In Pace Christi

Perghem Marino

Perghem Marino
Date of birth : 08/02/1927
Place of birth : Nomi (TN)/I
Temporary Vows : 09/09/1949
Perpetual Vows : 09/09/1951
Date of ordination : 07/06/1952
Date of death : 12/03/1998
Place of death : Milano/I

La famiglia di p. Marino è stata provata dalla sofferenza fin dal suo inizio. Papà Igino, dopo aver compiuto gli studi di ragioniere presso i Salesiani di Trento, ed essersi sposato, divenne segretario amministrativo dell’ospedale “Opera Romani” di Nomi, il paese in provincia di Trento dove sarebbe nato il futuro missionario. La mamma, Maria Marinolli era casalinga. Ma ella morì nel 1928, a 36 anni di età, stroncata dal tifo preso proprio dal figlio Marino che allora aveva appena 22 mesi.

In seguito il papà si sposò con Pia Schmidt, dalla quale nacque Virginia per la quale p. Marino avrà sempre una devozione tutta particolare. Le due mamme e il papà di p. Marino erano cristiani fervorosi. Nella famiglia della mamma c’erano un fratello e un cugino sacerdoti diocesani. Attualmente un nipote è dehoniano.

Da bambino Marino frequentò l’oratorio e la parrocchia, prestandosi anche come chierichetto. Aveva un carattere espansivo, allegro, affettuoso e vivace. Era sempre in movimento e molto attivo, specialmente quando si trattava di aiutare gli altri. Essendo la sua famiglia di condizioni, possiamo dire, agiate, il piccolo Marino era portato a condividere con i compagni più poveri la mancia che il papà gli consegnava nei giorni di festa.

Dopo le elementari al paese, è entrato nel seminario diocesano di Trento. “Durante il liceo - dice la sorella - ha organizzato un campeggio per i ragazzi del paese e proprio in quell’occasione ha dimostrato le sue doti di uomo concreto e capace. Era sempre a disposizione dei cappellani per animare le varie iniziative della parrocchia o dell’oratorio”. Nel seminario di Trento imparò bene il tedesco.

La vocazione

Quando Marino stava terminando il liceo, mons. Orler, vescovo comboniano trentino, tenne una conferenza ai seminaristi. In quella circostanza, al nostro seminarista si aprì un orizzonte più vasto: l’Africa. Dopo lunga riflessione, capì che il Signore lo chiamava alla vita missionaria. Allora chiese il permesso al Vescovo, che glielo concesse. Con Marino partirono anche altri seminaristi.

Il rettore del seminario scrisse in data 27 maggio 1947:

“Dopo la sua decisione al principio d’anno di farsi missionario, l’ho visto lavorare indefessamente per migliorarsi e con risultati positivi. E’ di pietà buona e di intelligenza sufficiente. Come carattere è piuttosto chiuso e tendente alla timidezza, nonostante che in certi casi si dimostri tenace. Condotta buona, anzi, posso dire ottima. Lavorato con mano delicata e braccio un po’ forte potrà riuscire bene... Trento non manda gli scarti. Ed è giusto che a Dio si diano i frutti migliori”.

Il papà, alla proposta del figlio di farsi missionario, diede il suo consenso: “Io sottoscritto Perghem Igino, fu Pietro, padre del seminarista Marino, dichiaro con la seguente di acconsentire che mio figlio entri nell’Istituto dei Figli del Sacro Cuore per le missioni dell’Africa.

Dichiaro inoltre che la presenza di mio figlio in famiglia non è necessaria e che accetto volentieri le norme che regolano l’ammissione dei giovani nell’Istituto. Nomi, Trento, 16 agosto 1947”.

Questa dichiarazione faceva giustizia contro le insistenze dei parenti che gli contrastavano la vocazione missionaria, essendo figlio unico. Vagliata bene la sua vocazione, Marino stese la domanda di entrata tra i Comboniani. La sua lettera è particolarmente solenne. Sentiamone alcuni brani:

“Trento, 26 maggio 1947

Reverendissimo Padre Generale,

Mentre la benedizione dell’Arcivescovo mi brilla ancora in fronte, forte della risposta affermativa del p. Spirituale, felice per non aver trovato alcuna difficoltà da parte del Rev.mo Mons. Rettore, esultante per il consenso paterno io, seminarista Marino Perghem, figlio di Gino e di fu Marinolli Maria, nato a Nomi, Trento, l’8 febbraio 1927, alunno ora della terza classe liceale del seminario maggiore principesco arcivescovile di Trento, mi rivolgo alla Paternità Vostra Reverendissima chiedendo umilmente di far parte della gloriosa famiglia dei Figli del Sacro Cuore, tutti votati alla salvezza dell’infelice Nigrizia.

Non desiderio di gloria e d’onore, non brama di ricchezza, non amore d’avventure mi spingono a questa volontaria decisione, ma il desiderio ardente d’essere uno strumento docile ed infaticabile che s’abbandona totalmente nelle mani del Divino Assetato della Croce per cooperare alla salvezza dei poveri fratelli neri.

Dal giorno in cui, per mezzo della voce di un vostro figlio, il Celeste Vignaiolo accese dinanzi al mio sguardo questo ideale sublime, non ho avuto che questo desiderio ardente: diventare missionario. Ora sono tutto nelle mani della Paternità Vostra Reverendissima. Fate di me ciò che volete. Tutta la mia volontà è vostra. Fatemi un santo missionario e mi avrete reso eternamente felice.

Da parte mia prometto fin d’ora umile e gioiosa sottomissione alla regola, ai comandi, ai consigli, ai desideri anche minimi di tutti i miei futuri superiori. Nulla voglio cercare per me, se non la santità: il resto è tutto per il Signore e per le anime degli infedeli...”. Fu accettato.

Umile novizio

Il 18 agosto 1947 entrò nel noviziato di Gozzano, quindi fu uno di coloro che inaugurarono quella casa come sede di noviziato. P. Giovanni Giordani, che fu suo maestro, scrisse. “Grande e sincero desiderio di bene, tanto che qualche volta ha chiesto che gli venissero aumentate le austerità del noviziato. Carattere umile, retto, obbediente, servizievole. Dovrà essere moderato nei suoi slanci dei generosità”.

Durante il secondo anno di noviziato frequentò la prima teologia, impegnandosi al meglio.

Un’osservazione del p. Maestro riguarda lo spirito di umiltà del novizio. “Uno spirito esagerato che può portarlo al pessimismo e alla sfiducia in se stesso”. Questo sentimento risulta anche nella domanda dei Voti. Infatti, dopo essersi raccomandato al Sacro Cuore di Gesù e all’intercessione della Madonna, scrive: “Non preziose doti di intelligenza, non grandi capacità organizzative, ma un povero nulla vuole aggiungersi alla Congregazione, desideroso però di affidarsi totalmente ad essa, come a buona madre, senza alcuna preferenza perché ne disponga a suo piacimento per il bene della sua povera anima e per il bene e la salute dei popoli infedeli. Fiducioso che non verrà rigettata la supplica ardente di questo misero niente, chiedo...”. P. Giordani aggiunse in calce al foglio:

“Accompagno la presente con i miei voti, fiducioso di raccomandare un individuo che farà bene”.

In Africa via USA

Emessi i Voti il 9 settembre 1949, andò a Rebbio di Como per la seconda teologia, ma poi passò subito a Venegono Superiore. Nel 1950 fu destinato allo scolasticato di Cincinnati, negli Stati Uniti, così, con la teologia, avrebbe appreso bene la lingua inglese. Partì per l’America in agosto e, in novembre, gli morì il papà.

Un altro dolore, dunque, doveva contribuire alla sua immediata preparazione al sacerdozio. Dolore per la morte, e dolore per essere lontano. Venne consacrato a Cincinnati il 7 giugno 1952.

In luglio, dopo una fugace visita al paese natale e una solenne prima messa, p. Perghem partì per Khartoum con l’incarico di insegnante nel Collegio Comboni. Lavorò bene, con impegno e scrupolosità tanto che, l’anno dopo, divenne direttore e incaricato delle scuole di Khartoum e di El Obeid (1953-1957).

Dal 1957 al 1959 fu insegnante a Port Sudan, quindi nuovamente direttore e incaricato delle scuole a Khartoum dal 1959 al 1980, con incarichi anche di insegnante. Tutti ruoli, come si vede, piuttosto scarsi quanto a soddisfazioni pastorali.

Un giorno p. Perghem disse che, da buon figliolo di amministratore di ospedale, era destinato a fare l’amministratore anche lui. E come amministratore e segretario delle scuole ha trascorso gran parte della sua vita africana. Ma un altro impegno molto importante ha svolto in Sudan: quello di essere il portavoce della Chiesa presso il Governo. Un impegno delicato se consideriamo quali erano, e quali sono, i rapporti tra la Chiesa e le autorità governative in un Paese a regime fondamentalista islamico.

Al servizio di tutti

Scrive p. Antonini, provinciale del Sudan:

“Ho conosciuto p. Marino nel 1966. Era in Sudan dal 1952. Aveva fatto il suo apprendistato missionario come professore nelle scuole del Comboni e come assistente parrocchiale a El Obeid, Port Sudan e Khartoum. Nel frattempo imparò la lingua araba.

Tra i suoi compiti c’era quello di curare le pratiche per i permessi d’ingresso, di permanenza e di lavoro per i missionari e le missionarie. Finì anche per diventare l’economo del Comboni College e si fece promotore di varie migliorie nella scuola e nella residenza del personale insegnante. Sotto la sua amministrazione le rette scolastiche cominciarono ad essere tenute a livelli minimi. Era sufficiente che la scuola si mantenesse leggermente in attivo per assicurare l’indipendenza e per poter aiutare gli studenti meritevoli, ma poveri. Uno spirito di povertà, di distacco dal denaro e di amore ai più poveri veramente encomiabile, dunque.

All’insegnamento delle materie commerciali e letterarie, aggiunse anche educazione fisica. Lavorando alla sega circolare per fare degli attrezzi da ginnastica, perse parte delle tre dita della mano destra, tagliate dalla macchina. Si era distratto seguendo alla radio la notizia del passaggio del card. Montini da Khartoum di ritorno dalla visita a Kariba, la missione dei preti ‘fidei donum’ di Milano. Superato lo skock, imparò a scrivere con la sinistra, e ci riuscì molto bene”.

Un banchiere tutto speciale

“I giovani che venivano dal sud Sudan a Khartoum in cerca di lavoro per guadagnarsi ciò che serviva loro per sposarsi e mettere su casa - prosegue p. Antonini - trovarono in p. Marino il loro banchiere di fiducia. A lui affidavano i loro risparmi che ritiravano il giorno della loro partenza per il villaggio di origine. Era un servizio che costava a p. Marino ore di lavoro, sempre nel pomeriggio, ma che lui svolgeva con calma, pignoleria e onestà.

La buona conoscenza della lingua araba e della cultura sudanese gli facilitò il lavoro di collegamento col governo. Era il tempo delle continue minacce di espulsione del personale straniero da parte delle autorità, delle limitazioni dei permessi d’ingresso e di lavoro ai nuovi venuti, mentre i ‘Fratelli Musulmani’ si agitavano per la musulmanizzazione delle scuole, per l’arabizzazione e islamizzazione dell’insegnamento.

P. Marino seppe destreggiarsi con abilità, pazienza e grande diplomazia tanto che la riduzione del personale comboniano in Sudan del nord fu dovuto più alla politica dell’Istituto che a quella del governo.

Viaggi, bagagli, viveri, attrezzature, medicinali, libri, quaderni, corse all’aeroporto di giorno e di notte per sbrogliare pratiche impossibili... riempivano la giornata del Padre. A lui si rivolgevano sacerdoti, suore, seminaristi e gente di passaggio da Khartoum, ed egli non diceva di no a nessuno”.

Prima di tutto, il Signore

Vivendo in un vortice simile di attività, qualcuno potrebbe pensare che il Padre non avesse il tempo di dedicarsi al Signore, alla preghiera, alla meditazione. Errore! Ecco cosa dicono i suoi superiori:

“Ha una particolare attitudine all’insegnamento, al ministero e anche alle attività materiali. Osserva le regole con scrupolo e non manca mai agli atti comuni della comunità. E’ sempre il primo in chiesa e l’ultimo ad uscire. Se ha un difetto è quello di essere un po’ ingenuo e di dare generosamente a tutti, ma è il suo spirito di carità che lo spinge.

A chi gli ha fatto notare questa sua generosità con i poveri, ha risposo un giorno: ’Non siamo venuti in Africa per dare la vita? Ebbene, prima della vita, diamo le nostre cose, i nostri soldi’: Non lo si è mai sentito criticare gli altri. Di fronte a certe cose che richiederebbero un commento negativo, tace.

I confratelli dicono che è esagerato nel suo impegno di lavoro, con il clima di Khartoum, che si dovrebbe risparmiare almeno nelle cose non necessarie. E’ troppo minuzioso e preciso in tutte le sue cose, direi scrupoloso specie per quanto riguarda la celebrazione della messa e la recita del divino ufficio. Insomma è un ottimo religioso. I ragazzi della scuola gli vogliono bene e anche i confratelli e la gente. E come non si potrebbe?” (p. Spolaore).

Nel 1980, dopo 28 anni di presenza nella terra di Comboni, fu chiamato in Italia per lavorare nell’Ufficio Centrale Emigrazione della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) a Roma. Si trovò al centro dell’ondata di immigrazione di chi fuggiva dalle ingiustizie, dalla persecuzione e dalla fame. Si dedicò a loro finché la salute glielo permise, poi si mise in disparte in attesa dell’incontro col Signore che aveva visto, amato e servito in migliaia di poveri, come missionario.

Un timore del Padre, nel lasciare il Sudan, era che i profughi non fossero più adeguatamente assistiti. Ma il p. Generale lo assicurò che altri avrebbero svolto quel compito, così p. Marino poté partire alquanto tranquillizzato.

15 anni ai rifugiati

Il capitolo sui quindici anni trascorsi a Roma, dal 1981 al 1996, come vicedirettore dell’Ufficio Centrale per l’Emigrazione Italiana e poi nella sezione rifugiati con la Migrantes, la struttura nuova che si è data la Chiesa per il servizio agli immigrati, è molto lungo. Il settore immigrati e profughi è stato avviato e impostato da p. Marino, nel silenzio e nella metodicità sempre proteso a far contenti gli altri, sempre schivo di ringraziamenti e di riconoscimenti.

E’ già uscito un libretto ciclostilato sugli interventi dei partecipanti alla messa funebre, i quali hanno sottolineato le caratteristiche del lavoro a Roma di p. Marino. E’ impossibile citarli tutti.

E’ stata comunque sottolineata la piena disponibilità del Padre per quel lavoro che lo portava ancora una volta a contatto con i più diseredati che approdavano in Italia.

Mons. Silvano Ridolfi già direttore dell’UCEI (Ufficio Centrale per l’Emigrazione Italiana, che è l’ufficio operativo della CEI per i problemi della mobilità umana, attualmente cambiato in Fondazione Migrantes) ha detto: “Padre Marino è stato un dono per la Chiesa, un dono in terra di missione, un dono in terra italiana... E’ stato davvero il paziente e fedele collaboratore nella vigna del Signore. Tra l’altro diceva che, in Africa, avrà battezzato si e no una decina di persone, ma la Provvidenza lo preparava per lavorare qui nella Chiesa italiana.

La sua scrivania era la più pulita, la più ordinata. Il Nunzio apostolico in Sudan, mons. Calabrese disse un giorno: ‘P. Perghem è sempre pronto a tirare fuori i suoi libri, i suoi registri e conosce i movimenti di tutti con aggiornamento cronometrico’.

Egli, che di giorno lavorava silenzioso e metodico, non portava mai a casa delle pratiche come facevamo noi. Spiegava questo suo comportamento in questo modo: ‘In Africa ho imparato che Dio ha dipinto il giorno di luce e di buio la notte, perché nel primo si lavorasse e nel secondo si riposasse’.

Il suo archivio, tenuto perfettamente in ordine, era in grado di soddisfare immediatamente qualsiasi esigenza di chi cercava una circolare o un documento”.

Mons. Salvatore Ferrandu vice presidente della Migrantes, che è stato per 9 anni vice direttore dell’UCEI, ha detto: “Lo ricorderemo soprattutto come esempio di fedeltà e di donazione al servizio del Signore. Sarà un esempio che non dimenticheremo mai”.

La testimonianza di p. Giuseppe Farina

“Sono stato con lui nella stessa comunità per tanti anni - ha detto p. Giuseppe Farina al termine della messa funebre. - Anzi ho lavorato con lui sia al Collegio Comboni, sia nella procura e quindi l’ho conosciuto molto bene. Era prete, professore, falegname, pittore, economo, sportivo... Possedeva molto bene la lingua inglese, francese e araba che ha insegnato magistralmente sia al Comboni College, sia ad El-Obeid dove si è sacrificato molto per la costruzione della grande scuola, e sia a Port Sudan, sempre nell’ambito della scuola.

Nel momento doloroso dell’espulsione di tutti i missionari dal Sud Sudan nel 1964, fu nominato procuratore generale dei Vescovi di tutte le missioni, ufficio che svolse con meticolosa e scrupolosa diligenza, e che lo portò a trattare con le autorità governative per i permessi di entrata e di uscita o per i viaggi dei missionari.

Spendeva ore, giorni, settimane per passare da un officio all’altro per far capire le sue ragioni a chi non voleva intenderle. Questo lavoro gli fu motivo di molte umiliazioni che lui sopportò sempre con coraggio, spirito di servizio e umiltà.

Alla fine riusciva nel suo scopo perché era stimato da tutti. Non diceva di no a nessuno, anzi faceva molto più di quanto gli era stato richiesto. Lo stesso p. Zanini, superiore, gli diceva: “Caro vecio, cerca di correre meno, altrimenti ti consumi in fretta”. Egli sorrideva e non diceva mai basta.

Come professore era amato dai giovani perché in p. Marino avevano un amico, un confidente, uno stimolo, ma specialmente un vero sacerdote. Spesse volte, alla sera tardi, lo scoprivo con il breviario o il rosario in mano. Non si concedeva dispense, nemmeno nei giorni più impegnativi. Non parliamo poi della messa e delle pratiche di pietà che erano per lui pietre miliari nella sua giornata.

Lo ho visto pochi giorni prima della sua morte. Gli dissi di guarire perché dovevamo tornare in Sudan. Sorrise e aggiunse: ‘Verrei subito’. Ma questo suo desiderio è salito con lui al trono di Dio”.

Sarò le braccia di Cristo

P. Marino ha lasciato una grossa documentazione di un suo viaggio, per incarico della CEI, effettuato dal 27 novembre 1984 al 12 febbraio 1985 nei seguenti paesi: Nigeria, Camerun, Rep. Centroafricana, Congo, Uganda, Kenya, Etiopia, Sudan, Egitto.

Un giorno, mentre accompagnava il Nunzio Apostolico, visitò la missione di Kit nei pressi di Juba, completamente distrutta dalla guerra. Tra le macerie della chiesa, in prossimità dell’altare maggiore, vide la testa di un crocifisso. P. Marino cominciò a smuovere delicatamente i sassi e ne estrasse un crocifisso mutilato alle braccia. Chiese se poteva conservarlo come ricordo di quella missione. Avutane risposta affermativa, lo portò a casa, lo ripulì, vi fece una croce di legno e lo fissò ad essa e lo mise sul suo tavolo di lavoro.

Ogni mattina, prima di iniziare la sua giornata, si riprometteva di essere le braccia di quel Cristo mutilato dalla cattiveria degli uomini. Alla sera, poi, si esaminava se aveva corrisposto a quel suo impegno. “E’ molto consolante poter dire, alla sera: ‘Oggi ho accumulati molti zeri che diventeranno una grande cifra quando Cristo, il vero Uno, si metterà davanti a loro’.

Questo crocifisso mutilato fu l’unico ricordo che portò con sé in Italia, e lo tenne sempre sul suo tavolo di lavoro e poi di sofferenza. “Io sono le braccia di Cristo - ripeteva a chi gli chiedeva da dove venisse quel Cristo - egli mi ha scelto per essere la sua lunga mano per arrivare dove Lui non arriva. Cioè, potrebbe arrivare, ma vuole la mia collaborazione”.

Apostolato tra i carcerati

Trovandosi a Khartoum seppe che un giovane era in carcere, condannato a morte. Lo visitò, lo confortò e riuscì a calmare la sua disperazione assicurandolo che, il giorno dopo, avrebbe conquistato il paradiso. Inoltre gli promise che si sarebbe preso cura del suo corpo e che lo avrebbe consegnato alla famiglia per una degna sepoltura.

Ritornò all’alba prima dell’esecuzione e trovò il condannato sereno. Gli rimase vicino, confortandolo, fino ad esecuzione avvenuta e poi fece quanto aveva promesso. L’apostolato tra i carcerati fu un altro punto forte della missionarietà di questo nostro confratello.

La sorella e il marito andarono a trovarlo quando si trovava nella missione di Kober in Eritrea. “Potemmo constatare di persona che la missione era il punto di riferimento di tanti disperati, profughi o fuggiaschi che cercavano un valido aiuto per poter ottenere il permesso di espatrio”.

Riposa accanto alla mamma

Nel 1990 p. Perghem ha avuto un aneurisma addominale dal quale è stato operato a Verona. Da quella operazione, però, non si è mai ripreso proprio bene, anche se poté tornare a Roma a svolgere il suo ufficio.

Nel 1996 dovette andare al centro Ambrosoli di Milano perché la salute non reggeva più. Ai disturbi cardiocircolatori si era aggiunto il morbo di Alzeimer. Alla fine di febbraio del 1998 fu colpito da influenza proprio quando doveva essere operato da ernia.

Il suo declino fisico fu velocissimo e preoccupante per cui venne ricoverato all’Ospedale Sacco di Milano. Ma un infarto, con complicazioni renali e polmonari, finirono per stroncarlo.

Mons. Silvano Ridolfi, ha presieduto l’Eucaristia. Hanno partecipato: mons. Bellotti, direttore generale della Migrantes e vicario generale della diocesi di Bergamo, mons. Salvatore Ferrandu e il nipote p. Albino Marinolli, dehoniano. Questi ha ringraziato i Comboniani a nome della sorella e dei parenti per l’assistenza prestata a p. Marino e ha detto che il Padre sarà portato in un paesino a 1200 metri di altezza, tra le montagne che tanto amava. Naturalmente al funerale c’erano tanti comboniani venuti anche da lontano per dare l’ultimo addio a un confratello così generoso.

Sono arrivati telegrammi di partecipazione dal presidente della Migrantes, mons. Alfredo Garsia, dal suo medico curante di Roma, dott. Giovanni Bongiorno di Borbone, dall’arcivescovo di Catanzaro mons. Antonio Cantisani, presidente della Conferenza episcopale calabra e già presidente della commissione episcopale per gli immigranti, dai superiori e da altri amici e conoscenti.

La salma è stata portata nel cimitero di Montes-Bolentina in Val di Sole, nella tomba dei sacerdoti dove c’è anche uno zio, don Bonaventura, fratello della mamma, e la mamma stessa. Egli, che l’ha goduta per soli 22 mesi, ora le può stare accanto fino alla risurrezione dei morti.

L’eredità che p. Marino ci lascia è il suo amore alla missione, la sua fedeltà alla Chiesa, la sua dedizione ai poveri. Davvero Cristo gli avrà detto: “Vieni servo buono e fedele: avevo fame e mi hai dato da mangiare, avevo sete e mi hai dato da bere, ero prigioniero e mi hai visitato... Entra nel gaudio del tuo Signore”.      P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 201, ottobre 1998, pp. 56-61

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Fr. Marino's family was given crosses right from the start. His father Igino, having studied with the Salesians in Trento, married and became Administrative Secretary of the hospital at Nomi, in the Province of Trent. It was here that the future missionary was born, but his mother, Maria Marinolli, died in 1928 when she caught typhoid fever from her 22-month old son.

His father latr married Pia Schmidt, who gave Marino a sister, Virginia, to whom he was devoted all his life.

The family was and is, devout. A brother and a cousin of Marino's mother were priests, and a nephew is a missionary priest.

He himself was a bright and active child, and attended the parish Sunday school as well as being an altar boy. Since the family was relatively well-off, he could also share some of his pocket money with his poorer friends.

He entered the diocesan seminary at the end of primary school, and was noted for his readiness to help with the children in the parish during his holidays. His sister relates that he even organised Summer camps, and showed great aptitude and powers of organization. Among other things, he became proficient in German while in the seminary of Trento.

Missionary vocation

Towards the end of Sixth form, he heard a talk that Bishop Orler, a Comboni Missionarya from Trento, came to give to the seminarians. Suddenly, the wide horizons of Africa were opened to him! After some reflection, he realised that his vocation lay there. He asked the Bishop's permission to join the missionaries, and it was granted.

Marino went off with some of his companions. It was 1947, and the Rector wrote of him (27 May): "Since he decided to become a missionary, he has worked even harder, with very good results. He is pious and quite intelligent. A bit shy and withdrawn in character, but quite determined. His conduct is excellent. He needs firm guidance, though with a gentle touch, and will do very well... Trento does not send left-overs; it is only right to give the best fruits to God."

His father also consented willingly, declaring that the family could manage, and gave him freely to the Lord according to the rules governing admission to the Institute. The explicit declaration of the letter was due to some opposition in the family, since Marino was an only son.

Naturally, Marino himself wrote a serious and well-considered application to be admitted to the Sons of the Sacred Heart. It shows both his awareness of the solemnity of this decision that was to change the direction of his life, and the intense desire to joing the missionary family, "all dedicated to the salvation of Africa".

A humble novice

Since he entered the Novitiate at Gozzano on 18 August 1947, he was one of the pioneers in that foundation, where Fr. Giovanni Giordani was Novice Master. His good will an determination were immediately noted, and also his austerity: he asked to do more than what was in the usual novitiate programme. Fr. Master added a note: "He must learn to moderate some of his generous impulses!" During the second year of Novitiate he began to study Theology, and applied his best efforts to this.

Another characteristic that needed guidance was his humility. Fr. Giordani noted that it was a bit exaggerated, and might lead the novice to pessimism and discouragement. In fact, the application to be admitted to First Vows betrays certain expressions of abject humility that might have caused some eyebrows to be raised. Fr. Giordani added a footnote:

"I add my positive opinion to the above. I am sure that the once concerned can do well".

To Africa via the USA

Following his Profession on 9th September 1949, he went to Rebbio for his second year of Theology, but was sent almost immediately to Venegono. In 1950 he was destined to the Scholasticate at Cincinnati, USA; so he learned English along with Theology.

He left for America in the August, and in the November his father died. It was a double sorrow as he neared the priesthood: the loss of his father, and the fact that he was far away from home when it happened.

He was ordained on 7 June 1952. The following month he paid a flying visit home, to celebrate a Solemn Mass in his parish and take his leave of the remaining relatives and friends. Then he set off for Khartoum, which was his first missionary destination.

In Sudan he became a teacher in Comboni College. He worked hard and with great diligence, and in the following year had become schools supervisor for the area of Khartoum and El Obeid. He held this office for four years (1953-57).

He then taught for two years (1957-59) at Port Sudan, before returning to his former post as supervisor (with some teaching duties) in Khartoum. This time he kept the job for almost a dozen years (1959-1980). One thing that can be said about these years of hard work and responsibility: they were not particularly rich in the satisfactions of pastoral work!

In some ways he was resigned. He himself said that, as the son of a good hospital administrator, he might have expected to fall into the same kind of job. In fact, for nearly all his years in Sudan he was administrator and secretary responsible for schools.

He held another very important post for many years: that of spokesman for the Church in its relations with the Government. It was a very delicate task, considering the way things were, and still are, between the Church and the ruling authorities in a country where the regime in Islamic and fundamentalist.

At the service of everyone.

Fr. Antonini, a Provincial in Sudan, writes:

"I met Fr. Marino in 1966. He had been in Sudan since 1952. His missionary apprenticeship had been served teaching in the Comboni schools and as curate in the parishes of El Obeid, Port Sudan and Khartoum. So he learned Arabic as he went along.

Among his tasks was that of preparing all the papers for Entry Permits, Residence Permits and Work Permits for the men and women missionaries. He also became the Bursar of Comboni College, where he undertook a number of improvements in the school buildings and in the staff quarters. Under his administration, school fees were reduced to a minimum: he just ensured that the accounts remained in the black: enough to give it independence and enable him to help poor but deserving students. A spirit of poverty, of indifference to money and of love of the poor that is truly praiseworthy.

He taught commerce and literature, and added Physical Education himself. One day, while working with the circular saw to make some gymnasium equipment, he lost part of three fingers of his right hand. He had become distracted, listening to the visit of Cardinal Montini to Khartoum on his way back from Kariba, where the Archdiocese of Milan had "Fidei Donum" priets. While the injuries healed, he began to learn to write with his left hand, and became very proficient".

Tactful banker

Fr. Antonini continues: "Young men would come from South Sudan to seek work in Khartoum so as to earn some money towards their marriage. They found in Fr. Marino a banker they could trust. They would entrust all their savings to him, and withdraw them only when about to return home to their native villages. It cost Fr. Marino many hours of extra work, always during the hot afternoons. But he did it with his usual calm, thoroughness and honestly.

His proficiency in the language and his knowledge of local culture helped him in his dealings with the government. It was a time of constant threat of expulsion for foreign personnel, and of curbs on entry and work permits for new arrivals. And all the time the "Muslim Brothers" were agitating for the schools to become Moslem, and for all education to be Arab and Islamic.

Fr. Perghem worked with great ability, patience and enormous tact, with such success that the reduction of personnel in the North was due more to the plans of the Institute than to those of the government.

Travel arrangements, supplies, equipment, medicines, books, copy books, emergency trips to the aiport at any time of the day or night to deal with some impossible muddle or red tape... these were all part of his daily existence, and filled up all his time. Everybody turned to him: priests, sisters, seminarians, people passing through Khartoum; and he never turned anyone away.".

The Lord, first and foremost

In such a turmoil of activity, one might wonder whether he found any time for the Lord - to pray, to meditate. He did! Here are some comments of his superiors:

"He has a gift for teaching, but also for ministry and material activities. He observed the rules scrupulously, and never misses community prayers. He is first into the chapel and last out. If he has a defect, it might be to be too easily persudaded to be generous to others, though his spirit of charity leads him to this.

When someone told him he was a bit too generous towards the poor, he answered: . He never criticises others himself; rather than make a negative comment, he keeps silent.

Confreres tell him he does too much, especially in the climate of Khartoum, and that he should avoid unnecessary effort. He is too precise and exact in everything, and even scrupulous in the celebration of Mass and praying the Divine Office. He is a very good religious, the lads in the school like him, and so do his confreres and the people. Who could do otherwise?" (Fr. Spolaore).

In 1980, after 28 years in Comboni's own city, he was recalled to Italy, to work in the Central Office for Immigrants of the Bishops' Conference, in Rome. He found himself involved with a flood of people fleeing from injustice, persecution, hunger. He did all he could for as long as he could, the quietly stepped aside to get ready for the final encounter with the Lord that he had met, loved and served in thousands of poor people, as a missionary.

15 years for the refugees

His fifteen years in Rome (1981-1996) deserve a better mention. First he was vice-director of the Central Office, as mentionted above; then worked in the refugee section of Migrantes, a new structure set up by the Church to serve immigrants. Fr. Marino started it going and organized, with his usual quiet, methodical work, always trying to please everybody, always shying away from thanks and expressions of recognition.

Many of those who participated at his Requiem Mass had something to say about the characteristics of his work in Rome. The testimonies have been collected in a cyclostyled booklet, and are too many to be quoted.