Da tempo P. Soriani soffriva di cuore, ma non si pensava che la morte lo cogliesse in maniera così repentina. La mattina del 24 aprile, rispondendo ad una telefonata della nipote, le disse che non si sentiva tanto bene, tuttavia era stato anche peggio, perciò non c’era da farci caso. Anzi aggiunse: “Vorrebbero portarmi all’ospedale, ma credo proprio che non ce ne sia bisogno”.
Come tutti i giorni, anche quella mattina fece il suo servizio di “postino” alla comunità (distribuiva la posta in arrivo) e poi rimase in stanza ad ascoltare musica classica, il suo hobby preferito.
Nel pomeriggio sentì il malessere crescere e una certa preoccupazione lo colse. Chiamò il superiore del Centro Ammalati, P. Francesco Lenzi, e gli disse:
“P. Francesco, siediti lì e ascolta la mia confessione generale. Non si sa mai”. Fece la sua confessione con molta devozione e poi venne portato all’ospedale di Borgo Trento. Erano circa le quattro del pomeriggio. Fu ricoverato immediatamente in Rianimazione perché il cuore perdeva colpi e la pressione era a terra. I sanitari fecero quanto era possibile per rianimarlo, ma non ci fu niente da fare: verso le 19:00 si spense. Quelle sue ultime ore di vita erano state una continua, consapevole e serena offerta della propria esistenza al Signore. P. Elio Soriani aveva 82 anni.
“Dopo aver messo tutta la sua vita davanti al Signore con la confessione generale – ha detto P. Francesco – si è abbandonato nelle sue mani. Lo ha proprio detto. ‘Sono nelle mani di Dio, faccia lui ciò che vuole ’. E così, serenamente, ha chiuso la sua lunga giornata terrena”.
Uno dei primi a Padova
Secondo di sette fratelli, di cui due morti in giovanissima età, Elio era gemello di suo fratello Lino. Sono nati mentre il papà si trovava in guerra. La cugina, Fattori Carmela, che ha condiviso con i due gemelli l’infanzia, dice: “Erano gemelli, ma molto diversi uno dall’altro, sia come fisionomia che come carattere. Tanto era serio, posato, riflessivo Elio, altrettanto era vivace ed estroverso Lino. Trascorsero l’infanzia dividendo il loro tempo tra la casa, la scuola e la chiesa”.
Il papà Nicola era ferroviere e abitava in una delle case dei ferrovieri vicino alla stazione. La mamma, Fattori Concetta, era casalinga. I ragazzini si recavano nella chiesa dell’Arcella, loro parrocchia, famosa per aver accolto l’ultimo respiro di Sant’Antonio (si dice che esista ancora la pietra sulla quale il Santo ha appoggiato la testa per morire), ed erano assidui nel servizio dell’altare e nel gioco con i compagni. Anche la scuola materna e le elementari furono frequentate all’Arcella.
Ma, di tanto in tanto, frequentavano i primi Comboniani che stavano per aprire il seminario in Via San Giovanni da Verdara. I due gemelli Soriani, Lino ed Elio, furono ben presto attratti dall’ideale missionario e così finirono per essere tra i primi alunni del nuovo seminario.
Dopo le medie andarono a Brescia per il ginnasio e quindi partirono per il noviziato di Venegono. Qui, Lino, capì che quella del missionario non era la sua strada. Ritornato a casa, quando venne il tempo del servizio militare, andò ugualmente in Africa… ma come soldato e, purtroppo cadde in combattimento a 22 anni.
Assistente dei seminaristi a Rebbio
Elio proseguì la sua strada con impegno, anche se con calma. Nella sua cartella mancano completamente le note sul suo noviziato, quindi sul cammino che ha percorso per diventare sacerdote. Emessi i primi Voti il 7 ottobre 1937, passò a Verona per il liceo. P. Antonino Orlando, suo compagno, lo ricorda quando era incaricato della musica: “Ho una foto dei primi Voti a Venegono del 1937, nella quale siamo insieme. A Verona, da scolastico, era il nostro amanuense per la musica, quando si ciclostilava ancora con l’inchiostro spalmato su una pietra speciale. Era sempre perfetto”.
Nel 1938 andò a Rebbio come assistente dei giovani seminaristi. Evidentemente i superiori avevano riscontrate in lui particolari capacità di educatore e doti adatte per stare con i ragazzi. Nel 1940 tornò a Verona per completare gli studi. Ma intanto la Casa Madre venne in parte occupata dai tedeschi per cui, anche per scongiurare il pericolo di finire sotto le bombe americane, emigrò con i compagni a Rebbio per completare la teologia. Il 3 giugno 1944 venne ordinato sacerdote a Rebbio dal vescovo di Como.
P. Capovilla aveva scritto di lui prima dell’ordinazione: “Ha compiuto tutti gli studi nel nostro Istituto, fin dalla prima ginnasiale. Fu assistente dei ragazzi a Rebbio per quasi due anni. I suoi superiori nulla ebbero da eccepire a proposito dei suoi costumi. Lotta energicamente, specialmente in questi ultimi tempi, contro il carattere piuttosto fiacco. Pietà buona.
Gli ho ripetutamente esposto la gravità degli oneri che si assume con l’ordinazione; egli mi ha sempre dichiarato che li conosce perfettamente, e che intende, con la grazia di Dio, osservarli. Protesta che non è spinto al grande passo che sta per compiere da alcuna persona né da riguardo umano, ma che vi accede di sua spontanea e libera volontà. Rebbio di Como 9 ottobre 1943”.
Sulle orme del Vinco
Le vie dell’Africa erano chiuse, per i civili, a motivo della guerra che aveva disseminato i mari di mine che facevano saltare le navi. P. Soriani rimase alcuni mesi a Verona e a Padova poi, nel 1945, fu inviato a Bologna dove allora i Comboniani frequentavano una scuola di inglese. Finalmente, nel 1946, poté salpare per l’Africa. Egli fece parte dei primi missionari che, dopo la guerra, poterono entrare in Africa. Venne inviato nel Sudan meridionale, esattamente a Palotaka per lo studio della lingua acholi. Dopo soli quattro mesi gli fu affidato un compito importante: ridare vita a una gloriosa missione, Lafon, che, quasi cent’anni prima, aveva visto la presenza di abuna Vinco, il sacerdote di Don Mazza che certamente influì anche sulla vocazione di Comboni. In ossequio a una meravigliosa pagina di storia delle nostre missioni, ci soffermiamo brevemente sulla storia di questa missione.
La prima visita ai Lokoro, fatta da missionari, avvenne nel 1852. Proprio in quegli anni, P. Angelo Vinco, partendo da Belenyan, vicino a Gondokoro, arrivò in mezzo al popolo Lokoro che egli chiamò “i Beri”. Ecco cosa scrisse Vinco nelle sue “Memorie”: “Essi sono bensì fieri e selvaggi, ma disposti ad essere civilizzati e a ricevere la luce del Vangelo, allorché missionari di grande virtù ed esperienza, disprezzando ogni pericolo, nonché la propria vita, risolvano con zelo apostolico di restare fra loro al fine di istruirli e rigenerarli nelle salutari acque del Battesimo…”. P. Elio Soriani sarà uno di questi missionari “di grande virtù ed esperienza”.
La tribù era raccolta attorno ad un monticello di circa 80 metri di altezza. Sulla cui cima vi era una grande grotta che, secondo le superstizioni della gente, era l’abitazione del loro grande Jok, un enorme serpente pacifico che mai assalì alcuno.
I vecchi portavano al loro dio le primizie del grano e delle arachidi. Il giorno del sacrificio, coloro che portavano i viveri a Jok, non dovevano né lavorare, né mangiare. Nessun missionario è mai riuscito a vedere quel serpente e tanti, cui è stato chiesto, assicuravano che c’era, ma neppure loro l’avevano mai visto.
Ai piedi del monte, verso Sud, P. Vinco piantò la sua tenda all’ombra di un grande tamarindo, che ai tempi di P. Soriani ancora viveva. P. Soriani incontrò alcuni anziani, che assicuravano di aver sentito dai loro nonni e genitori della presenza di un bianco buono, con una lunga barba al quale portavano latte e galline; egli ricambiava con perline e filo di ferro. Aveva grandi occhi e nessuno aveva paura di lui. La febbre costrinse P. Vinco a lasciare precipitosamente il posto per tornare a Gondokoro dove morì.
I primi Comboniani
Dopo P. Vinco, i primi ad arrivare tra i Lokoro furono i padri Silvestri e Pedrana nel 1920. Ne rimasero ben impressionati, sia del posto, come della gente di indole mite. Nel 1922 visitarono i Lokoro i padri Ghiotto e Gambaretto: il primo in marzo, il secondo in ottobre. Quest’ultimo, per poco non annegò nelle acque del Koss. Un solo giovanotto Lokoro seguì il Padre a Torit e fu poi battezzato con il nome di Leopoldo.
Da Torit non si poteva andare tanto di frequente a Lafon per le paludi che circondavano il monticello e si stendevano per 12 chilometri, e per mancanza di ponte sul Koss. I catechisti, specialmente il catechista Domenico dell’Uganda, ottennero qualche frutto, ma non durò a lungo.
Mons. Zambonardi cercò di mettervi piede stabilmente fabbricando in pali e fango casa, chiesa e scuola, e mettendovi tre bravi catechisti. Ma il posto era infelice, lontano dal paese, per sei mesi circondato di acqua.
Quando P. Gambaretto nel 1938 rivisitò i Lokoro, non trovò né catecumeni, né scolari. Si pensò, allora, ad un posto più accessibile del primo. Tutto il monte è circondato da villaggi, solo la parte Sud, proprio vicino al famoso tamarindo era disabitata per la lunghezza di 300 metri. Il posto era riparato a destra e a sinistra da due enormi rocce che impedivano l’arrivo di suoni, balli e canti che si facevano nei villaggi. Davanti era tutto libero, in dolce declivio fino al fiume Koss. Era l’ideale per la missione. Le case del primo posto erano cadenti, perciò mons. Mlakic diede il permesso a P. Gambaretto di rimettere tutto a nuovo, spostando la missione nella località suindicata. Fu subito scavato il pozzo, poi Fr. Egidio Romanò fabbricò una bella casetta. Intanto il Padre e i catechista diedero inizio al catecumenato. Purtroppo scoppiò la guerra e tutto rimase fermo.
L’epoca di P. Soriani
Soltanto al principio del 1947 P. Elio Siriani poté essere mandato a curare quella missioncina dedicata alla Madonna della Consolazione (e di consolazione c’era un gran bisogno da quelle parti), per cui è giustamente considerato il nuovo fondatore di Lafon. Vi trovò una capanna di paglia ridotta ormai in pessime condizioni.
Se P. Vinco era stato colpito dalla malaria e dovette fuggire, stessa sorte capitò anche a P. Elio. Solo che lui non fuggì. Gli attacchi di malaria si susseguivano cattivi. P. Soriani andò sull’orlo della tomba, fortunatamente non era la sua ora. Le cause di tanti guai andavano ricercate nel clima caldissimo, umido e soffocante, nelle zanzare dalle quali era impossibile salvarsi e dal cibo scarso come quantità e qualità. Nella zona abbondavano i serpenti, molti dei quali velenosi, che si insinuavano dappertutto. Qualche volta P. Soriani se li trovò sotto il letto. Tra i missionari c’era la diceria che chi andava in quella zona o moriva o diventava matto. Il pericolo della malaria cerebrale con le conseguenze che conosciamo era reale. Dopo P. Soriani tentò l’avventura P. Nani (morto recentemente) il quale dovette rientrare in Italia definitivamente e rimase offeso per tutta la vita.
P. Negrini sostituì per un po’ P. Soriani e fece miracoli per quella missione. In un anno, da solo, poté fabbricare una bella casa in mattoni con cinque stanze, più un grande refettorio e una bella veranda tutta chiusa a zanzariera.
Intanto tornò P. Soriani ristabilito e cominciò la chiesa che Fr. Lazzari portò a termine. Nel 1951 mons. Mlakic aggregava alla stazione di Lafon tutti i Lopit che prima appartenevano a Torit. P. Soriani lottò sempre con la salute, ma più ancora con le pene morali. Per sei mesi all’anno era isolato e non vedeva nessuno causa la mancanza di strade e le paludi che circondavano il territorio della missione. Ma c’era anche un’altra cosa che lo faceva soffrire: se i catecumenati tra i Lopit erano frequentati, quelli tra i Lokoro conducevano una vita stentata. Si seminava nel pianto e non si raccoglieva niente. Altri missionari che si alternarono in quell’inferno furono: P. Montemanni, P. Farè, P. Cardani, P. Vitaliani, P. Simeoni, P. Mazzoldi, P. Della Piazza, P. Gambaretto… Fr. Lazzari costruì anche una bella scuola nella speranza di mettere insieme un po’ di ragazzi. Solo i Lopit la frequentavano. I Lokoro pareva che non volessero arrendersi. Tuttavia alla fine del 1951 i cristiani erano 290.
P. Soriani era dotato di una sensibilità particolare per cui percepiva la pioggia tre giorni prima che arrivasse. Lo stregone, invidioso di quella prerogativa, gli offrì doni e denaro se gli avesse trasmesso parte di quella sua capacità.
Nonostante i sacrifici eroici di tanti missionari, il diario della missione di fine 1952 registra: “Il popolo Lokoro si mostra molto lento nel venire sia alla religione, come alla scuola, essendo troppo abbrutito nei suoi balli licenziosi e nelle superstizioni”. Anche il concetto di giustizia, tra i Lokoro era un po’ strano. “Un certo lokoro, per vendicarsi di una capra fatta prigioniera dai missionari perché trovata nell’orto della missione, alla sera portò via tutte le vacche della missione e non volle restituirle che a patto di un riscatto di 27 piastre. Ci volle il Lokiko con tanto di Mamur perché restituisse le mucche e le piastre… Altro che dente per dente!”, registra il diario.
Le avventure non mancarono in quella missione: P. Antonio Simeoni, smarritosi nel bosco dove era andato a caccia, passò la notte su un albero circondato dai leoni che lo tennero sveglio con i loro ruggiti. P. Gambaretto finì in un burrone con la macchina. Né lui né l’auto subirono danni. Tolti da quella scomoda posizione a forza di funi e di braccia, proseguirono tranquillamente la strada. Il fervente missionario disse che la Madonna li aveva sostenuti con la sua mano materna. Altri commentarono che, se quella mano avesse dato un colpetto al volante prima di cadere nel burrone, sarebbe stato anche meglio.
P. Soriani lasciò quella missione con la sensazione di aver lavorato molto e raccolto poco. Invece il suo abbondantissimo raccolto lo aveva fatto, anche se allora non se ne rese conto. Egli, per esempio, ha battezzato e accompagnato nei primi passi del cristianesimo P. Ilario Boma, futuro martire sudanese, e altri laici che, per testimoniare la fede, avrebbero affrontato la persecuzione, la prigionia e il martirio dopo pochi anni.
Scrive P. Ottorino Sina: “Sentii parlare per la prima volta di P. Soriani a Rejaf, durante una mia visita al Sud nel 1956. Dalla conversazione capii subito quante e quanto gravi erano state le difficoltà che aveva affrontato nella missione di Lafon, principalmente per l’isolamento di molti mesi”.
Sudan seconda fase
Nel 1953, dopo 6 anni di quella missione, P. Soriani andò a Palotaka a riprendere le forze, anche se il clima e il resto non si scostavano più di tanto da quello di Lafon, e poi, dopo sei mesi, ebbe la forza di rientrare in Italia. Aveva assoluto bisogno di riposo e di cure. Proprio in quel periodo, i Lokoro, toccati dalla grazia di Dio ottenuta con tanti sacrifici, cominciarono il loro movimento verso il cristianesimo. Vennero organizzate la Peregrinatio Mariae e la Milizia dell’Immacolata. Nel 1955 i cristiani erano già 400.
P. Soriani intanto fu mandato a Rebbio di Como come superiore. Ciò gli consentì di farsi vedere dai medici del vicino ospedale che gli diedero cure adeguate. L’anno dopo aveva ripreso completamente le sue forze per cui fu inviato a Verona come economo provinciale. Vi rimase un altro anno, fino al 1955, data in cui ottenne di tornare in Sudan.
Proprio a Torit, in quell’anno, era scoppiata la prima rivolta dei soldati sudanesi contro gli ufficiali arabi, che diede il via alla guerra che dura fino ai nostri giorni. Pochi mesi dopo, il primo gennaio 1956, il Sudan ottenne l’indipendenza dall’Inghilterra e subito cominciò una sorda persecuzione contro la Chiesa e la religione cristiana che ebbe il suo culmine con l’espulsione di tutti i missionari dal Sudan del 1964.
P. Elio Soriani dovette fermarsi a Khartoum e fu subito incaricato del ministero nella cattedrale. Ma quando, in seguito alla guerra al Sud del paese, cominciarono ad arrivare gli immigrati, egli si dedicò anima e corpo a loro, occupando una casa costruita per diventare un’ala del Collegio Comboni. Ad un certo punto il governo musulmano, impedì quell’attività… I cristiani che dal Sud arrivavano al Nord per sfuggire la persecuzione cominciarono ad assaggiare cosa voleva dire persecuzione con la conseguente emarginazione.
Le tappe di P. Soriani al Nord furono: Khartoum dal 1955 al 1967; Gedaref, parroco, dal 1968 al 1987; El Obeid 1987 al 1989; Khartoum dal 1990 al 1992.
Quando era al Sud, P. Elio collezionò non poche amarezze, come abbiamo visto. Anche al Nord trovò qualche osso da rosicchiare. Scrive P. Antonino Orlando: “Visse per molti anni da solo a Gedaref, una missione sul confine con l’Eritrea, quindi zona di immigrati. Mi ricordo che quando non ne poteva più, ritornava a Khartoum, al Comboni College per ricaricarsi, diceva lui. Ripartiva quando se la sentiva, ma ripartiva sempre. E questo per molti anni, per un’attività vissuta in solitudine”.
In una lettera al superiore generale del 1970, scrive P. Soriani: “Sono un po’ giù di morale in queste ultime settimane perché il catecumenato si è sfasciato. Pensavo, per Pasqua, di battezzare una quindicina di adulti. Sono scappati tutti e ora devo ricominciare di nuovo. Bisognerebbe abbreviare l’istruzione, ma come si fa? E’ l’unica istruzione in profondità e qui i giovani vivono in un ambiente difficile, circondati dai musulmani e allettati ad abbracciare l’islam. Molti giovani vanno di qua e di là per motivi di lavoro, ma alle volte anche spinti dal desiderio di novità…”. “Noi seminiamo nel pianto, altri raccoglieranno nella gioia e allegrezza”, gli rispose P. Agostoni. Povero P. Soriani! A lui toccava sempre la parte del pianto!
Continua P. Sina nella sua testimonianza riportata sopra: “Più tardi, quando venne trasferito al Nord del Sudan, ed esattamente nella missione di Gedaref, dove rimase per circa 20 anni da solo, dovette affrontare un’altra situazione difficile, di nuovo in isolamento quasi continuo, e lo seppe fare con coraggio e con dedizione totale. A Gedaref, oltre che i problemi dei Sudanesi, dovette affrontare anche quelli dei campi eritrei ed etiopici”.
Ritorno definitivo
Nel 1992 P. Soriani lasciò definitivamente il Sudan e si stabilì in Casa Madre a Verona. Era molto presente ed attivo alla vita della comunità, tanto che fu fatto vice superiore. Teneva il diario della casa, manteneva i contatti con i parroci, si dedicava al ministero, visitava ed era molto vicino ai confratelli ammalati.
Col passare degli anni la sua attività andò diminuendo causa la salute, specialmente il cuore che non faceva più il suo dovere. Tuttavia è rimasto attivo e vivace fino all’ultimo giorno della sua vita.
“Era un tipo forte, coraggioso, energico e sincero – ha detto P. Casagrande durante la messa funebre a Verona – si sapeva sempre ciò che realmente pensava sulle varie questioni e voleva le cose fatte bene non accontentandosi delle mezze misure.
Era dotato di una notevole sensibilità artistica. Gustava particolarmente la musica e l’arte. Amava tenersi aggiornato sui problemi di attualità leggendo molto. Rimase sempre molto unito alla sua famiglia, e la sua famiglia a lui, perché era considerato un consigliere e intercessore presso Dio. Una nipote gli telefonava con molta frequenza e, di tanto in tanto, i parenti venivano a trovarlo.
Come sacerdote aveva un grande senso di Dio nella propria vita. Non si è mai impressionato per i suoi acciacchi, per gli scherzi del cuore. Sapeva di essere nelle mani del Signore e non si preoccupava più di tanto. Questa serenità lo ha accompagnato fino alla morte”.
L’infarto lo ha colto all’ospedale di Verona dove era appena arrivato. Era il 24 aprile 2001, alle ore 19.00. Dopo i funerali in Casa Madre, la salma è stata sepolta nel cimitero di Verona nella parte riservata ai Comboniani. Un confratello, tornato dalla missione, visitando quel “giardino-cimitero” ha commentato: “Deve essere bello essere sepolti qui. Guarda quanti amici ti stanno intorno!”.
P. Soriani è stato il missionario che ha dedicato tutta la sua vita al Sudan, prima al Sud e poi, per ben 36 anni al Nord, battendo le orme del beato Comboni. A lui possiamo chiedere il dono di lasciarci coinvolgere dai problemi della gente, specialmente dei più poveri, degli emigrati. Gli possiamo chiedere anche la capacità di accettare i nostri guai dalle mani del Signore, senza lamentarci troppo e senza inutili “lamentazioni”. P. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n. 212, ottobre 2001, pp. 117-124