In Pace Christi

Gasparotto Giuseppe

Gasparotto Giuseppe
Date of birth : 24/03/1909
Place of birth : Fara Vicentina VI/I
Temporary Vows : 29/06/1931
Perpetual Vows : 07/03/1934
Date of ordination : 31/03/1934
Date of death : 06/03/1991
Place of death : Ciudad de México/MEX

La prima lettera che si trova nella cartella personale di p. Giuseppe Gasparotto reca la data 24 aprile 1925, ma dal contesto si capisce che le discussioni e le lotte, come dirà più avanti il nipote p. Pietro Gasparotto, erano iniziate molto tempo prima. Questo scritto, dunque, rappresenta solo un punto di arrivo. E' scritta dal Rettore del seminario di Vicenza. Eccola:

"Rev.mo Padre, accompagno con questa lettera l'alunno nostro Gasparotto Giuseppe di terza liceo, che sta per entrare nel loro noviziato.

Circa la pietà, studio, disciplina dell'Aspirante, avemmo sempre motivo di lodarci così da presagire molto bene su di lui e come sacerdote, e come missionario.

Solo quest'anno si mostrò un po' fiacco nel compimento dell'ordinario dovere e sembrò poco prudente quando si trattò di porre in esecuzione il suo desiderio di entrare presso il seminario delle Missioni. Ma ciò può spiegarsi per le difficoltà incontrate. Ho buona fiducia che si troverà bene e riuscirà un santo missionario...".

Aveva interpretato bene mons. Scaleo, rettore, la situazione. Giuseppe era reduce da una lotta accanita con i genitori: papà Francesco Giuseppe e mamma Maria Simonato, che avevano contratto dei debiti per far studiare quel figlio ed ora, quasi alle soglie del sacerdozio, tirava fuori la storia di farsi missionario. Come è facile immaginare, per quel tempo un figlio sacerdote rappresentava un investimento per la famiglia e assicurava un avvenire dignitoso ai vecchi genitori (allora non esistevano le pensioni).

Come se ciò non bastasse, ci si mise di mezzo anche il vescovo che aveva visto assottigliarsi il seminario degli elementi migliori, tutti partiti per le missioni.

Ma ascoltiamo il nipote, p. Pietro Gasparotto:

"La Provvidenza non mi ha mai permesso di convivere lungamente con lo zio p. Giuseppe. Quando celebrò la prima messa avevo 5 anni e non ricordo quasi niente; giocavamo con i santini-ricordo rimasti in un cassetto. Lo conobbi di persona al suo ritorno dall'Africa dopo la guerra (1948). Durante la sua lunga permanenza in Italia (1960-72), io sono stato sempre lontano (Carraia, Spagna, Messico). Siamo stati relativamente vicini negli ultimi 20 anni della sua vita terrena, a Messico. Però in realtà lontani, sia perché vivevamo in due case distanti 30 km. in questa caotica città di venti milioni di abitanti; e soprattutto perché dedicati a due lavori totalmente differenti.

Ciò che permette di comunicare e conoscersi bene è fare lo stesso lavoro, fianco a fianco, per molto tempo... Tra me e lui c'era invece solo un contatto di mezz'ora, a tavola, ogni 10/15 giorni, con una chiacchieratina mentre fumava una sigaretta. Incontri brevi e piuttosto superficiali. Dico tutto questo perché in realtà, e nonostante le apparenze, io sono forse il meno indicato a scrivere su di lui. I suoi compagni di missione sanno molto di più sulle sue virtù e difetti".

Il necrologista, a questo punto, vorrebbe aggiungere che se aspettasse le testimonianze dei compagni di lavoro di un confratello per scrivere qualcosa, avrebbe ben poco da dire. Anche per i religiosi, e forse più che per i laici, vale il proverbio: "Chi muore giace e che vive si dà pace". Ciò non è fraterno.

Prosegue p. Pietro: "Dai pochi accenni sentiti in famiglia, ricordo che alla sua decisione di partire per le missioni ci fu una tragedia da parte di suo papà; ed anche in seminario il vescovo mons. Rodolfi, spaventato perché ogni anno vari seminaristi partivano per le missioni (partivano generalmente i migliori, i più coraggiosi e i più generosi), gli rese la vita difficile. Chi lo aiutò, pagando i debiti del seminario, fu lo zio don Bortolo. P. Giuseppe ricordava ancora con gratitudine questo appoggio dello zio pochi giorni prima di morire. Del tempo di seminario restarono nella sua vita varie amicizie, la più bella delle quali è, per quanto posso sapere, quella con mons. Carlo Fanton, vescovo ausiliare di Vicenza, con il quale teneva e riceveva corrispondenza varie volte all'anno, con un affetto e gentilezza squisiti.

Anche il card. Baggio era suo amico: venne un anno in Messico con mons. Fanton e fece visita a p. Giuseppe a Moctezuma, con grande stupore del delegato apostolico, il quale da quella volta pose p. Gasparotto nella lista delle personalità degne di invito speciale in avvenimenti diplomatici importanti".

Tra i Comboniani

Il 25 aprile 1929 Giuseppe Gasparotto entrò nel noviziato di Venegono Superiore portando con sé, oltre ai soliti documenti, una dichiarazione dell'economo del seminario di Vicenza nella quale è detto: "Il sottoscritto dichiara che il giovane Gasparotto Giuseppe ha soddisfatto tutte le sue pendenze verso l'Amministrazione di questo seminario" e una dichiarazione del medico, dottor Luigi Ciriache, che garantiva sulla "sanità fisica, psichica e mentale di Giuseppe e di tutti i suoi ascendenti da ambo i rami".

Giuseppe fece la vestizione il 29 giugno 1929 e la professione esattamente due anni dopo, il 29 giugno 1931. Non esistono documenti riguardanti il periodo del noviziato. Non c'è neppure la domanda dei Voti. Esiste la formula dei voti dalla quale si deduce che fece i Voti nelle mani del Generale p. Paolo Meroni, prese come secondo nome quello di Gabriele e che superiore era p. Bombieri.

Emessi i Voti, il neo-professo fu inviato a Brescia come assistente dei ragazzi. Vi rimase dal 1931 al 1934, anno della sua ordinazione sacerdotale avvenuta a Verona il 31 marzo. Pure a Verona aveva emesso i Voti perpetui il 7 marzo 1934 usufruendo di una speciale dispensa della Santa Sede di mesi quattro e giorni cinque per il completamento del tempo stabilito dal Diritto Canonico.

Un fatto che ha del disumano

Le "carte" non dicono  dove p. Gasparotto abbia trascorso i due anni che vanno dal 1934 al 1936, anno della sua partenza per l'Africa ma, da un episodio che ha del disumano, possiamo pensare che sia stato destinato a Padova. Deduciamo questo da quanto il Padre raccontò a un confratello al quale aprì il proprio cuore per avere un po' di conforto. Riportiamo l'episodio:

"Ero giovane sacerdote e mi trovavo a Padova come assistente dei ragazzi. Un brutto giorno mi giunse un telegramma nel quale mi si diceva che la mia mamma era morente e invocava continuamente il figlio sacerdote. Chiesi al superiore, p. Uberti, di fare una scappata a casa, visto che da Padova al mio paese la strada non è poi tanto lunga. Questi mi disse che non era necessario e non mi diede il permesso di partire. Qualche giorno dopo, arrivò un altro telegramma nel quale mi si diceva che mamma era morta. Solo allora il superiore mi lasciò partire per il funerale...". Sappiamo che il Padre si è portato in cuore l'amarezza di questo fatto per tutta la vita.

La lunga stagione africana

Nel dicembre del 1936 troviamo il Padre nel Bahr el Ghazal, Sudan meridionale. Sua prima destinazione fu la missione di Kuajok ('36-'40) come coadiutore, poi Mbili ('40-'41) come superiore, quindi nuovamente Kuajok ('41-'48) come superiore.

Furono dodici anni di intensissima attività, di vita dura, di sacrifici e di attacchi di febbre nera normalmente mortali.

Dal maggio del 1948 al febbraio del 1949 fu in Italia in vacanza per rimettersi in salute. Come sua dimora preferì Brescia dove si era trovato bene e aveva tanti amici.

Dal 1949 al 1959 fece altri dieci anni di missione, sempre nel Bahr el Ghazal, passando da Thiet ('49-'52), Rumbek ('53-56), Warap e Nyamlell ('56-'59) sempre con l'incarico di superiore.

Chi volesse ripercorrere il calvario di queste missioni, perché di autentico calvario si tratta, invitiamo i lettori a leggere la biografia di p. Antonio Vignato scritta dal Fusero, oppure le note storiche sulle missioni del Bahr el Ghazal dello stesso p. Vignato. Si trovano sul numero 33 del Bollettino della Congregazione a pagina 1233.

Un particolare interessante: tra i ragazzi di missione di p. Gasparotto ci fu mons. Ireneo Dud, primo vescovo autoctono del Sudan.

Le missioni di Rumbek, Kuajok e Thiet devono a p. Gasparotto l'esistenza e un grande sviluppo sempre, naturalmente, in collaborazione con altri confratelli, padri e fratelli che in quelle zone inospitali e malariche sul "Fiume delle Gazzelle" compirono atti di autentico eroismo. E' davvero un peccato che questa pagina di storia della nostra Congregazione sia così poco conosciuta, non perché non sia scritta, ma perché non è letta e meditata.

Una vita tanto dura, qualche volta era allietata da qualche fatterello che serviva a tagliar l'aria e a renderla più respirabile. Fra i tanti, raccontiamo un episodio che molti confratelli conoscono.

P. Capovilla, fece la visita alle missioni del Sudan meridionale a nome del p. Generale. Stando all'interno della missione, vide passare per la strada la gente vestita così come Dio l'aveva fatta. Cosa normalissima per quel tempo e alla quale i missionari non badavano. Ma il nuovo venuto rimase profondamente turbato e disse che bisognava fare una staccionata attorno alla missione in modo che non si potesse vedere chi passava per la strada.

"Padre - gli risposero - per fare la staccionata occorrono soldi e noi non ne abbiamo. Lei, inoltre, ci ha detto che neppure la Congregazione è in grado di aiutarci per le opere che dobbiamo ancora costruire".

"E' vero, non ci sono soldi, ma per quest'opera bisogna trovarli". E appena giunto in Italia mandò giù l'equivalente di 15 sterline per la staccionata.

I Missionari fecero consulto e poi decisero di spenderle tutte in birra per quando tornavano stanchi dalle visite ai villaggi, sicuri che ciò avrebbe contribuito più efficacemente a tenere lontane le tentazioni. Quanto alla staccionata, tanto per non venir meno all'obbedienza, piantarono qua e là alcune canne di bambù.

In generale diciamo che p. Gasparotto, oltre che uomo di governo, un governo saggio, prudente, attento alle possibilità dei confratelli e uomo di un'immensa attività, si mostrò sempre "l'uomo di Dio", "l'uomo della preghiera", "l'uomo che non giudicava perduto il tempo trascorso dialogando con la gente".

Dal 1959 al 1960 fu nuovamente in vacanza, questa volta a Pesaro e a Bologna per cercare di mettere al silenzio le terribili coliche biliari che avevano cominciato a torturarlo in Africa rendendogli la vita impossibile. In Italia subì un'operazione che finalmente mise requie ai suoi periodici attacchi.

Intanto in Sudan erano successe cose grosse, e altre più grosse, anzi tragiche, erano alla porta. Dopo sommosse e battaglie che opponevano il Sud del Paese (abitato da Neri) al Nord (abitato da Arabi), e tra i due non corse mai buon sangue, il primo gennaio 1956 il Sudan ottenne l'indipendenza liberandosi dal condominio angolo-egiziano.

Per i missionari cominciarono le restrizioni che si trasformarono in vera e propria persecuzione che sfociò nell'espulsione in massa del 1964.

Dal momento dell'indipendenza, le porte per l'ingresso dei missionari in Sudan rimasero ermeticamente chiuse. E anche p. Gasparotto dovette rassegnarsi a dire addio per sempre alle sue missioni.

I giudizi che i superiori diedero del p. Gasparotto durante la sua vita africana possono essere riassunti in queste parole: "E' un buon missionario con buone qualità organizzative e non si risparmia in sacrifici. E' tenuto in molta stima dal Vicario apostolico".

Formatore a Thiene

Nella casa di Thiene, dove venivano preparati i giovani che sarebbero diventati fratelli, occorreva un formatore che fosse anche superiore. Il p. generale pose gli occhi su p. Gasparotto che aveva sempre dimostrato equilibrio e amore per i confratelli, insieme a notevoli capacità di governo.

Il Padre, che intanto si era rimesso in salute, si trasferì a Thiene e vi rimase dal 1960 al 1968. La sede dei missionari era in uno stato fatiscente, tanto che più d'uno suggeriva di lasciare tutto e cambiare zona.

Scrive il nipote p. Pietro: "Durante la sua permanenza a Thiene come superiore ricordo che ebbe molto da lavorare perché invece di vendere la casa, come suggeriva qualcuno, decise coraggiosamente di rifarla nuova per fuori e per dentro. Ricordo l'entusiasmo con cui si mise a fare giornate missionarie per far fronte a questa impresa molto impegnativa per tempo e denaro.

Intanto la casa cambiò finalità. Anziché preparare i futuri 'fratelli', che confluirono a Pordenone, divenne un piccolo seminario missionario per sacerdoti.

P. Gasparotto ebbe molto da soffrire per le differenti opinioni sui metodi educativi, con tensioni molto forti tra gli stessi collaboratori della casa. Stando io molto lontano, non ho mai potuto sapere dettagli su queste circostanze; e men che meno dal p. Giuseppe, che perdonò e non ne parlò più con nessuno".

Da una lettera che il Padre scrisse al Generale in data 14 ottobre 1964, possiamo capire alcune di queste difficoltà. Sentiamone qualche brano:

"Mi dà l'impressione che se il seminario di Thiene fu male impostato l'anno scorso, come lei disse, quest'anno è impostato peggio ancora. I padri fissi su cui si possa fare affidamento per i seminaristi sono solo due: p. De Berti e p. Minurri. E' vero che il Provinciale ha mandato altri due padri (Zanotelli e Pegoraro), ma sono in attesa di partire per la missione. Anche p. Chesini, che era l'unico che sapeva musica, ora parte per Roma. Con personale occasionale credo impossibile poter formare dei seminaristi. E i seminaristi sono più di cento che vanno divisi almeno in tre gruppi se si vuole controllarli ed educarli. Non si tratta di tenere solo la disciplina in qualche maniera, ma di formare e di conoscere i singoli. In queste condizioni come si fa a fare un lavoro serio? Gli assistenti teologi non ci sono più perché così è stato stabilito, ma da chi vengono sostituiti? Se lei pensa che ciò dipenda da mia incapacità, da parte mia non ho nessuna difficoltà a far fagotto così avrò più tempo per dedicarmi alla mia formazione che a quella degli altri...". Il generale, p. Briani, rispose che facesse il possibile per cavarsela con i due padri perché di altro personale, per il momento non ce n'era. E poi si giustificava a proposito della mancanza degli assistenti teologi invocando il Capitolo generale che così aveva stabilito. E concludeva: "Bisogna pure che ascoltiamo quanto ci viene suggerito".

A questo punto riportiamo la testimonianza di fr. Aldo Benetti che fu suddito del Padre proprio in quel periodo:

"Sono stato a Thiene con p. Gasparotto dal 1964 al 1968. Lo ricordo come un uomo semplice e buono, anche se non sempre sapeva trattare con i ragazzi. Ciò, forse, era una conseguenza dei lunghi anni trascorsi in Africa con gente di altra mentalità. Fu costretto dall'obbedienza a sostenere un peso superiore alle sue spalle, dati i nuovi "venti" che soffiavano in quel periodo. C'era il problema della ricostruzione della casa, c'erano, soprattutto, idee nuove che venivano avanti e alle quali egli non era preparato perché era venuto a trovarsi sullo spartiacque di due mondi: quello nel quale egli era stato formato e quello che si prospettava per l'avvenire.

Ho visto più volte p. Gasparotto nella situazione del pulcino tra la stoppa. Non sapeva che santi invocare, né da quale parte mettersi, per cui alle volte prese delle decisioni che risultarono una sofferenza per lui e per gli altri. E' stato forse anche incompreso e poco aiutato. Questo spiega la 'fuga' che un giorno fece verso le nostre case del meridione dove gli sembrava che l'ondata di innovazione che c'era al Nord non fosse ancora arrivata. I superiori sarebbero stati costretti a intervenire per calmare le acque e mettere le cose a posto".

L'aria funesta del "68"

A questo punto bisogna dire un paio di cose: la crisi che c'era nell'aria non era tanto nei sudditi, quanto piuttosto nei superiori che non davano direttive univoche. Il Generale la pensava in un modo, il provinciale in un altro e chi aveva a che fare direttamente con le persone, cioè i superiori locali, non sapevano come comportarsi. Inoltre non fu certo un gesto di chiaroveggenza da parte dei superiori maggiori mettere come superiori delle case d'Italia, dove il Concilio faceva sentire le sue innovazioni il più delle volte male interpretate, dei missionari - pur degnissimi - ma che avevano vissuto per troppo tempo fuori dal contesto italiano. Non è detto che uno, bravissimo in Sudan, lo fosse altrettanto in Italia. Quanto alla "fuga", ricordiamo che p. Gasparotto non fu l'unico. Il p. maestro di Gozzano, per esempio, nel 1969 fece altrettanto, e con piena ragione. Insomma, l'aria del '68 causò parecchie polmoniti in giro.

Ad aggravare la situazione per p. Gasparotto ci fu anche un fatto che oggi farebbe sorridere, ma che allora attirò le ire sulla testa del povero Padre. Un venditore di saponette, fu così convincente che indusse il Padre a comperare una tale quantità di sapone che occorsero molti anni per dar fondo alla scorta. Con l'inflazione che poi cominciò a galoppare questa colossale compera si è rivelata un affare, ma allora non fu giudicata tale.

Prosegue fr. Benetti: "Ricordo p. Gasparotto sempre contento, sorridente, comprensivo, generoso, di buona compagnia e con profondo senso di umorismo. A questo proposito ricordo un fatto. Quando tornava dalle giornate missionarie diceva a noi che lo aiutavamo a contare i soldi: 'Se trovate qualche pezzo da 50.000 vi pago da bere'. Saremmo morti tutti di sete", conclude fr. Benetti. Poi prosegue: "Egli aveva alcuni amici parroci, suoi compagni di seminario, che gli davano la giornata missionaria in cambio del ministero domenicale o in occasione di feste particolari. Egli non si tirava mai indietro perché era contento della sua vocazione sacerdotale-missionaria, sempre sereno e riconoscente con chi si dimostrava disponibile a far qualcosa per le missioni".

La breve esperienza brasiliana

Lasciata Thiene come un fuggiasco, p. Gasparotto, avvilito ma non scoraggiato, approdò a Napoli dove si dedicò al ministero tra la gente. Quello di Napoli è un popolo cordiale, aperto all'amicizia, sincero. Se uno si sforza di dare un po' di comprensione e di simpatia, viene sicuramente ricambiato al centuplo. Per cui il Padre trascorse tre mesi veramente sereni.

Ma intanto i superiori disegnavano qualche altro progetto su di lui. A Thiene si era mostrato un genio quanto a rifacimento della casa. Perché non poteva fare lo stesso mestiere in Brasile dove, appunto, c'era bisogno di uno che si dedicasse alle costruzioni? Il primo gennaio 1969 partì per Mangabeira per passare, dopo alcuni mesi, a Balsas dove rimase fino alla fine del 1970.

Ce la mise tutta, ma faceva un po' di fatica quanto alla lingua e alla mentalità brasiliana per cui, appena terminati i suoi impegni, tornò nuovamente a Napoli. Vi rimase fino al 1972, data della sua partenza per il Messico.

Messico

Scrive  p. Pietro Gasparotto: "Quello che a me parve molto bello ed eroico fu che appena terminato il suo servizio italiano, ebbe il coraggio non comune, a 62 anni suonati, di mettersi a disposizione dei superiori e partire per una missione nuova, affrontando una nuova lingua e una nuova cultura. Venne a Messico, dove risulta che il Signore benedisse molto il suo lavoro. Ebbe la gioia di sentirsi prete effettivo ed attivo fino agli ultimi giorni della sua vita, nella Cappella-succursale dei Martiri di Uganda, in un popolosissimo quartiere di classe piuttosto bassa. Pur parlando con fatica lo spagnolo, ebbe moltissimo lavoro: celebrazioni, predicazioni, catechismo, confessioni, con uno zelo e una puntualità ammirabili. Anche qui qualcuno lo criticava perché si dedicava troppo alla sacramentalizzazione e meno alla evangelizzazione. Queste critiche lo ferivano nelle sue convinzioni più profonde di missionario che aveva sempre evangelizzato amministrando bene i sacramenti. Comunque è mia ferma convinzione che i 20 anni passati in Messico sono stati pieni di amore ai fedeli, di lavoro assiduo e di autentica allegria per sentirsi apprezzato e amato dalla gente. Il popolo ha occhio e capisce presto chi è veramente a loro disposizione e vuole loro veramente bene".

Gli infermi

Mentre lavorava nella Cappella dei Martiri di Uganda, maturò una nuova attività alla quale il p. Giuseppe si donò con piena coscienza e generosità: l'assistenza agli infermi del quartiere e di alcuni ospedali vicini. Al primo venerdì ne passava da 50 a 100, su e giù per le scale, e cercando di fare un vero bene non solo al malato ma anche ai familiari. Era convinto che faceva un grande ministero, molto benefico alle anime e molto benedetto dal Signore. In questo assomigliava del tutto a mons. Bortolo che a Sandrigo e a Montecchio Maggiore faceva puntualmente la sua visita all'Ospedale tutti i giorni; e lo seppe imitare molto bene anche nella perenne e puntuale assiduità al confessionale, fino agli ultimi giorni della vita.

La gente del quartiere di Moctezuma finì per conoscerlo ed apprezzarlo profondamente. Lo si vide nei tre mesi di malattia: uomini e donne si offrirono a gara per assisterlo giorno e notte... e la notte della morte fu vegliato nella cappella con orazioni e canti. Non c'è dubbio che la gente semplice gli voleva bene e aveva visto in lui un uomo di Dio.

Preghiera

Scrive p. Pietro Gasparotto: "Ho sempre ammirato in mio zio il suo austero orario "sudanese": alzata alle 4 del mattino, dedicando alla preghiera (breviario, meditazione, rosario, adorazione) tutto il tempo disponibile fino all'arrivo dei fedeli. Nell'ultimo mese di vita, all'ospedale, cercava ancora di recitare alla mattina i salmi del breviario e durante il giorno diceva parecchi rosari. Faceva tutto il possibile per non lasciare mai la santa Messa neanche nei giorni feriali. Non si dava le arie da beato, ma in realtà pregava molto e insegnava a pregare ai suoi malati e a quanti lo avvicinavano al confessionale.

Era uomo di pace; non gli piaceva piantar beghe; preferiva tacere, facendo capire molto bene il suo disaccordo. Era abitualmente silenzioso; ciò gli permetteva di ascoltare molto gli altri che gli parlavano. Alla fine dava il suo parere, con molta semplicità, rettitudine e buon senso. Il fatto che non sgridasse mai nessuno permise che la gente gli si avvicinasse con molta confidenza, nonostante l'aspetto abitualmente serio e austero. Non era un intellettuale, né mai volle esserlo, ma mi consta la sua diligente preparazione del sermone domenicale con letture appropriate, sia per avere idee, sia per arricchire il suo vocabolario spagnolo.

Conservò sempre un vivo desiderio di fare qualche passeggiata nei boschi della Vallata di Messico, lontano dal terribile smog che intossica la capitale. Furono momenti abbastanza rari ma profondamenti goduti insieme, terminando con trote fresche pescate dall'espertissimo p. Pendin. Prendeva abitualmente un po' di vino e molte sigarette. Con mio stupore, quando il medico gli proibì tutto questo, obbedì come un bambino e non fece per tre mesi nessun piagnisteo. Anche da questo ho visto che sapeva accettare serenamente la sua croce senza farla pesare su nessuno".

La volontà di Dio, soprattutto

Prosegue il nipote p. Pietro: "A proposito di voci di un mio eventuale trasferimento, mi ripeté più volte una regola che era abituale per lui: mai chiedere un trasferimento, ma se i superiori lo propongono per il bene delle missioni, mai rifiutarlo. Questa era per lui la maniera più sicura di fare la volontà di Dio pur fra le incertezze di questo mondo.

La Provvidenza ha disposto che io non potessi essere presente al momento supremo del suo incontro col Signore. Gravi ritardi del governo cubano nel dare i permessi per un corso universitario al seminario nazionale di Cuba, mi obbligarono a partire proprio quando lo zio cominciava a peggiorare. Partii certo che aveva tutta l'assistenza che si potesse desiderare sia dai confratelli della casa, come dai medici amici, sia da due bravissime infermiere che l'assistevano giorno e notte come se fosse stato il loro papà. Però restai sempre con una spina e un'angoscia profonda, incerto se avevo fatto bene a partire o se non sarebbe stato meglio che fossi rimasto vicino a lui.

Questa pena terminò durante la settimana santa, mentre mi trovavo in una parrocchia di La Paz per aiutare nel ministero dopo il mio ritorno da Cuba. Feci un sogno (dico: "sogno" né più né meno) in cui vidi il p. Giuseppe molto bello e molto sorridente che entrava nella sala mentre con gli altri due padri stavo a tavola. Si inchinò verso di me e mi diede un bacio in fronte e disparve. Il sogno mi sembrò singolare, perché io non avevo mai chiesto al Signore che mi desse un segno che p. Giuseppe era contento di me; e d'altra parte non l'avevo mai visto baciarmi in quella maniera. Voi potete pensare quello che volete; io l'ho preso come un segno che il p. Giuseppe è vivo, contento e si preoccupa di portare la pace nei nostri poveri cuori. Preghiamo per lui e preghiamolo per noi; benedicendo il suo ricordo e cercando di imitarlo nell'amore a Cristo e al suo regno sopra ogni altra cosa".

Qualche mese prima della morte, p. Gasparotto cominciò ad accusare forti dolori alla pancia. Ricoverato all'ospedale, gli venne diagnosticato un tumore al fegato. Egli accettò la sua situazione con la serenità del servo fedele che, consapevole di aver fatto quanto aveva potuto per il Regno di Dio, sapeva che la sua giornata terrena stava per finire. Anche quella grave malattia fu letta da lui come una manifestazione della volontà di Dio "nulla chiedere, nulla rifiutare". E si dispose all'incontro col Signore nella preghiera e nell'offerta delle sue sofferenze. Dopo aver chiesto e ricevuto i sacramenti si spense edificando tutti coloro che gli erano accanto. Il suo corpo, dopo i solenni funerali che hanno visto un concorso straordinario di fedeli, riposa in terra messicana quale fermento di nuove vocazioni per la Chiesa e per la nostra Congregazione che ha amato e per la quale si è donato senza risparmio.                 P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 171, luglio 1991, pp. 69-77