Fratel Puggioni è arrivato a Milano la domenica delle Palme, accompagnato da un medico africano, proveniente dall’ospedale pubblico di Bangui, Centrafrica. Il viaggio è stato piuttosto movimentato perché sembrava che il Fratello fosse nell’impossibilità di essere trasportato. Invece i sanitari dell’ospedale sono riusciti, con delle massicce trasfusioni di sangue, ad arginare la grave anemia di cui soffriva e consentirgli di affrontare il viaggio. Tale anemia era certamente collegata al tumore dal quale era stato operato due anni prima e che ora si era risvegliato.
P. Felice Pezzin attribuisce ad una grazia di Comboni la possibilità di trovare, in giorno di sabato in cui anche a Bangui gli uffici sono chiusi, chi preparasse i documenti. “Dobbiamo rendere merito all’Air Afrique - ha scritto, - all’Ambasciata di Francia, alla clinica Chouaib, al dott. Mongonou che ha accettato di accompagnare il Fratello, a numerose suore comboniane e a p. Adelino per le molti notti passate accanto al confratello e ai molti che si sono prestati a donare il sangue, visto che a Bangui non se ne trova. In questo modo il Fratello, alle 22.45 del 4 aprile poteva partire dall’aeroporto di Bangui”.
Si pensava di mandarlo a Verona, ma a Parigi avrebbe dovuto attendere troppo tempo, e poi non si sapeva se c’era posto sull’aereo per Villafranca, così si è proseguito immediatamente per Milano. Fr. Puggioni non è neppure entrato in casa perché è stato immediatamente trasportato dall’aereo all’ospedale Niguarda con l’ambulanza.
Nonostante le massicce cure, il malato continuava a peggiorare perché si erano aggiunte complicazioni renali e cardiache. P. Grau e fr. Zabeo gli furono vicini. L’ultimo giorno, il 15, è stato il peggiore da un punto di vista sanitario. Alla sera, verso le 21.00 fr. Salvatore ha cessato di vivere dopo aver ricevuto tutti i sacramenti. Erano presenti fr. Zabeo e alcuni sanitari dell’ospedale.
Da bidello a missionario
Papà Michele faceva il calzolaio e mamma Pietrina Arangino era casalinga. I fratelli erano sette, quattro femmine e tre maschi. Nella graduatoria Salvatore era il terzo. Prima di farsi comboniano trovò lavoro come bidello in una scuola, ma era anche il fac totum della chiesa, sempre disponibile ad aiutare il parroco per le mille iniziative che riguardavano il buon andamento della parrocchia. Anche con i giovani ci sapeva fare riuscendo a radunarli, intrattenerli e formarli cristianamente. “Insomma - dice la cognata - era già missionario prima ancora di entrare tra i Comboniani. Devo anche aggiungere che, col suo stipendio, ha aiutato i fratelli minori a farsi una posizione. Per esempio ha fatto studiare suo fratello Antonio (mio marito) in modo che conseguisse il diploma di meccanico.
Anche Salvatore avrebbe voluto studiare, se le possibilità economiche della famiglia glielo avessero permesso. Comunque era uno che leggeva molto, e credo che sia stato proprio in seguito alla lettura di qualche libro missionario, ma anche agli ottimi rapporti con il parroco, un’anima grande che poi diventerà Vescovo di Sassari e col quale Salvatore manterrà sempre un’ottima e fraterna amicizia, se gli è venuto il desiderio di farsi comboniano. Di Salvatore non possiamo mai dimenticare l’umiltà e la bontà. Quando veniva in vacanza, la nostra casa era la sua casa”.
Novizio a Firenze
Il 29 novembre 1947, quasi trentenne, Salvatore entrò nel noviziato di Firenze per il postulato. Il 10 ottobre 1948, con la vestizione, iniziò il noviziato. Scrive p. Giovanni Audisio, maestro dei novizi: “E’ di buon esempio a tutti, inclinato alla pietà tenera e sentita, obbediente ed umile, portato alla mortificazione. Al momento della sua entrata aveva una buona preparazione religiosa. Ha attitudine a riuscire in tutti i mestieri che occorrono in una casa religiosa. Posato e giudizioso, è sempre sottomesso e rispettoso nei confronti dei confratelli e dei superiori”.
Dopo il primo anno fu dirottato negli Stati Uniti, precisamente a Cincinnati, dove il 29 giugno 1950 emise la professione religiosa. P. Gabriele Chiodi, suo maestro in USA, aveva sottolineato quanto aveva detto p. Audisio, ma aggiunse due particolari: “E’ un po’ facile a scandalizzarsi e ha tendenze alla contemplazione per cui gli piacerebbe diventare trappista. Secondo me, però, farà molto bene come fratello comboniano perché è un vero sardo, concreto, lavoratore, uomo di preghiera”.
Per la prima osservazione di p. Chiodi dobbiamo capire che l’ambiente statunitense era ben diverso da quello di Donigale Fenughedu dove Salvatore aveva trascorso l’infanzia e la giovinezza, e per la seconda... vedremo che questa “tentazione” salterà fuori ancora.
Dal 1951 al 1953 Puggioni fu a Monroe, sempre negli Stati Uniti per dare una mano alla costruzione del noviziato. In questo periodo ebbe modo di imparare un po’ la lingua inglese, e di fare pratica di edilizia, ma il suo cuore anelava all’Africa. Lo deduciamo da una lettera scritta il 19 aprile 1951 al Padre Generale, nella quale dice: “Mi hanno detto che devo fermarmi negli Stati Uniti. Questa è una spina acutissima che mi ferisce il cuore perché vedo svanire tutti i miei sogni per l’Africa dove avrei desiderato recarmi per fare del bene ai poveri neri”.
P. Vittorio Turchetti, superiore locale, scrisse: “Sa dominare bene il suo carattere forte. E’ l’uomo dell’obbedienza, del sacrificio, della povertà, del lavoro e della preghiera. Le relazioni con gli altri sono sempre fraterne”.
P. Giulio Rizzi, superiore provinciale, aggiunse: “E’ un buon Fratello che si presta a tutto, è di soda pietà. E’ un religioso esemplare sotto ogni riguardo”
In Sud Sudan
Nel 1954 fr. Puggioni venne assegnato al Sud Sudan. Partì col cuore doppiamente pieno di gioia perché lasciava l’ambiente americano che non gli piaceva, e andava finalmente in Africa. Fu assegnato a Mupoi come addetto alle costruzioni. Lavorò col solito ottimismo ed entusiasmo e riuscì ad imparare bene anche la lingua zande e ciò allargò le sue conoscenze e dilatò e approfondì le sue amicizie con la gente che mostrò subito di stimare e di amare. E gli azande ricambiavano questo amore e questa stima soprattutto per la calma, la pazienza e il controllo di sé del Fratello.
Ma ecco che il diavolo venne a metterci la coda. Dopo due anni di permanenza in Africa, affiorò nuovamente la “vocazione” alla vita contemplativa, e fece domanda di entrare tra i Camaldolesi. Fortunatamente il Padre Provinciale sequestrò la lettera e fermò tutto.
Padre Simoncelli spiegò la faccenda in questo modo: “Trovandosi il Fratello con un padre nervoso, col quale è veramente difficile vivere, gli è venuta la vocazione a farsi Camaldolese. Ma Puggioni è un ottimo missionario comboniano e qui deve restare”.
Per non ripeterci saltiamo a piè pari le considerazioni che p. Raffaele Errico, superiore a Mupoi, fece del Fratello in quanto ripetono quelle che abbiamo già sentite da altri. A Tambura Puggioni ha costruito la chiesa e la missione che diventerà un centro importante quando la zona verrà elevata a diocesi.
Quella di Mupoi fu un’esperienza intensa, carica di grandi speranze, che ha lasciato un segno positivo nella vita di fr. Puggioni. Purtroppo questi dieci anni, che sono stati come un bel sogno per il nostro Fratello, sono stati bruscamente interrotti dalla guerra civile e dall’espulsione del 1964.
Giunto in Italia, lavorò per una paio di mesi nella tipografia Nigrizia allo scopo di impratichirsi in caratteri, composizione, impaginazione e stampa in vista di un suo servizio in Brasile. Ma dopo appena due mesi di quel lavoro, venne inviato a Sulmona come fratello ad omnia.
Una lettera significativa
Da Sulmona, il 2 gennaio 1965, fr. Puggioni scrisse una lettera al Padre Generale che ci apre una finestra sulla sua anima di Fratello santo e zelante. La riportiamo:
“Amatissimo e reverendissimo Padre, mi dispiace disturbare il suo già faticoso lavoro con questa mia, sicuro però che la sua bontà vorrà perdonarmi. L’anno scorso, al rientro dal Sudan, mi aveva promesso che con il nuovo anno mi avrebbe mandato in missione.
La morte dei nostri confratelli nel Congo, l’ho appresa con santa invidia, e questo fatto mi ha spinto a scriverle affinché anch’io possa dimostrare a Gesù benedetto che soffrire per suo amore per me è godere. Appaghi, Padre amatissimo, questo mio desiderio perché possa andare a prendere il posto di coloro che sono stati uccisi e così il Signore vedrà quanto anch’io lo amo. Spero che lei mi capisca, Padre carissimo, e spero che la sua bontà mi ottenga una risposta positiva alla brama del mio cuore, che è quella di servire in Signore in terra di missione”.
E’ bello vedere un umile Fratello che invidia chi ha versato il sangue per il Signore e si augura che, anche a lui, possa capitare una fortuna simile come segno tangibile del suo amore a Cristo.
Il Padre Generale accolse la preghiera del Fratello anche se gli fece cambiare continente.
In Brasile
Dal 1965 al 1970 fr. Puggioni fu in Brasile, come incaricato della tipografia della città dei ragazzi “San Giuda Taddeo” di Rio Preto.
Ma il vescovo di Balsas, mons. Diego Parodi, per costruire le missioni della Prelazia e per preparare i giovani al lavoro, aveva messo in piedi una fabbrica di mattoni e di tegole. Poi c’era anche la falegnameria, la segheria e altre opere, portate avanti pure dal suo successore, mons. Rino Carlesi. Fr. Puggioni fu chiamato a dare una mano, con altri fratelli, e soprattutto con giovani operai che, oltre ad imparare il mestiere, ricevevano un modesto stipendio.
“Ricordo - scrive p. Modesto de Bertolis - quando era a Balsas come addetto alle costruzioni. Era una lavoratore assiduo, infaticabile e sempre contento, sempre con la battuta pronta sul labbro per sdrammatizzare la situazione, per incoraggiare qualcuno che accusava la stanchezza. Ma era comprensivo con quei ragazzi che, come abitudine al lavoro, erano alle prime armi. ‘Occorre calma e pazienza - diceva - non si può avere tutto e subito. Devono imparare, devono allenarsi’.
Ci dava anche buon esempio come religioso. Dopo una giornata lavorativa, si lavava, si cambiava ed era sempre puntualissimo alla preghiera in comunità. In refettorio, anche se non era incaricato, era sempre pronto a mettere l’acqua fresca in tavola, si accorgeva se mancava qualche bicchiere o qualche cucchiaio e, senza farlo pesare sulla cuoca, provvedeva lui. Sono piccole cose che, tuttavia, indicano l’uomo. Era, inoltre un uomo di ottima compagnia, molto cordiale e buono. Io lo definirei un saggio. Sai, di quegli uomini lenti nel parlare ma che, quando aprono la bocca, dicono cose buone”.
Il suo lavoro in Brasile, però, fu svolto soprattutto in tipografia. Non aveva imparato molto nei due mesi di Verona. Infatti, in una sua relazione scrisse: “In Brasile mi trovai quasi male perché in tipografia non sapevo fare bene il tipografo e ho avuto tante umiliazioni”.
26 anni in Centrafrica
Ritornato dal Brasile nel 1970, fece l’anno di aggiornamento a Roma e poi rimase nella Casa generalizia per i molteplici servizi che occorrono in una comunità così complessa. Intanto attendeva che si aprissero le porte del Sudan meridionale in modo da poter ritornare “al suo primo amore”. Nel 1972 si riaccese la speranza. Con l’accordo di Addis Abeba, venne firmata la fine della guerra tra il Sudan del Nord e quello del Sud. A quest’ultimo era concesso un governo regionale autonomo. Nell’accordo era menzionata espressamente, e per la prima volta dall’inizio della guerra (1955), la libertà di religione sia nella scelta di credo, sia nella pratica. Molti missionari espulsi nel 1964, e sempre in attesa di tornare, speravano che fosse la volta buona. Invece le cose si complicarono per cui qualche permesso venne solo col contagocce.
Fr. Puggioni, chiese ed ottenne di andare tra gli azande fuggiti dal Sudan meridionale, dei quali conosceva la lingua e che avevano trovato rifugio nella Repubblica Centrafricana.
In Centrafrica, inizialmente è stato a Obo e a Zemio, dove si è dedicato totalmente ai rifugiati. In questo periodo ha lavorato alle costruzioni di cui la missione aveva bisogno. Per i primi mesi tutto andò a gonfie vele. Poi, in seguito agli accordi di Addis Abeba, molti sudanesi cominciarono a tornare ai loro villaggi. Il Fratello si allarmò e scrisse: “I rifugiati stanno lasciando la Repubblica per tornare in Sudan e io non conosco il francese e ormai non sono in grado di studiarlo. Piuttosto di restare in una terra dove non riesco a capire la gente e a farmi capire, io sono disposto a tornare nuovamente in Brasile. Dico questo perché temo che noi espulsi dal Sudan non potremo più ritornare in quel paese”.
“Aspettiamo e speriamo - gli rispose il Padre Generale - forse il Sudan si aprirà nuovamente”.
Nel dicembre del 1972 tornava a scrivere: “Ogni settimana partono almeno 10 camion di rifugiati per il Sudan. Io resto solo e sconsolato, dopo aver raggiunto la meta tanto agognata. Dato che conosco il portoghese, io sono disposto ad andare anche in Mozambico... Mons. Carlesi, dal Brasile, mi ha detto che mi accoglierà a braccia aperte, se tornerò”.
“Lascia perdere il Brasile e, per il momento, non c’è bisogno urgente di fratelli in Mozambico, dove è anche difficile entrare. Io spero ancora che aprano il Sudan. Quindi aspettiamo e speriamo”.
“Va bene, Padre, io aspetto anche se intanto faccio di quelle figure col sango e col francese! Io non riesco a ricordarmi niente e la memoria non lavora più. Comunque non voglio far disperare i superiori per cui non le chiedo più niente e cercherò di fare meglio che posso qui o dove vorrà lei”.
In fondo al pozzo
Spiegandosi “a motti e a strambotti”, come diceva lui, fr. Puggioni continuò il suo lavoro nelle costruzioni, anche se qualcuno gli diceva che non era preciso nel lavoro. “Scusatemi - rispondeva - non ho mai imparato bene il mestiere di muratore. L’importante è che i muri non ci caschino in testa”.
Invece fu lui a cascare in fondo a un pozzo che aveva scavato in quel di Zemio. Se la cavò ancora bene. Solo un braccio rotto che, però, lo fece tribolare per alcuni anni perché non fu ben aggiustato la prima volta. Poi è dovuto rientrare in Italia per aggiustarlo con inserimento di sostegni metallici.
Dal 1978 al 1981 si fermò in Italia per un servizio nella Casa generalizia di Roma, quindi poté ripartire per il Centrafrica. Ormai, infatti, aveva cominciato a masticare un po’ di francese. Inoltre, con il riaccendersi della guerra tra Sudan del Nord e Sudan del Sud (1982), i rifugiati ritornavano, e per il nostro Fratello ricominciò il lavoro missionario.
Il braccio rotto e mai ben aggiustato, lo limitò nel lavoro materiale, ma, paradossalmente, gli consentì di accentuare la sua presenza in mezzo alla gente e di diventare così un autentico evangelizzatore. La sua umanità, espressione di una spiritualità solida, e la sua pietà esemplare, lo portarono a privilegiare il dialogo interpersonale.
E’ stato anche nelle missioni di Mongumba (1972-1985), di Tekoa (1985-1990), quindi di Notre Dame di Fatima e alla Maison Comboni della capitale (1990-1998).
Un uomo buono
Fr. Puggioni aveva un bel carattere. Grazie a questa sua bontà e disponibilità, tutti lo chiamavano per i lavori di cui le missioni avevano bisogno, ed egli non diceva mai di no. In missione ha messo in pratica con molta serenità quello spirito di obbedienza che aveva assimilato in noviziato, dando tutto quello che aveva come energia fisica e doti di intelligenza. Non era uno che si metteva in mostra, anzi amava il nascondimento. Qualcuno lo ha paragonato ad uno di quei fiori che crescono dietro i sassi e negli angoletti: nessuno li vede, eppure ci sono e mandano il loro profumo.
Era uomo di comunità: alla sera, dopo una giornata di lavoro, gli piaceva giocare a carte con i confratelli. E ci metteva l’anima. Qualcuno lo criticava perché era troppo ligio all’orario. Quando si trattava di radunarsi per la preghiera, egli suonava il campanello, e se qualcuno tardava, non aveva paura a dirgli: “E’ ora del rosario, della meditazione...”, ma faceva tutto con calma e bonarietà, senza offendere nessuno.
Soprattutto un amico
P. Faustino Bertolazzi, che ha lavorato con lui per tanti anni, dice: “Fr. Puggioni era un amico. Un amico che interveniva quando eri nel bisogno. Anzi, era lui stesso a vedere il tuo bisogno prima che gliene parlassi e, quasi senza esporsi, senza esibirsi, ti veniva in aiuto con serenità e in silenzio. Quando noi sacerdoti tornavamo a casa dal ministero, fr. Puggioni era là ad attenderci. Non c’era pericolo che andasse a letto finché tutti i confratelli non fossero rientrati. E si poteva star sicuri che lui aveva già preparato qualcosa da mangiare, qualcosa di fresco da bere, e con gioia si metteva a servire interessandosi di come erano andate le cose, se avevamo incontrato difficoltà, condividendo sia le nostre gioie come le nostre sofferenze. Davvero un fratello, vorrei dire una mamma”.
Il suo Padre provinciale ha scritto: “Nell’interno della comunità si rendeva utile con mille servizi ed era il paladino della ricreazione, specie con il gioco della carte, che diventava espressione concreta di fraternità e di comunicazione. Esempio non indifferente nella progressiva tendenza alla muta contemplazione televisiva. L’esame in chiesa a mezzogiorno era un altro dei suoi punti fermi. Scuoteva il capo davanti alla disinvolta creatività di una vita religiosa... nuova. Puggioni è un uomo che va ricordato specie per la sua fedeltà”.
L’ultimo buon esempio
Vorremmo terminare questo breve profilo con la testimonianza di suor Carmela e di suor Luisa, due comboniane incaricate del Postulato, che lo hanno assistito in ospedale.
“Ci spiace per la morte di fr. Puggioni. Speravamo che durasse più a lungo, ed è per questo che è stato rimpatriato. Se si fossero resi conto che il suo stato era così grave, l’avrebbero lasciato qui, dato che lui era pronto a morire in Africa.
Durante la settimana che è stato in clinica, ci davamo il cambio per essere sempre al suo fianco. Peccato che gli impegni ci impedissero di essere sempre accanto al suo letto.
Nel tempo che è stato in clinica abbiamo conosciuto la sua fede e la sua forza d’animo. Non si lamentava, non faceva pesare la sua malattia, e poi quella disposizione serena ad accettare la volontà di Dio! Da parte nostra non lo abbiamo mai voluto illudere con la speranza della guarigione, anzi si parlava della morte con naturalezza, e lui era il primo ad esprimere il suo desiderio di incontrarsi col Signore.
Siamo andate con le postulanti a pulire la sua stanza. C’era ben poco da prendere, perché era di una povertà estrema: aveva solo l’essenziale. Le postulanti sono state molto toccate dalla testimonianza di Puggioni. Al di là dei suoi limiti, aveva pure tante qualità, e pensiamo che una persona si dimostri per quello che è alla fine della vita, specie davanti alla morte. E Puggioni ha dato una prova sublime”.
Anche i confratelli dicono che fr. Puggioni non aveva paura della morte. Spesso parlava con loro di questo momento importante della vita. Riconosceva di essere vissuto ormai 80 anni e ringraziava il Signore per quanto era riuscito a fare, con il suo aiuto. E ora si preparava all’incontro con Dio nella serenità e nella riconoscenza per quanto aveva ricevuto. Questo suo atteggiamento, sempre ottimistico, era come una preghiera di ringraziamento a Dio.
Per obbedienza è ritornato in Italia a morire, cosa che lui avrebbe voluto gli accadesse in terra di missione. Così, inconsciamente, ha dato l’esempio di una morte cristiana e serena dopo una vita altrettanto cristiana e altrettanto serena. Che dal Cielo interceda per la Congregazione e per il Sudan che tanto ha amato.
Dopo il funerale al Centro Ambrosoli di Milano, la salma ha proseguito per Venegono Superiore dove è stata tumulata accanto ad altri confratelli. P. Lorenzo Gaiga, mccj
Da Mccj Bulletin n. 201, ottobre 1998, pp. 97-104