Lunedì 18 marzo 2019
Lo spagnolo padre Juan González Núñez, scrittore e antropologo, a 75 anni rimane a fianco al popolo affidatogli circa quarant’anni fa che oggi piange le vittime del disastro aéreo.

Quando fu ordinato a Valencia, nel 1968, padre Juan González Núñez sognava di salvare le anime in Africa, ma dovette aspettare sette anni, perché la congregazione comboniana lo destinò a formare i giovani seminaristi, «parlando di una missione che aveva visto solo con l’immaginazione». Poi arrivò la chiamata in Etiopia e da allora non ha mani abbandonato il Paese. Oggi piange insieme alla popolazione le vittime del disastro aereo di domenica: 157 persone morte nel crollo del Boeing della Ethiopian Airlines, tra cui otto italiani, alcuni missionari come lui o ragazzi giovanissimi che svolgevano con impegno un’opera di volontariato.

Padre Juan González Núñez.

Padre Juan conosce l’entusiasmo di questi giovani nell’operare in questa parte del Corno d’Africa: è lo stesso provato da lui all’inizio della sua missione, nonostante le difficoltà date dalla lingua e dalla cultura. «Le stesse problematiche – racconta – rendono il Paese unico e travolgente. Mi sentivo come un antropologo che si ritrova a scoprire una città incantata, sepolta sotto tonnellate di terra».

Il primo incontro con la realtà locale fu complicato dalla rivoluzione marxista che cercava di sradicare ogni riferimento religioso. Fu destinato a Dilla, nel sud, dove incontrò il popolo Sidamo che non comprendeva l’amarico (la lingua nazionale imparata dal sacerdote) e che aveva differenti rituali e schemi religiosi. All’improvviso crollano tutte le certezze teologiche. «Credi di avere un messaggio importante che viene da Dio ma ti senti impotente. Credi che Dio dovrebbe facilitare le cose, perché tu sei lì per difendere la causa dei nativi, ma Dio non sembra avere la fretta che hai tu. Fatichi a comprendere il suo disegno. Ti ritrovi a piangere come un povero pazzo, ma se tocchi il fondo, risali in superficie e arrivi a dire: “Desidero maturare e invecchiare sotto il sole di Dilla come fa la papaya”».

Dopo quattro anni, quando ormai pensava di rimanere lì a lungo, viene spedito ad Addis Abeba, ad aprire un seminario, «nel pieno della cultura classica», a confrontarsi con una nuova tradizione. Lì rimane sei anni, dal 1982 al 1988. In mezzo la grande carestia del 1984/85 difficile da dimenticare. «Non avevo mai visto così tanta sofferenza. Anziani, bambini, madri, uomini soli, che vagavano esausti. E tu dovevi decidere arbitrariamente chi salvare e chi abbandonare al proprio destino».

In quelle giornate terribili, padre Juan tiene un diario che successivamente viene pubblicato: il libro “Etiopía, 38 días en el corazón del hambre” è un successo editoriale e permette agli uomini di aprire gli occhi sulla tragedia. Ritorna in Spagna a dirigere la rivista Mundo Negro e dal 1993 al 1997 si trasferisce a Roma come Assistente generale dell’Istituto. Non smette, però, di scrivere. In un testo narra la storia dell’Etiopia a partire dai volti incontrati: “Etiopía, hombres, lugares y mitos” alla quinta edizione cambia il titolo in “Etiopía, entre la historia y la leyenda”.

Nel 2004, l’atteso ritorno sul campo: inizia, infatti, una missione di avanguardia in una delle tribù più emarginate. I Gumuz abitano alla frontiera con il Sudan e sono disprezzati dal resto degli etiopi per il colore più scuro della pelle. È il contesto sognato. Una Savana arida, bruciata da un sole che non dà tregua, dove la gente vive allo stesso modo dei suo antenati. A lui non sembrava vero di riportare indietro le lancette dell’orologio di 200 anni. Incrocia così il tessuto ideale per costruire un lavoro sociale: educazione, promozione umana, salute. In poche parole, «una terra fertile per seminare il Vangelo».

L’esperienza viene raccontata in due volumi: “Al Norte de Nilo Azul” e “Pequeñas exploraciones”. Cinque anni fa gli viene, però, chiesto un nuovo sacrificio, un nuovo cambiamento: insegnante di teologia in Seminario e formatore dei giovani. «Pensavo di avere lasciato là il cuore, ma con il tempo ho imparato che il cuore deve seguirti per amare le persone che la vita, l’obbedienza o la Provvidenza (o tutte e tre insieme) ti mettono davanti», racconta. Non è l’Addis Abeba che aveva conosciuto, ma una città, sempre affascinante, che cresce a un ritmo vertiginoso.

All’età di 75 anni stende un ulteriore libro, un canto appassionato, “Addis Abeba”. Sul piano politico c’è molta speranza nel nuovo governo, anche se ci sono alcuni protagonisti che «cercano di creare confusione, servendosi delle tensioni etniche che sono sempre esistite. Sullo sfondo si muove il movimento per l’indipendenza di Oromo. Sarà questo il centro delle tensioni».

Di fronte a questo scenario, tutte le religioni, a livello istituzionale, si sono attivate per andare a mediare, riconosciute dallo Stato, nei luoghi di conflitto. «Ciò non toglie che siano esse stesse causa di conflitto. Ci sono stati molti scontri nella regione del Somali e nella città di Gimma tra cristiani e musulmani, anche se spesso l’elemento religioso si sovrappone all’elemento etnico».

In Etiopia la Chiesa cattolica ha sempre avuto problemi con quella ortodossa. Attualmente i rapporti sono cordiali «perché i cattolici, numericamente, sono insignificanti». Resistono alcune sacche di chi si appella ancora al Concilio di Calcedonia e all’aggressione dei gesuiti. «Gli ortodossi sono, però, più preoccupati dall’esodo verso le nuove denominazioni pentecostali». L’Etiopia con le sue contraddizioni affascina anche loro.
LUCIANO ZANARDINI
ADDIS ABEBA
Vaticaninsider
http://www.lastampa.it
Pubblicato il 12/03/2019