Sabato 26 luglio 2025
Anche dietro le sbarre si celebra la vita nuova. Sette giovani detenuti ricevono il battesimo nel carcere di Klessoum, nel cuore del Ciad, tra calore soffocante, ventilatori improvvisati, ampolline sequestrate e una liturgia che diventa segno di speranza. Perché lo Spirito soffia anche tra le lamiere arroventate e i cancelli chiusi. Gli ostacoli burocratici non fermano la solidarietà inattesa, mentre la fede fa danzare attorno all’altare.
I sette neobattezzati
«Ex Africa semper aliquid novi» (“dall’Africa, sempre qualcosa di nuovo”), scriveva Plinio il Vecchio. Potrei parafrasare dicendo che anche dalla prigione di Klessoum, dove presto servizio, c’è sempre qualcosa di nuovo.
Tra le attività della piccola équipe incaricata della pastorale in carcere ci sono la preparazione della Messa settimanale, l’alfabetizzazione di uomini e donne, e la catechesi in vista del battesimo. Un gruppo di seminaristi, studenti di teologia che risiedono a pochi chilometri dalla prigione, viene in bicicletta per aiutare nella catechesi. Prima di partire per le vacanze, questi scolastici ci hanno affidato sette giovani che hanno seguito per quattro anni, dicendoci che erano pronti per il battesimo, previsto per la vigilia di Pentecoste.
Per alcune settimane, questi “magnifici sette” sono stati al centro dell’attenzione e della preghiera di tutti. Per loro sono state celebrate tutte le tappe conclusive del catecumenato: gli scrutini, la chiamata finale, gli esorcismi, la consegna del Credo e del Padre Nostro, e l’unzione dei catecumeni.
Proprio al momento di celebrare l’ultimo rito di preparazione, cioè l’unzione con l’olio dei catecumeni, ecco che solo sei si presentano. Chiedo: «Dov’è il settimo?». Risposta: «È stato liberato… Ma tornerà la prossima settimana per ricevere il battesimo».
Così, il sabato successivo, sono stato costretto a fare alcuni passi di “ginnastica diplomatica” con le autorità del carcere, perché permettessero all’ex detenuto di rientrare in carcere per ricevere il sacramento. Con una certa fatica, siamo riusciti anche ad ottenere che ognuno dei sette “battezzandi” potesse avere accanto un familiare nel momento solenne.
Come previsto, la celebrazione ha attirato un gran numero di presenti e curiosi che facevano da “siepe” attorno al luogo della celebrazione: una veranda coperta di lamiere e chiusa su tre lati – il quarto lato era chiuso… dai curiosi.
Non c’era aria per il prete celebrante, nonostante un ventilatore posto sopra la sua testa. Ma la Provvidenza ha voluto che a destra e sinistra avessi due giovani detenuti che fungevano da chierichetti: con due grandi ventagli hanno continuato per tutta la celebrazione a farmi aria. Senza di loro, non ce l’avrei fatta a terminare la celebrazione. A un certo punto ho dovuto scegliere tra respirare o parlare: le due cose insieme mi risultavano oltremodo difficili.
Alla fine della Messa, uscito da sotto la tettoia, mi sono trovato sotto il sole di mezzogiorno nel cortile del carcere, eppure m’è sembrato di ritrovare il fresco di un rifugio alpino.
Sette giorni dopo
Ieri mattina, alle 7.00, ricevo una telefonata da un detenuto: «Padre, fuori dalla porta della prigione c’è la mamma di Franklin, uno dei neobattezzati. Ti aspetta. Dice che vuole partecipare con noi alla messa».
Tre ore dopo sono sul posto. Trovo una donna ancora giovane, vestita di bianco, con una croce al collo. «Sono la mamma di Franklin», mi dice, mentre mi salute con la mano.
Una volta entrati, ecco la sorpresa: il direttore del carcere, sebbene mi conosca bene, ordina che sia perquisita la valigetta del mio piccolo altare portatile. Uno zelante militare, che parla solo arabo come il suo capo, individua subito “il corpo del reato”: le ampolline (mezze vuote) con vino e acqua. Le porta immediatamente dal direttore che, dopo averle annusate entrambe, sentenzia: «Marissa», cioè “alcool”. E le sequestra.
Gli spiego: «Ci servono per la messa. Non possiamo celebrare senza vino». Lui, a gesti, mi fa capire che non c’’ alternativo: «O così, o niente». E così, proprio nel giorno della solennità del Corpo e del Sangue del Signore, siamo stati costretti a celebrare solo con il pane. Ma questo non ha impedito la partecipazione gioiosa e corale dei 138 presenti.
Dopo la Comunione, qui vige l’usanza di cantare un inno di ringraziamento, ben ritmato, che invita alla danza. Ed è bellissimo vedere la mamma di Franklin che si alza e comincia a danzare. Dopo di lei, anche il figlio, in abito bianco, e poi tutti e due insieme, attorno all’altare, circondati dalle grida di gioia degli altri detenuti. Davvero gesti di autentica liturgia, a cui non siamo abituati.
Consolazione
Domenica mattina mi trovo nel telefono questo messaggio: «Buongiorno, padre. È con molto dispiacere che ho saputo del disprezzo di cui sei stato fatto oggetto a causa del comportamento poco responsabile e professionale dei nostri collaboratori. Che Dio rassereni il tuo cuore e ti dia forza. Cerca di capire ciò che è successo e che deve esserti parso come una sorta di persecuzione».
Queste parole, scritte da un militare cristiano in servizio nella prigione, mi hanno toccato più del gesto del suo superiore.
Mi sono tornate alla mente le parole di san Paolo: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio» (1 Cor 1,3-4).
Colpo di scena
Il sabato successivo, incontro la direttrice del carcere, che si scusa per l’inconveniente delle ampolline. Mi spiega: “Sono una cristiana protestante. Ho cercato di fare capire al direttore, che è musulmano, che cosa sia la messa per voi cattolici, dicendogli anche che il vino è usato in piccolissime quantità e solo dal celebrante».
E così, ho potuto recuperare il “corpo del reato” e celebrare finalmente “come Dio comanda”. Ho notato, però, una certa eccitazione tra i detenuti: parlottavano a bassa voce, visibilmente soddisfatti. Uno di essi mi ha detto: «Hai visto, padre, che Dio non fa mai le cose a metà? Lui riesce sempre a farle bene le cose. E, guarda caso, il direttore del carcere, che non ha rispettato il ministro di Cristo, è stato rimosso dal suo incarico». Un altro ha aggiungo: «Sì, Dio ha fatto giustizia. Chi ha voluto prenderlo in giro, ora si trova ripagato con la giusta moneta». Tutti hanno letto il cambio di direzione come “un segno di Dio”, una piccola lezione per chi aveva mancato di rispetto.
Ho provato a riportare un po’ di equilibrato buon senso tra i carcerati, dicendo loro che, a volte, uno agisce per ignoranza o per troppo zelo, ma che noi siamo sempre chiamati a comprendere e perdonare. L’impressione finale avuta, tuttavia, è stata che le mie parole erano cadute nel vuoto, o portate via dal vento.
C’è stato, comunque, una piccola consolazione finale: il numero dei presenti alla celebrazione eucaristica ha raggiunto i 202! Mai così tanti!
Negli Atti degli Apostoli appare chiaro che, quando c’era aria di persecuzione, «la parola di Dio cresceva e il numero dei discepoli si moltiplicava grandemente» (Atti 6:7).
Un caro saluto.
E rimaniamo uniti nella preghiera.
Padre Renzo Piazza, mccj,
N’Djamena, 19 luglio 2025