Venerdì 30 maggio 2025
L’inchiesta dell’ONG internazionale punta il dito contro il trader lussemburghese Traxys e l’esportatore di minerali rwandese African Panther Resources. Nuove prove suggeriscono che il coltan estratto nelle zone di guerra controllate dalla milizia M23 nell’est della Rd Congo e contrabbandato attraverso il Rwanda finisca nelle mani di grandi trader internazionali, sollevando seri interrogativi sugli accordi UE con Kigali e sulla provenienza dei minerali per la nostra tecnologia. [Foto ISPI. Testo
Nigrizia]

Una nuova ombra si allunga sul mondo del commercio globale di materie prime cruciali. Una dettagliata inchiesta condotta da Global Witness e pubblicata lo scorso aprile indica che Traxys, colosso lussemburghese nel settore, avrebbe acquistato coltan contrabbandato dalle zone di conflitto nell’est della Repubblica democratica del Congo, attraverso il Rwanda. Una rivelazione che mette in discussione l’integrità della catena di approvvigionamento di un minerale indispensabile per la nostra tecnologia.

I documenti doganali esaminati da Global Witness mostrano che nel 2024 Traxys ha acquisito 280 tonnellate di coltan dall’esportatore di minerali rwandese African Panther Resources Limited. L’analisi dei flussi commerciali, unita alle testimonianze raccolte da due individui coinvolti nel traffico di coltan, suggerisce che una porzione significativa di questo minerale sia intrinsecamente legata alle violenze che imperversano nelle regioni congolesi del Nord e Sud Kivu, alimentate in larga parte dal gruppo armato M23, sostenuto militarmente da Kigali.

Il coltan è un elemento chiave per la fabbricazione di dispositivi elettronici come smartphone e computer, e per componenti per veicoli elettrici, pilastri della transizione energetica. Questa centralità tecnologica rende la provenienza del coltan una questione di portata globale, con risvolti etici profondi.

L’M23 e il denaro sporco del coltan

L’escalation del conflitto nel Kivu ha raggiunto picchi allarmanti e generato una delle più grandi crisi umanitarie al mondo. Nel febbraio 2024, l’M23 ha conquistato Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, appena settimane dopo aver preso Goma, la città più grande dell’est congolese, capoluogo del Nord Kivu. Il gruppo armato ha ottenuto anche il controllo dei principali siti di estrazione mineraria della regione, tra cui la miniera di Rubaya, nel territorio di Masisi, da cui proviene circa il 15% del commercio mondiale di tantalio, uno degli elementi che compone il coltan.

Ed è grazie al commercio illecito del minerale attraverso il vicino Rwanda, che la milizia garantirebbe il proprio sostentamento. Secondo gli esperti delle Nazioni Unite, il commercio di coltan frutterebbe al M23 un fatturato stimato di almeno 300mila dollari al mese. Sia Traxys che African Panther peraltro, fa sapere il think thank internazionale, respingono fermamente ogni collegamento tra il coltan esportato dal Rwanda e le miniere di Rubaya.

Accordi UE-Rwanda

Questa drammatica situazione si scontra apertamente con le intese strategiche tra l’Unione Europea e il Rwanda. Alla fine del 2023, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, aveva discusso l’approvvigionamento di materie prime critiche con il presidente rwandese Paul Kagame. Il dialogo aveva condotto alla firma di una partnership strategica nel febbraio 2024, con l’obiettivo dichiarato di facilitare l’accesso dell’UE a minerali rwandesi, incluso il coltan, classificato dall’UE come “critico”.

L’indagine di Global Witness, tuttavia, suggerisce che l’UE non abbia predisposto barriere efficaci per impedire che i minerali provenienti da zone di conflitto varchino i suoi confini. Anche il Parlamento europeo, già lo scorso febbraio aveva stigmatizzato l’inefficacia delle misure adottate per fronteggiare la crisi nell’est della Rd Congo e chiesto lo stop al sostegno economico e militare al Rwanda.

L’ONG fa notare che lo scorso 17 marzo la Commissione europea ha imposto sanzioni a figure chiave del M23, a ufficiali dell’esercito rwandese e a una società implicata in violazioni dei diritti umani nella Rd Congo. Ma anche che, “sorprendentemente, si è appreso che il Lussemburgo, sede di Traxys, in passato avrebbe opposto resistenza a queste sanzioni”.

“Contaminazione” della filiera globale

Alex Kopp di Global Witness, non usa mezzi termini: “La nostra indagine indica con forza che il coltan ‘insanguinato’ della Rd Congo, contrabbandato in Rwanda, è giunto in Europa. L’UE sembra incapace di attuare controlli efficaci e dovrebbe annullare immediatamente la sua partnership sulle materie prime con il Rwanda”.

Kopp ha poi sottolineato l’influenza che l’UE e i suoi stati membri, in quanto principali donatori, esercitano su Kigali, esortandoli a sospendere gli aiuti allo sviluppo – incluso il programma di investimenti da 900 milioni di euro nell’ambito del Global Gateway – fino a quando il Rwanda non ritirerà le sue truppe dall’est della Rd Congo e cesserà ogni sostegno al M23.

Nel loro ultimo rapporto semestrale, presentato lo scorso gennaio, gli esperti delle Nazioni Unite stimano che tra maggio e ottobre 2024, almeno 120 tonnellate di coltan al mese siano state contrabbandate da Rubaya al Rwanda, un flusso che costituisce la “più vasta contaminazione delle catene di approvvigionamento minerale” nella regione africana dei Grandi Laghi nell’ultimo decennio.

I dati ufficiali rwandesi supportano la denuncia dell’ONU, mostrando un raddoppio delle esportazioni di coltan, da circa 1.000 tonnellate nel 2021 a 2.000 nel 2023, con un’ulteriore impennata nel primo trimestre del 2024, che ha superato le 630 tonnellate. Le Nazioni Unite e le organizzazioni non governative hanno ripetutamente evidenziato come le cifre di esportazione di minerali del Rwanda siano di gran lunga superiori all’effettiva produzione interna del paese, una discrepanza evidente già nel 2023, quando il piccolo paese dei Grandi Laghi figurava addirittura come il primo esportatore di coltan a livello mondiale.

I traders negano le accuse

Di fronte all’inchiesta, Traxys ha negato che il suo coltan provenisse da Rubaya, dichiarando il proprio “fermo impegno a collaborare solo con catene di approvvigionamento responsabili in aree ad alto rischio o interessate da conflitti”. Global Witness, tuttavia, ha sollevato dubbi sulle credenziali di alcune delle aziende nominate da Traxys come fornitori di African Panther, citando precedenti controversi nell’approvvigionamento di minerali nella regione. Alcune sarebbero state infatti segnalate in passato per aver venduto minerali con false indicazioni di origine o per aver acquistato minerali da zone di conflitto.

Da parte sua African Panther ha negato la presenza di coltan di contrabbando da Rubaya nella sua filiera, ma, fa sapere Global Witness, “non ha rivelato i nomi dei propri fornitori, né ha risposto alle richieste di chiarimenti sulle miniere di provenienza del coltan”. Entrambe le aziende hanno affermato di verificare l’origine del coltan tramite l’analisi del rapporto tra tantalio e niobio, sostenendo che il ‘coltan bianco’ di Rubaya presenta una maggiore concentrazione di tantalio e una minore di niobio rispetto al ‘coltan nero’ rwandese.

Global Witness, però, controbatte che, secondo studi accademici, i gradi di tantalio variano notevolmente nelle miniere artigianali di coltan in Rwanda. L’ONG precisa inoltre che “due geologi esperti della regione hanno confermato che lo stesso vale per il niobio, aggiungendo che, una volta arrivato in Rwanda, il ‘coltan bianco’ della Rd Congo viene regolarmente scurito o mescolato con il ‘coltan nero’ rwandese per celarne la vera provenienza”.

Traxys ha anche affermato che tutte le consegne di coltan da African Panther sono “etichettate da fornitori di tracciabilità riconosciuti dal settore”. Eppure, fa notare ancora Global Witness, un suo rapporto del 2022 aveva già evidenziato che il sistema di tracciabilità dominante in Rwanda, ITSCI (di cui sia Traxys che African Panther sono membri), sembra essere stato ampiamente utilizzato per il riciclaggio di minerali di contrabbando.
Nigrizia

Molte parole e tante contraddizioni

Domenica scorsa abbiamo celebrato il cosiddetto “Africa Day”, la tradizionale giornata mondiale dell’Africa. Si tratta dell’anniversario della fondazione dell’Organizzazione dell’Unità africana (chiamata dal 2002 Unione africana) avvenuta il 25 maggio 1963 ad Addis Abeba, in Etiopia. Come di consueto, sono state profuse parole edificanti dai pulpiti della politica di mezzo mondo all’insegna della solidarietà nei confronti di questo continente, poliedrico contenitore di saperi millenari, luoghi di passioni, ricchezza culturale e artistica.

Sia chiaro, in questi ultimi anni sono state messe in campo, da parte del consesso delle nazioni, diverse iniziative per innescare l’agognato cambiamento. Ad esempio, è in fase di esecuzione il Global Gateway, piano di connettività dell’Unione europea da 300 miliardi varato a fine 2021 e con un periodo di azione fino al 2027. Da parte sua, il governo italiano ha annunciato un Piano Mattei per gestire le relazioni tra l’Italia e i Paesi africani, dichiarandolo basato su una cooperazione «da pari a pari» e non di tipo «predatorio», diversamente da quanto avvenne in passato. Il Piano dovrebbe fondarsi su 6 direttrici: istruzione-formazione, agricoltura, salute, energia, infrastrutture fisiche e digitali.

I cinesi dal canto loro proseguono l’attuazione della Nuova Via della Seta, meglio nota con gli acronimi Obor (One Belt One Road) e Bri (Belt and Road Initiative), in cinese yidaiyilu, un’iniziativa prevalentemente infrastrutturale, tesa a collegare, almeno inizialmente, più di 60 Paesi in Asia, Europa e Africa, beneficiando oltre quattro miliardi di persone.

Gli Stati Uniti con la nuova amministrazione Trump hanno indirizzato diversamente la politica di clintoniana memoria “Trade not Aid” (Commercio non aiuti). «Continueremo a investire nello sviluppo, ma lo faremo attraverso l’espansione del commercio e degli investimenti privati, perché è il settore privato, non l’assistenza, a guidare la crescita economica. Storicamente abbiamo enfatizzato le riforme macroeconomiche, piuttosto che abbattere le barriere e aprire le porte alle aziende americane sul territorio», ha dichiarato l’ambasciatore Troy Fitrell, capo dell’Ufficio per gli Affari africani del dipartimento di Stato.

Se da una parte, almeno concettualmente, suona bene parlare di sviluppo al posto di mero assistenzialismo, il rischio, sempre in agguato, è che dietro la diplomazia commerciale l’Africa risulti essere sempre perdente. Nei giorni scorsi a Washington, è stato firmato, con la mediazione statunitense dell’amministrazione Trump, un accordo preliminare tra il Rwanda e la Repubblica Democratica del Congo, le cui province nord-settentrionali sono state occupate dalle milizie filo-rwandesi. Il pacchetto prevede degli accordi bilaterali paralleli per l’accesso privilegiato degli Usa alle miniere di coltan, litio e cobalto del Nord e Sud Kivu.

Nel frattempo, questo continente è teatro di conflitti armati che causano pene indicibili alle stremate popolazioni locali: dal Sudan alla Somalia; dall’ex Zaire alla fascia saheliana. Si tratta di una vulnerabilità che accresce costantemente l’insofferenza delle masse africane.

La verità è che l’Africa è oggi la cartina al tornasole delle contraddizioni imposte dalla globalizzazione dei mercati. Infatti, se da una parte l’emergere, il diffondersi e il perdurare di numerosi conflitti armati a livello continentale sono strettamente legati alle debolezze nei processi di state-building e nation-building; dall’altra sono innegabili, al di là della retorica di circostanza, le interferenze straniere che condizionano la cosiddetta coerenza sociale e i meccanismi per garantire uno sviluppo economico sostenibile. Basti riflettere sullo sfruttamento delle commodity da parte di aziende straniere d’ogni genere, per non parlare degli effetti della speculazione finanziaria internazionale che penalizza i mercati africani.

Il problema di fondo è che queste politiche, per quanto rappresentino un incentivo dal punto di vista della cooperazione nord-sud, non tengono conto della soluzione dei problemi sistemici che assillano il continente. In primis, la questione del debito divenuta pressoché ingestibile da quando i governi africani hanno sostituito il debito multilaterale a basso costo e lungo termine con un debito verso creditori privati — assicurazioni, banche, fondi di investimento, fondi di private equity — molto più oneroso e a breve termine. Con il risultato che il debito in quanto tale è stato finanziarizzato e il pagamento degli interessi è oggi inscindibilmente legato alle attività speculative sui mercati internazionali. In questo contesto, la finanza come è oggi considera inaffidabile un paese pesantemente indebitato, e di conseguenza lo costringe a pagare più caro il denaro: almeno quattro volte di più di quanto pagano i Paesi economicamente avanzati.

In termini assoluti, il totale del debito pubblico africano non è così alto: si parla di 1,8mila miliardi di dollari, rispetto ad esempio ai 2,9mila miliardi della Germania. Anche il rapporto debito-Pil in 49 Paesi africani è più basso rispetto a quello degli Usa, dell’Italia, del Giappone o della Grecia. Eppure, otto Paesi su nove in situazione di “stress finanziario”, secondo il Fondo monetario internazionale sono africani. Hanno debito, non hanno risorse o prospettive produttive con cui farvi fronte. Allo stesso tempo, secondo la Commissione economica per l’Africa delle Nazioni Unite (Uneca nell’acronimo in inglese), sono africani 17 dei 20 Paesi più minacciati dal cambiamento climatico. Gli attori privati del sistema finanziario internazionale difficilmente accettano riduzioni degli importi loro dovuti e complicato appare il tema della cancellazione del debito se si tiene conto di quanto frammentato sia oggi il panorama del credito.

Detto questo, possono esservi delle soluzioni? Le proposte che vengono in mente a chi scrive sono almeno tre. La prima è di una logica lapalissiana anche se poi certa diplomazia sembra essere estranea al rigore della ragione. Il consesso delle nazioni dovrebbe prendere in considerazione la questione dei Flussi finanziari illeciti (Iff). Ogni anno, infatti, stando ai dati dell’Unctad, l’autorevole Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, quasi 90 miliardi di dollari, equivalenti a poco meno del 4 per cento del Pil africano, viene trafugato dal continente sotto forma di Iff, vale a dire movimenti illegali di denaro e beni attraverso le frontiere che risultano, alla prova dei fatti, illegali nella fonte, nel trasferimento o nell’uso. Da questo si evince che, se questi flussi fossero presi in considerazione dai grandi attori internazionali, si scoprirebbe che l’Africa non è debitrice, ma creditrice.

Un’altra proposta molto concreta è quella di una conversione flessibile, totale o parziale, del debito sovrano in un fondo di contropartita in valuta locale, chiamato Sdg Fund o Fondo Oss. Questo fondo sarà destinato a finanziare progetti che si allineano con gli obiettivi di sviluppo sostenibile (si tratta di un insieme di 17 obiettivi che compongono l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottata dalle Nazioni Unite nel 2015). Il proposito di questa iniziativa è affrontare le fragilità strutturali dei Paesi beneficiari e stimolare investimenti sostenibili a lungo termine, contribuendo così a una crescita economica resiliente e inclusiva che possa ridurre le diseguaglianze e creare posti di lavoro.

Perché un creditore dovrebbe farlo? È evidente che il Paese, o il privato, creditore deve avere un’opzione di privilegio, di prima mano, di first choice rispetto a questi fondi nel Paese debitore da poter far utilizzare alla sua impresa per ulteriori investimenti. L’iniziativa avrebbe un forte impatto sia a livello politico internazionale, come passo fondamentale nell’attuazione degli impegni del finanziamento per lo sviluppo, sia di programmazione ed operatività nel campo della cooperazione internazionale, per una ristrutturazione del debito che sia equa e regolare.

Infine, è fondato l’auspicio, espresso dagli estensori della Carta di Sant’Agata dei Goti (un gruppo qualificato di giuristi cattolici) che prima o poi l’Assemblea generale delle Nazioni Unite giunga a formulare una richiesta di parere alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja sui principi e sulle regole applicabili al debito internazionale, nonché al debito pubblico e privato. L’obiettivo auspicato è che si proceda alla rimozione delle cause delle perduranti violazioni dei principi generali del diritto e dei diritti dell’uomo e dei popoli, determinando così un obbligo inderogabile, come peraltro già si evince da numerose risoluzioni dell’assemblea generale dell’Onu. Una cosa è certa: un Piano Marshall o Mattei che dir si voglia per l’Africa non dovrebbe prescindere da queste considerazioni. Altrimenti come possiamo pretendere di nasconderci dietro l’affermazione di “aiutarli a casa loro”?

P. Giulio Albanese L’Osservatore Romano