità cristiane alla custodia del creato, intende offrire una riflessione «in prospettiva cristiana sul dono della creazione che esce buona dalle mani di Dio e per cui l’uomo, soprattutto nel momento liturgico, rende grazie al Creatore. Da qui scaturisce per il credente e prima di tutto per il presbitero il doveroso impegno a riflettere e impegnarsi anche nelle comunità cristiane locali per la formazione e le iniziative per la cura del creato». Riprendiamo l’editoriale firmato da don Nico Dal Molin (Presbyteri 2/2025). [Credit photo: Quino Al su Unsplash]

«Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte» (Mc 13,28-29)

È sorprendente questa parabola del fico con i rami verdeggianti che, nel capitolo 13 del vangelo di Marco, precede quella del padrone di casa che si mette in viaggio (vv. 34-36). In una terra abbondante di fichi, che non è un albero sempre verde, l’immagine del fico è immediatamente comprensibile all’uditorio, perché il ramo verde della pianta, con i suoi germogli, racconta dell’estate che si avvicina. Gesù invita a prestare attenzione ed empatia alla natura, alla realtà creata, quasi chiedendo di mettersi alla scuola di un albero di fico perché anch’esso, parlandoci del mutare delle stagioni, ha qualcosa di utile da insegnare.

Fa parte dell’arte sapienziale di Gesù saper vedere nell’infinitamente piccolo ciò che è infinitamente grande, saper cogliere nell’ordinario ciò che è straordinario. Anche un albero, per chi sa ascoltare e guardare con il cuore semplice, racconta una storia che lo supera perché è la storia di Dio con l’umanità. «Quando vedete che il ramo di fico diventa tenero e spuntano le foglie, voi sapete che l’estate è vicina, così quando vedrete accadere queste cose, esse vi diranno che la venuta del Signore è prossima». Vi è una parola di Dio presente in tutto il creato, una efficacia espressiva che emerge dalla natura stessa.

Era il pensiero di Teilhard de Chardin, secondo cui il creato parla di Dio attraverso la diafania. Essa è la trasparenza del creato che testimonia la presenza di Dio e ne è pervaso[1]. Occorre avere occhi per vedere e orecchi per ascoltare e, se da una parte Gesù dice che il cielo e la terra passeranno mentre le sue parole non passeranno, dall’altra egli afferma che anche da un albero può venire una parola autorevole.

«Dall’albero di fico imparate»: màthete. Gesù usa il verbo manthàno, il verbo da cui deriva il termine mathetès, cioè “discepolo”. È il verbo del farsi discepoli, dell’apprendere, dell’imparare. Gesù chiede un rapporto equilibrato con tutto ciò che è parte della creazione, chiede una relazione amichevole fatta di gratuità e contemplazione, di docilità e semplicità come insegna l’ascolto di un albero[2].

«In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta, le tenebre ricoprivano l’abisso, e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque». Non mi viene in mente un attacco altrettanto memorabile. «L’intera Gallia, nel suo insieme, è divisa in tre parti»: anche l’incipit del De bello gallico di Giulio Cesare è bruciante, ma non così (…). E Tolstoj: «Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo». Nessun attacco, però, vale quello della Bibbia. Non so se la Bibbia sia stata scritta davvero da Dio. Di sicuro, è scritta da dio.

Sono le parole con cui il giornalista e scrittore Aldo Cazzullo comincia il suo coinvolgente racconto Il Dio dei nostri padri, chiamandolo il grande romanzo della Bibbia[3]. E inizia proprio ripercorrendo la meravigliosa storia della creazione: «Tutto sta nascendo. Dio sta per parlare. Ascoltiamolo».

Un giardino da custodire

«Noi siamo terra, unitamente alle eterne radici», scriveva p. Davide Maria Turoldo. Sappiamo bene che il libro della Genesi riporta due racconti della creazione. Il primo ci parla dell’amore di Dio per la varietà e la ricchezza della vita, un Dio attento a ciascuna erba, ciascun seme, ciascun albero (Gen 1,29), perché innamorato dei dettagli. Oggi si potrebbe dire che è un Dio «appassionato della bio-diversità».

Nel secondo racconto, il più antico, si parla di un Dio giardiniere con le mani sporche di terra che lavora con pazienza per renderla morbida e accogliente ai semi. Un Dio contadino, ortolano e anche un po’ vasaio perché impasta la polvere del suolo e la modella per dare forma all’uomo. Scrive ancora Aldo Cazzullo: «Il Dio di questo secondo racconto è molto diverso dal primo. È meno solenne. Non dà l’idea di essere onnipotente e onnisciente. Non sembra già sapere tutto. La creazione non è figlia di un disegno superiore; avviene per tentativi. È un Dio artigiano»[4].

Il tema della cura del creato è già presente nel primo racconto: «Siate fecondi, riempite la terra, soggiogatela e regnate… su ogni essere vivente» (cfr. Gen 1,28), ma appare in tutta la sua evidenza nel secondo testo: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15). Custodire e coltivare, due verbi che inaugurano il filone della cura premurosa che troverà il suo vertice in san Francesco d’Assisi[5].

Il giardino va custodito perché ha dei nemici: il deserto attorno e il caos dentro, la sterilità e la violenza. Il compito consegnato da Dio è che il giardino sia custodito con la stessa cura richiesta per il fratello. «Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?”» (Gen 4,9). La Bibbia usa lo stesso verbo sia per la cura del giardino che per quella del fratello; la cura è una sola ed è espressa con lo stesso termine: shamàr.

Per questo il capitolo secondo della Genesi, che descrive la relazione «uomo-giardino», e il capitolo quarto, dove si racconta la relazione “Caino-Abele”, vanno letti insieme. Il prendersi cura della terra si intreccia profondamente con il prendersi cura del fratello.

Questo è uno spunto di priorità pastorale che è formidabile: non è possibile una zona neutrale, una terza via, perché l’indifferenza, ogni forma di indifferenza, genera violenza. Quando non ci si prende cura del fratello è anche la terra che viene ferita. Il male compiuto da Caino ha come prima conseguenza che la terra non è più feconda, non è più madre: «Ora sii maledetto (…) quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra» (Gen 4,12). Il suolo è reso sterile dal sangue sparso.

È impressionante la connessione che la Bibbia stabilisce tra la terra e Abele: muore Abele e insieme a lui muore anche la terra. E viceversa: se si continua ad avvelenare, saccheggiare e depredare la terra, se si spreca l’acqua facendo avanzare il deserto, noi lasciamo morire il fratello. Scrivono Ronchi e Marcolini: «Il male fatto ad una creatura si ripercuote su tutte, mentre la cura di un solo filo della trama si ripercuote su tutto l’immenso arazzo dell’essere».

Fraternità cosmica e fraternità umana

La Bibbia è meravigliosa anche per questa capacità di tenere insieme la terra e il fratello, la fraternità cosmica e la fraternità umana[6]. Questa è una delle grandi intuizioni dell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco: associare il grido dei poveri e il grido della terra, connessi in un unico grande gemito. Se essa affronta il tema del legame profondo tra l’allarmante crisi ambientale e la sempre più drammatica crisi sociale, la successiva enciclica Fratelli tutti propone la fraternità come fonte di armonia e fondamento per una convivenza sociale più umana, felice e sostenibile.

La Laudato si’ non spunta come un germoglio nel deserto del nulla, ma si colloca nel solco della tradizione francescana e del magistero recente della Chiesa. La svolta profetica di Francesco è stata la scelta di dedicare un’intera enciclica alla «cura della casa comune», nel prendere pienamente coscienza che non si tratta di un problema tra i tanti problemi che affliggono questa umanità, ma che questo è il problema dei problemi, strettamente congiunto a tutti gli altri mali di cui soffre il nostro tempo. Gli assi portanti dell’enciclica, come Francesco stesso li definisce, sono alcune intuizioni di fondo:

l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita (LS 16).

Quale distanza abissale dalle parole enfatiche con cui il presidente degli Stati Uniti d’America, qualche giorno fa, ha proclamato il liberation day annunciando dazi per il mondo intero e inaugurando un’era di straordinario benessere e ricchezza per il popolo americano. Scrive Stefano Feltri in uno suo commento riportato da SettimanaNews: «Non è chiaro di cosa si liberi, forse della razionalità economica»[7].

Laudato si’ è anche un’enciclica che costruisce relazioni e fraternità: Francesco si pone in una posizione di ascolto e dialogo, sa dare spazio alle tante voci coinvolte in questa emergenza. Accoglie con libertà le parole del patriarca ortodosso Bartolomeo, cita Tommaso d’Aquino e san Bonaventura accanto al mistico islamico sufi Ali Al-Khawwas, che definisce «maestro spirituale», e coglie i suggerimenti di documenti importanti come la Carta della terra e il Documento di Aparecida. Un’enciclica che non solo dialoga con tutti ma che richiede con forza la collaborazione di tutti:

Se teniamo conto della complessità della crisi ecologica e delle sue molteplici cause, dovremmo riconoscere che le soluzioni non possono venire da un unico modo di interpretare e trasformare la realtà. È necessario ricorrere anche alle diverse ricchezze culturali dei popoli, all’arte e alla poesia, alla vita interiore e alla spiritualità (LS 63).

Lasciate riposare la terra!

Sono rimasto molto colpito dal Discorso alla città di Milano che mons. Delpini ha proposto nella Basilica di Sant’Ambrogio, la sera del 6 dicembre 2024[8].

Dagli incontri che mi è dato di vivere, dalle confidenze che raccolgo mi sono convinto che si può riconoscere come uno dei sentimenti diffusi una sorta di spossatezza, come di chi non ce la fa più e deve continuare ad andare avanti. Ecco: la stanchezza mi sembra un punto di vista per interpretare la situazione.

La sua è una fotografia senza filtri della realtà socio-culturale ed ecclesiale milanese, a cui si è direttamente rivolto, ma è pienamente condivisibile per cogliere uno stato d’animo diffuso e pervasivo di reale stanchezza che, sempre più rapidamente, diviene insofferenza e indifferenza. Senza rinunciare a un messaggio di impegno e di speranza: «In nome di Dio io chiedo a tutti noi di esplorare vie per dare sollievo. In nome di Dio, lasciate riposare la terra! Abbiate compassione di voi stessi, dei vostri contemporanei, dei vostri figli e trovate il modo di far riposare la terra».

In piena sintonia con il messaggio tante volte riproposto da papa Francesco ha poi aggiunto: «La terra è stanca di quel modo di vivere il presente che non si cura del futuro e delle minacce del deserto, del calore, dell’aria che respireranno le generazioni a venire», è «stanca della guerra» e «della stupidità che avvelena le acque e l’aria».

«Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto», ricorda San Paolo nella lettera ai Romani (8,22). Forse è proprio in questo tempo di gemiti e di passioni tristi che si può tornare a ridire la parola «felicità».

Immaginando «un altro tipo di progresso, più sano, più umano» e provando uno stile di vita diverso, si può incontrare la felicità. Qualcosa che è già presente, magari in modo quasi impercettibile, come la nebbia che filtra sotto una porta chiusa. O come un fiore che sta per sbocciare, frutto di una promessa permanente e di una ostinata resistenza di tutto ciò che è autentico (LS 112).

«Non mi stancherò mai di dirvi che considero un dovere sacro quello di uscire all’aperto e di contemplare la bellezza che ci attornia e di salutare tutti i luoghi amati e tutte le creature» (Sorella Maria di Campello).

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[1] P. Teilhard de Chardin, L’ambiente divino. Saggio di vita interiore, Queriniana, Brescia 19947.
[2] L. Manicardi, Imparare dal creato, commento al vangelo di Mc 13,24-32, Monastero di Bose 14 novembre 2021.
[3] A. Cazzullo, Il Dio dei nostri padri. Il grande romanzo della Bibbia, HarperCollins, Milano 2024.
[4] Ibidem, 21.
[5] Per un approfondimento più ampio di queste tematiche cf. E. Ronchi – M. Marcolini, La cura del Creato dalla Genesi alla Laudato si’, in Casa dei sentieri, Santuario S. Maria del Cengio, 9 aprile 2021.
[6] Cf. L. Bruni, Giubileo, il “tempo sabbatico” che dà respiro alla nostra vita, in Avvenire, 11 marzo 2025.
[7] S. Feltri, La folle economia dei dazi, in SettimanaNews, 4 aprile 2025.
[8] M. Delpini, Discorso alla Città: Lasciate riposare la terra. Il Giubileo 2025, tempo propizio per una società amica del futuro, Basilica di Sant’Ambrogio, Milano 6 dicembre 2024.

Nico Dal Molin – Presbyteri 2/2025.
(Settimana News)