Domenica 25 maggio 2025
Nelle baracche del campo sfollati di Bentiu, nella parte settentrionale del Sud Sudan al confine con il Sudan, vivono in centomila. Sono in fuga da dodici anni: «Mangiavamo i fiori delle ninfee». Nel Paese manca tutto, tranne le armi. [Nella foto, il campo sfollati di Bentiu, il più grande del Paese. Testo e foto: Anna Pozzi. Avvenire]
Gatdet ha 22 anni e dalla guerra è già scappato due volte. Jal ne ha 24 e la guerra ha iniziato a farla quando ne aveva otto. Oggi si trovano entrambi nel campo sfollati di Bentiu, nella parte settentrionale del Sud Sudan, al confine con il Sudan, il più grande del Paese. Un quadrato diviso in blocchi dove vivono ammassate oltre 100mila persone che qui hanno trovato rifugio dai conflitti, ma anche dalle inondazioni. Tutt’intorno, infatti, c’è acqua. Acqua ovunque, a perdita d’occhio; una distesa infinita da cui emergono le cime degli alberi di quella che un tempo era una foresta. Tutto il resto è finito sotto: villaggi, terreni agricoli, pascoli, strade… Un paesaggio apocalittico.
A Bentiu e dintorni tutto parla di distruzione. E delle peggiori conseguenze di due dei principali fattori che provocano spostamenti forzati di persone: i conflitti e i cambiamenti climatici. «Quando è scoppiata la guerra, hanno cominciato a bombardare e allora siamo scappati al villaggio – racconta Gatdet, un ragazzone di due metri che ancora frequenta la scuola primaria –, ma ci hanno inseguiti pure lì. Allora siamo andati nel bush, nella boscaglia, dove non c’era niente. Non avevamo un riparo, né acqua e cibo. Per lo più mangiavamo i fiori delle ninfee. Ma neppure lì potevamo stare tranquilli. Se i soldati ti trovavano non avevano rispetto per nessuno, neppure per i bambini».
Mentre Gatdet racconta, alcuni ragazzi provano a fare dei disegni. Non l’hanno mai fatto prima. Nessuno ha matite, penne, pennarelli, fogli… Scoprono che disegnare gli piace e si stringono attorno a un tavolino in una stanza di lamiera dove i quaranta gradi esterni rendono tutto rovente. Ma è così ovunque, non solo dentro il campo, ma anche fuori, negli agglomerati di Rubkona e Bentiu, dove praticamente nessuno vive sulla propria terra e sono pochissimi gli edifici in muratura. La maggior parte sono scheletri crivellati di colpi d’arma da fuoco. Per il resto, solo baracche e casupole di lamiere, fango, bambù e teli di plastica. Qui la guerra è tornata nel 2013, dopo due anni di indipendenza e cinquanta di lotta di liberazione dal Nord. Neppure il tempo di iniziare a costruire un futuro di pace, riconciliazione e sviluppo, in quello che era ed è il Paese più povero del mondo, ed è scoppiato il conflitto civile, che si è trascinato sino al 2018. Nel 2019, sono cominciate le alluvioni. Nel 2023, la guerra in Sudan, con un flusso ininterrotto di profughi e returnees, ovvero sudsudanesi fuggiti al nord in Sudan che sono costretti a ritornare. Ragazzi e ragazze raccontano e intanto disegnano in modo rudimentale, ma drammaticamente efficace: militari che sparano alla testa delle persone, che uccidono le mucche e danno fuoco alle capanne. Una mamma con un bimbo sulla schiena è accovacciata come se volesse sparire.
«Siamo scappati a Khartum (in Sudan, ndr) – continua Gatdet –, ma poi anche lì hanno cominciato a bombardare. Non sapevamo dove nasconderci, cosa fare. E siamo fuggiti di nuovo. Era molto pericoloso. Tante persone sono morte. Ma queste non sono le nostre guerre. Sono guerre tra fazioni. Perché continuano a uccidere i civili?», si chiede. Anche Jal ha molte domande a cui non sa rispondere. Lui la guerra l’ha subìta e l’ha fatta: «Avevo otto anni quando hanno ucciso mio padre e una parte della mia famiglia. Ci hanno portato via tutto, le nostre cose e i nostri animali. Che altro potevo fare?». È finito in una milizia, anni di vita nella macchia, su è giù per un Paese dilaniato dai conflitti. «Non ne potevo più – dice abbassando lo sguardo – e sono scappato. Ho saputo di questo campo e sono venuto qui». Anche lui ha ripreso la scuola. I suoi compagni di terza elementare guardano dal basso questo gigante e un po’ lo temono. Nel suo sguardo c’è un misto di tristezza e di ferocia.
Oggi in Sud Sudan la guerra è incistata nei cuori e nelle menti di tante persone, che non hanno conosciuto altro. Ed è ovunque, nei continui scontri inter e intra comunitari, nei bombardamenti indiscriminati dell’esercito appoggiato dall’aviazione ugandese, nelle violenze e nelle prepotenze di chiunque porti addosso un’arma, che è l’unica cosa che non manca in un Paese dove manca tutto. La scorsa settimana l’Onu aveva organizzato un evento di riconciliazione e preghiera nella contea di Mayom, a tre ore da Bentiu, ma è stato annullato a causa dei bombardamenti. La settimana prima, il 3 maggio, due elicotteri hanno preso di mira la farmacia dell’ospedale di Medici senza Frontiere a Old Fangak, un po’ più a sud, l’unico per una popolazione di oltre centomila abitanti. E un drone ha colpito il mercato provocando morti e feriti. Tutto il personale, ma anche due missionari comboniani e tre suore, sono stati evacuati dall’Onu e l’intera popolazione è stata costretta a fuggire senza nessuna assistenza.
«I conflitti generano povertà e la povertà genera conflitti», analizza Stella Folasade Abayomi, la responsabile facente funzioni della Missione Onu per il Sud Sudan (Unimiss) a Bentiu, che è presente con due contingenti di peacekeeper del Ghana e della Mongolia e varie agenzie umanitarie, che di fatto garantiscono la sopravvivenza delle persone, nonostante molte inefficienze e altrettante critiche. «Cerchiamo di prevenire e mitigare i conflitti, andando nelle comunità e promuovendo occasioni di dialogo e riconciliazione. E per proteggere i civili. Ma occorre fare di più, anche da parte delle autorità del Paese, ad esempio in termini di disarmo e di formazione al rispetto dei diritti e della vita».
È un punto, questo, su cui insiste molto anche il vescovo Christian Carlassare, a cui è stata affidata la nuova diocesi di Bentiu nel luglio del 2024. Lui stesso vittima di un attentato nel 2021 a Rumbek, continua a portare avanti anche in questo contesto poverissimo e ferito, le istanze fondamentali di preghiera, dialogo e formazione: «È importante dare testimonianza di una Chiesa unita e unificante, riconciliata e riconciliante. Ovunque, e particolarmente in questo contesto, evangelizzare significa riconciliare e portare le persone e i popoli e a essere uno, a riconoscersi nella comune fratellanza. Per questo dobbiamo essere una Chiesa che parla e testimonia anche la gioia del Vangelo in un contesto ancora troppo segnato da povertà, violenza e guerra, ma dove la gente mostra una capacità straordinaria non solo di sopravvivere, ma anche di aiutarsi e sostenersi in condizioni talvolta davvero estreme».
Testo e foto: Anna Pozzi – Avvenire