In Pace Christi

Salvadori Stefano

Salvadori Stefano
Date of birth : 09/01/1929
Place of birth : Bagolino (BS)/I
Temporary Vows : 09/09/1951
Perpetual Vows : 09/09/1957
Date of death : 26/08/1999
Place of death : Moroto/UG

“Sono partito per l’Africa nel 1953. Ma avevo lasciato Bagolino nel 1945 con il vivo desiderio di donarmi a Dio per la salvezza degli Africani. Fin da bambino avevo espresso il desiderio di diventare missionario, come mio zio, che allora non conoscevo. Lui era in Africa, e da tanti anni non tornava in Italia, ma scriveva, e le sue lettere venivano lette e rilette con tanta devozione e ammirazione. Da lì è nata la mia vocazione anche se poi fu alimentata e sostenuta dal sacerdote al quale, ogni quindici giorni, andavo a confessarmi”.

Con queste parole comincia un’intervista che fr. Salvadori ha rilasciato prima di partire per l’Uganda, dopo la Pasqua di quest’anno 1999. Lo zio di cui parla è fr. Amedeo, fratello del papà, che era andato in Africa nel lontano 1912 e che fu tanto benemerito per l’opera missionaria. Il nipote, fr. Stefano, avrà la soddisfazione e l’impegno di assistere lo zio nella sua ultima malattia e nella sua morte, avvenuta il 17 settembre 1971, nella missione di Kitgum.

Papà Pietro e mamma Santina Melzani, cristiani tutti d’un pezzo, si mostrarono contenti, anzi orgogliosi, della vocazione missionaria del loro primogenito. Restavano altri due fratelli e una sorella per mandare avanti i lavori dei campi.

“Da ragazzino - scrive la sorella Amelia - Stefano frequentava la parrocchia e l’oratorio. Inoltre era un fervoroso chierichetto. Di carattere era buono e piuttosto timido, però sapeva difendere le sue ragioni. Dopo le elementari, rimase in paese ancora qualche anno aiutando i genitori nei lavori dei campi o andando nei boschi a tagliare legna, anche se ripeteva spesso che gli sarebbe piaciuto fare quegli stessi lavori in Africa dove c’era lo zio Amedeo. Così, con il suo lavoro, avrebbe aiutato gli Africani a vivere meglio e a conoscere il Signore. Quando, con l’aiuto del parroco don Dino, poté realizzare il suo sogno, gli sembrava di aver toccato il cielo col dito.

Andò con i Comboniani a Thiene per imparare un mestiere in modo da poterlo poi insegnare agli Africani e, nel 1949, all’età di 20 anni, partì per il noviziato”.

Dalle carte sappiamo che Stefano lasciò il suo paese di Bagolino, che si trova sulle montagne a 70 chilometri a nord di Brescia, all’età di 16 anni e andò nella scuola apostolica di Thiene. Qui si specializzò nel mestiere di falegname. Giunto in missione, però, farà anche il muratore, il contadino, l’ortolano, come capita spesso ai Fratelli missionari.

Visse gli anni di guerra, particolarmente duri a Thiene per le lotte tra partigiani e tedeschi con tanta paura e con profondo spirito di sacrificio... anche perché non sempre il cibo c’era o era sufficiente alle necessità di quei giovani che crescevano a vista d’occhio e avevano un appetito (per non dire fame) da lupi.

Un noviziato non facile

Il 13 settembre 1949, dopo un fugace saluto ai suoi cari e al paese, Stefano partì per il noviziato di Firenze portando con sé il suo carattere di montanaro: “Volitivo, gran sgobbone, riservato, un po’ chiuso, riflessivo e di sano criterio”, come ebbe a scrivere il suo maestro p. Giovanni Audisio.

Il primo novembre 1949 fece la vestizione. In noviziato Stefano cominciò a frequentare il corso chiamato “Istituto Volante” in cui si approfondivano alcune materie per corrispondenza. Il p. maestro sottolineò che se la cavava bene anche se, per alcune cose, aveva bisogno dell’aiuto di uno studente.

Poco dopo, con altri novizi studenti e fratelli, Stefano Salvadori fu inviato in Inghilterra. Lì avrebbe dovuto apprendere la lingua che gli avrebbe reso più facile il suo futuro lavoro in Uganda dove i superiori pensavano di inviarlo.

Ma ecco che il Signore venne a provarlo con pene spirituali e anche fisiche. Ad un certo punto non era sicuro se il Signore lo chiamasse per quella strada o se il suo desiderio di andare in missione fosse una semplice evasione. E poi, sarebbe stato in grado di osservare gli impegni che i Voti gli imponevano? L’obbedienza richiedeva tanta malleabilità, tanta capacità di adattarsi, di cambiare attività... e lui era un uomo che, quando aveva iniziato un lavoro, voleva andare fino in fondo... Stefano soffrì molto ed entrò in una specie di “notte dello spirito” che, tuttavia, “gli diede nuovi motivi per attaccarsi maggiormente al Signore e per corrispondere con più generosità alla sua vocazione”, scrisse p. Albertini, nuovo maestro dei novizi in Inghilterra.

Non solo, ma ci furono anche sofferenze fisiche. Forse in seguito ad una intossicazione fu disturbato da una fastidiosissima foruncolosi. Dovette essere ricoverato all’ospedale dove, dopo una decina di giorni, cominciò a migliorare. “Ha affrontato con coraggio, generosità e spirito di sacrificio questo periodo di sofferenza e di incertezza, senza perdersi d’animo”, ha scritto il p. maestro.

In data 16 luglio 1951, da Sunningdale Stefano scrisse al p. Generale chiedendo l’ammissione ai Voti religiosi. “Il mio desiderio è quello di andare in missione per salvare così l’anima mia e per aiutare gli Africani a salvare la loro e anche ad imparare un mestiere che li aiuti a vivere una vita dignitosa”, scrisse.

Professò il 9 settembre di quell’anno. Per altri due anni, dal 1951 al 1953, fu trattenuto a Stillington come addetto ai lavori della casa.

In Uganda

Nell’ottobre del 1953 poté finalmente realizzare il suo sogno partendo per la missione d’Uganda. Fu destinato a Laybi come falegname e muratore. Quella missione, infatti, era in fase di sviluppo e aveva bisogno di abili muratori e falegnami. Fr. Salvadori vi lavorò ininterrottamente per cinque anni, fino al 1958.

“E’ un buon Fratello - scrisse p. Bertinazzo - che sa fare andare avanti i lavori. E’ dotato di un intenso spirito di pietà che lo aiuta a dominare il suo carattere piuttosto impetuoso. Sa farsi rispettare ed è capace di ottenere la disciplina dagli operai che lavorano con lui e che lui dirige con abilità e competenza”.

P. Urbani aggiunge una nota breve breve, ma sufficiente a farci capire lo zelo missionario che animava il nostro Fratello desideroso di far conoscere il Signore e il Vangelo a tutti, specie ai giovani: “Nei momenti liberi dal lavoro, ama insegnare catechismo ai ragazzi della scuola tecnica”. Le rotaie del binario evangelizzazione e promozione umana erano percorse con uguale sollecitudine ed equilibrio dal nostro Fratello.

Prima di una considerazione generale sulla sua attività missionaria, vediamo le tappe dei suoi 46 anni di missione.

Dopo i 6 anni trascorsi a Laybi, dal 1958 al 1960 fu a Kaabong; dal 1960 al 1961 ad Aliwang. A questo punto rientrò in Italia per vacanze e per salute. Rimase tre anni in Casa Madre a Verona come addetto ai lavori di manutenzione.

Nel 1963 ripartì per l’Uganda. Fu a Patongo fino al 1965, poi a Kitgum (1965-1970), ad Opei dal 1970 al 1973, a Namokora dal 1973 al 1975, a Moroto dal 1975 al 1981, quindi ancora vacanze in Italia. Dal 1983 al 1985 fu a Morulem, dal 1985 al 1988 a Matany, dal 1988 al 1991 ad Aber. Dal 1991 al 1995 prestò il suo servizio a Lira e a Kapedo; dal 1997 al 1999 fu a Kanawat. Nel maggio del 1999, dopo alcuni mesi di cura in Italia, fu inviato a Moroto.

Fratel Salvadori è sempre stato incaricato della manutenzione delle case e delle missioni, un lavoro prezioso che richiede occhio vigile, mano lesta e uno spirito di servizio a tutta prova. Ma la disponibilità era una delle principali doti del nostro Fratello; mai che si tirasse indietro, mai che dicesse: “Lo farò domani”.

Far crescere l’Africa

Rispondendo all’intervista del suo parroco, prima dell’ultima partenza per la missione, fr. Stefano ha detto: “Uno dei miei impegni come Fratello missionario è stato quello di far crescere l’Africa aiutando i giovani africani a imparare un mestiere. Insomma ho fatto fin dai primi anni quello che oggi con una parola più appropriata si dice ‘promozione umana’.

Inizialmente sono stato destinato ad una scuola tecnica e, devo dire, che con i giovani mi trovavo bene. Riuscivo anche ad ottenere la disciplina e l’impegno nello studio e negli esercizi pratici. E’ stata una bella soddisfazione vedere quei ragazzi che passavano dall’arco e le frecce o dal pascolo del bestiame ai libri di scuola e al maneggio degli attrezzi. Imparavano in fretta e bene, perché erano intelligenti e interessati ad apprendere.

Dopo qualche anno, infatti, sapevano maneggiare gli utensili del falegname, del meccanico o del muratore con disinvoltura. Ed è stato anche più bello quando ne vidi qualcuno che si mise in proprio aprendo una sua bottega o prestandosi ad eseguire lavori di muratura o di falegnameria per terzi. Altri, invece, preferivano trovare lavoro come dipendenti per avere il loro stipendio settimanale.

I giovani della scuola tecnica per falegnami e muratori davano una mano per la costruzione degli edifici della missione. Lavoravano al mattino, mentre al pomeriggio studiavano, non solo ciò che riguardava il loro mestiere, ma anche inglese, matematica, religione. Costruivano muri, facevano tetti, porte e finestre, ed erano molto bravi.

In quegli anni ho collaborato alla costruzione di un ospedale e di alcune scuole. Ad Angal ho lavorato insieme a p. Calvi, pure lui di Bagolino.

Ho trascorso molti anni nelle missioni del Karamoja, la regione più arida e più primitiva dell’Uganda, dove la gente vive di pastorizia e, purtroppo, di rapine, nel senso che un gruppo ruba le mucche ad altri gruppi. Spesso ci casca il morto. Una volta si lottava con le lance, oggi la guerra ha messo nelle loro mani il fucile mitragliatore. Rubano le vacche per comperarsi le mogli. Più vacche vuol dire più mogli.

In Karamoja c’era una bella scuola di agricoltura dove si insegnava ad arare e a lavorare la terra con sistemi moderni, quindi più redditizi. Ho insegnato ad interrare le pianticelle, a coltivarle, a potarle. Avevamo molte piante di aranci, mandarini, limoni. Ho incominciato anche a piantare le viti. Lo aveva fatto per primo p. Calvi ad Angal nel 1958 con buoni risultati.

Il Fratello missionario va ovunque c’è bisogno della sua opera. Sono stato per tre mesi anche in Sudan dove si stava facendo un impianto idraulico. Dove arriva l’acqua, il deserto fiorisce. Ed è una soddisfazione anche umana vedere come la natura viene incontro e premia il lavoro dell’uomo...

Il mio ultimo lavoro in muratura è del 1985. Riguarda una scuola per infermiere. Il problema sanitario è molto importante anche in Africa, specialmente oggi, a causa dell’AIDS che imperversa e della malaria, senza contare i feriti delle numerose guerre che scoppiano qua e là”.

Pur essendo ormai limitato nella salute, stando ad Arua in Uganda, poté dare una mano a Mons. Cesare Mazzolari che portava avanti la sua azione apostolica nella difficile diocesi di Rumbek, in Sudan meridionale.

Una fede pesante

Dopo aver parlato dell’attività propria del Fratello missionario e della sua in particolare, fr. Stefano toccò il tasto della spiritualità del missionario:

“Per fare il Fratello missionario occorre una fede molto pesante, profonda. Il Fratello, se non ha una fede che sposta le montagne, non resiste. E la fede si alimenta e si accresce con la preghiera. Il primo posto che i missionari costruivano nella nuova missione era la chiesa, piccola o grande, ricca o povera. La chiesa era posta nel sito più bello, più elevato e centrale della missione. Là dentro, alla mattina presto e alla sera, si sosta in compagnia del ‘Padrone di casa’. E’ lui che dà la forza, che infonde il coraggio, che mantiene la speranza anche nei momenti di tribolazione.

Nei miei anni d’Uganda, di momenti difficili ce ne sono stati tanti. Dalla fine degli anni Settanta ad oggi c’è stata la guerra. Quanti morti, quante distruzioni, quante vendette! Anche una decina di missionari sono stati uccisi. Anch’io ho visto la morte vicina più di una volta. Chi è che ci dava la forza di restare, di non andare via? Era Lui, il Signore, che ci diceva di stare vicino alla povera gente che soffriva, che era perseguitata, che doveva fuggire lasciando tutto, magari in preda alla fame e alle malattie. In Uganda c’è stato anche il colera che ha fatto strage specie tra i bambini. Il missionario era l’unica speranza, l’unica loro difesa in tanta tragedia. No, proprio non si poteva andare via anche se, restare, significava mettere a repentaglio la vita ogni giorno perché la zona era piena di soldati, di sbandati, di ladri”.

I confratelli sono concordi nell’affermare che fr. Stefano era un uomo di intensa preghiera. Le prime ore del mattino erano passate in chiesa e così le ultime della giornata. Il suo spirito di preghiera si rifletteva nei rapporti con la comunità: Stefano era un uomo molto cordiale, buono, sempre contento e di compagnia.

La preghiera vale di più

“Il lavoro è molto importante per un Fratello missionario - ha detto fr. Salvadori - ma la preghiera è più importante ancora. E lo si è visto tante volte: le opere nate in un clima di preghiera sono durate nel tempo e hanno portato tanti buoni frutti. Pensavo spesso a santa Teresina che, pur non essendo mai uscita dal convento ed essendo morta a 24 anni, è stata dichiarata patrona delle missioni perché le ha amate e perché ha pregato per esse.

E poi devo dire anche un’altra cosa: mi ha aiutato molto nella mia vita missionaria il ricordo e l’esempio di mio zio, Fratel Amedeo. Ero con lui negli ultimi anni. Mi avevano mandato ad iniziare una nuova missione, ma poi mi avvisarono: ‘Lo zio è ormai alla fine, vuole vederti’. Sono andato immediatamente a Kitgum e ho fatto in tempo ad assisterlo. Aveva voluto vedermi per chiedermi perdono. Essendo zio, mi aveva fatto delle osservazioni, giuste in verità, perché facessi meglio il mio lavoro di Fratello istruttore, specialmente nei rapporti con i giovani. Mi diceva che ero un po’ troppo severo e, con gli africani, bisognava essere più comprensivi, più tolleranti. Dopo ho capito che aveva ragione perché con la bontà si ottiene di più e non si ferisce nessuno.

Aveva paura di avermi offeso, di avermi fatto soffrire. Questo suo atteggiamento mi commosse, ma mi commosse ancora di più quando la notte prima di spirare ripeteva di tanto in tanto: ‘Ho servito il Signore meglio che ho potuto, adesso vado da lui ed Egli mi accoglierà perché sono un povero Fratello’. Lo zio è morto ed è stato sepolto in Africa, dovrà capitare la stessa cosa anche a me”.

Il parroco di Bagolino dice: “Sembrava che se la sentisse che quella partenza era l’ultima, che non avrebbe più visto il paese. Il suo ultimo periodo con noi, fu come un corso di Esercizi spirituali per lui. Lo vedo ancora inginocchiato, come in contemplazione, davanti all’immagine della crocifissione della chiesa di san Rocco, che per la Pasqua è stata posta nella chiesa parrocchiale. Anche la gente ha notato questa cosa e diceva: ‘Guarda come pregano questi missionari!’. Stefano aveva un motivo di più: non solo si stava staccando dai parenti, ma sentiva che era prossimo anche il suo distacco dal mondo e si preparava a farlo nella sua Africa amata”.

Un compagno di pellegrinaggio

E’ interessante la testimonianza di una suora missionaria comboniana su fr. Salvadori che chiama “un compagno di pellegrinaggio”. Sentiamola:

“L’ho conosciuto molto da vicino perché, oltre alle pratiche di pietà in parrocchia, facevamo anche quelle della comunità comboniana. Nelle intenzioni dei fedeli condividevamo anche il nostro cammino spirituale. Fr. Stefano era un uomo quadrato, dalle idee chiare e forti, per cui mi ha aiutato tanto. In quelle preghiere riversava la sua lunga esperienza missionaria e una grande confidenza con il Signore. E ciò faceva bene a noi più giovani e inesperte.

Davvero ringrazio il Signore perché è stato un vero compagno nel nostro pellegrinaggio in terra di missione. Pur essendo un uomo di Dio, era molto umano, insomma un vero fratello. E ci faceva anche ridere ogni tanto.

Quando arrivai la prima volta nella missione di Moroto, una Sorella mi disse:

‘Non spaventarti quando fr. Stefano urla, perché è tutto fumo. In realtà è molto buono e gentile. Infatti, quando il Fratello mi incontrò per la prima volta, con un bel sorriso sulle labbra, mi disse:

‘Benvenuta Sorella!’. E poi aggiunse: ‘Io sono bresciano. I miei antenati erano i Barbari. Hai sentito parlare dei Barbari? Da lì capirai il perché qualche volta mi sentirai a urlare. Ho sangue barbaro nelle vene!’. Fu proprio così che lo conobbi. Un carattere aperto, umano, semplice e libero, senza complessi, ottimista, allegro, sempre pronto ad aiutarti. Anzi, quando gli chiedevamo un favore per qualche lavoro, era lui che alla fine ci ringraziava.

Ci dava l’impressione che vivesse costantemente alla presenza di Dio. Aveva una devozione forte, profonda, matura, alla Sacra Famiglia di Nazaret. Parlava spesso di quella Famiglia e diceva che la nostra famiglia comboniana doveva avvicinarsi il più possibile a quel modello. Maria e Giuseppe erano persone reali per lui, e non statue con i fiorellini.

Poi amava molto la Piccola Teresa di Gesù Bambino. Aveva i suoi detti sempre a portata di labbra e li ripeteva. Ma citava spesso anche Comboni, specialmente quando c’erano di mezzo le sofferenze e le croci. Stefano era un uomo che perdonava sempre e che vedeva in tutto la mano di Dio e leggeva gli avvenimenti con la luce della fede.

Non ha mai lasciato la sua preghiera personale, la lettura spirituale e la visita al Santissimo. Forse mi sbaglio, ma io l’ho percepito un po’ mistico, un contemplativo nell’azione, come dovrebbe essere ogni comboniano. Vado spesso sulla sua tomba a salutarlo, a pregare e ad ascoltare ancora qualcuna delle sue battute che mi davano tanto coraggio”.

Ritorno eroico

Quando nel maggio del 1999 fr. Stefano lasciò l’Italia per la missione, sapeva che la sua salute era molto precaria. Lo disse proprio a colui che scrive, al ritorno da Milano dove era andato a fare degli accertamenti, prima di salire al suo paese per salutare i parenti.

Sembrava proprio che fr. Salvadori volesse tornare in Africa per... morirvi, quasi per stare accanto a quello zio che per lui aveva costituito il primo richiamo, la prima scintilla della sua vocazione. Ma più ancora voleva restare accanto alla gente che tanto aveva amato e per la quale aveva consumato le sue energie.

P. Bruno Novelli, che gli era accanto al momento della morte, così riassume gli ultimi giorni del Fratello: “Oltre al problema del cuore, gli era stata diagnosticata una metastasi ai linfonodi ascellari. Per questo era rientrato in Italia nell’agosto del 1998.

Al suo ritorno si accentuò anche la bronchite asmatica che lo tormentava da tempo. All’inizio di questo mese di agosto stava decisamente male per cui fu portato all’ospedale di Matany per una visita più accurata e per delle lastre all’apparato respiratorio. Risultò tutto negativo. Fece una cura di antibiotici che lo fece stare bene per un po’ di giorni, ma poi la cosa precipitò.

Giovedì 26, alle 9 di sera, ce ne stavamo, noi due, nella sala a chiacchierare fraternamente mentre guardavamo un film sulle sofferenze dei cattolici sotto il regime nazista e ci si stupiva come l’umanità, dopo 2000 anni di cristianesimo, fosse ancora tanto barbara. Stefano teneva in mano una tazza di tè caldo che sorseggiava di tanto in tanto. Ad un certo punto si alzò e andò nella stanzetta accanto dove c’è il lavandino. Dopo neanche un minuto, mi chiamò affannosamente: ‘Bruno, Bruno!’. Corsi là e lo trovai appoggiato al lavandino mentre dalla bocca gli uscivano abbondanti fiotti di sangue.

‘Non riesco a farlo cessare’, mi disse. Ed io:

‘Prova a bere un po’ di acqua fresca, forse si arresta. Intanto io tiro fuori l’auto dal garage per portarti all’ospedale di Matany’.

‘No, no! Chiama invece suor Rosetta, l’infermiera e dille di venire di corsa’. Qualche minuto dopo ero di ritorno e lo trovai steso a terra. Lo chiamai più volte. Non rispondeva. Gli sentii il polso; non batteva più. Gli impartii l’assoluzione e attesi non sapendo più cosa fare. Le suore (con suor Rosetta ne erano arrivate anche delle altre) constatarono che era morto, ma dissero di non muoverlo finché non fosse arrivato il medico.

Il medico di Naoi, subito chiamato, giunse poco dopo ma non fece altro che confermare la morte causata da una forte emorragia che si era verificata nei polmoni, e diede il permesso di sistemarlo...”.

Africano con gli Africani

“Era già la mattina del 27 quando terminammo il pietoso ufficio di pulire e rivestire con la veste bianca il Confratello - prosegue p. Novelli. - La notizia della sua improvvisa morte si diffuse in un baleno, e una processione di gente cominciò ad arrivare. Il Fratello era molto conosciuto e molto amato per cui le espressioni di cordoglio furono tante e sentite. Soprattutto si pregò e si cantò.

Con il parroco della cattedrale organizzammo il funerale. Dato che il Vescovo era assente arrivò il Vicario generale. La celebrazione eucaristica vide un gran concorso di sacerdoti, di religiosi e religiose, senza contare i fedeli che riempirono anche la piazza davanti alla chiesa.

Io ho ricordato brevemente le tappe della vita missionaria del Fratello e ho ricordato che, nonostante conoscesse lo stato della sua salute e la situazione dell’Uganda non fosse del tutto tranquilla, era voluto tornare in Karamoja perché, come tutti i missionari, era attaccato alla gente, la amava e tra essa voleva terminare i suoi giorni.

Il celebrante principale, p. Pietro, commentò le letture (tutte sulla resurrezione), mentre Mons. Clement ha ringraziato Dio per i missionari, per quello che sono e che fanno. Ha ricordato la frase di Comboni pronunciata a Khartoum nel 1873: ‘D’ora in poi le vostre gioie e i vostri dolori saranno le mie gioie e i miei dolori, e sarò felice il giorno in cui, dopo avervi dato tutto, potrò dare anche la mia vita per voi’ e commentava: ‘Quello che mons. Comboni disse di sé, è detto e fatto anche dai suoi missionari: le gioie e i dolori della gente, sono le gioie e i dolori dei missionari...’. La commozione prese un po’ tutti e ci fece sentire ancora una volta la bellezza della vocazione missionaria, anche in un momento così drammatico”.

Concludiamo queste brevi note su fr. Salvadori con la testimonianza di fr. Pendin:

“Non ci sono episodi rilevanti che abbiano messo in una luce particolare la sua esistenza, ma si può dire che tutta la sua vita fu un episodio rilevante noto solo al Signore. Quando gliene combinavo qualcuna che avrebbe fatto arrabbiare anche un Giobbe, al massimo mi diceva: ‘Certo che la vita è bella con te!’.

Si può dire che fr. Stefano ha ereditato tutte le virtù e attitudini dello zio Amedeo, donando tutto se stesso per il Regno di Dio. Penso che di tanti nostri umili fratelli missionari, del tipo di fr. Amedeo e di fr. Stefano, non verrà introdotta nessuna causa di beatificazione, e non si vedranno mai innalzati alla gloria degli altari, ma ciò non impedisce di venerarli nell’altare del nostro cuore, certi che lassù nella gloria dei cieli sono già elevati per sempre nell’altissimo altare del Paradiso”.

Ora Fr. Stefano Salvadori riposa nel cimitero di Moroto, africano tra gli Africani, seme fecondo per un futuro più cristiano e più umano per quel popolo per il quale ha dato generosamente la sua vita e anche il suo sangue (è il caso di dirlo), fino all’ultima stilla.   P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 2015, gernnaio 2000, pp. 78-86