In Pace Christi

Ferracin Egidio

Ferracin Egidio
Date of birth : 13/04/1937
Place of birth : Malo VI/I
Temporary Vows : 09/09/1957
Perpetual Vows : 09/09/1963
Date of ordination : 28/06/1964
Date of death : 04/08/1987
Place of death : Alenga/UG

Lasciate andare gli altri

È la mattina del 4 agosto 1987. Una splendida mattina ad Alenga, nel cuore dell'Uganda, se non fosse per quel fastidioso crepitare dei fuci­li mitragliatori che, di tanto in tanto, si fanno sentire or qua or là, ma ab­bastanza lontano dalla missione.

Più che i fucili, p. Cin-Cin temeva i ladri che in periodi di anarchia la fanno da padroni. E per di più pa­droni senza scrupoli e senza vergo­gna.

Tuttavia si era messo in viaggio, con un pezzo di pane secco in tasca e un po' di formaggio rancido (diceva che era più buono di quello normale; in realtà la missione non disponeva di meglio) avvolto in un fazzoletto, e con una gran carica di entusiasmo e di... paura. Raggiunse senza incidenti la scuola di Alwala, presso il traghet­to di Masindi, dove celebrò la santa messa, pregò a lungo con la gente poi, verso le 12 e 30 puntò su Kwui­bale e Akòkoro, per la strada che co­steggia il lago Kioga. Doveva vedere i catecumeni che si preparavano al battesimo ed avvisare la gente che la domenica seguente sarebbe andato a celebrare la santa messa. La strada era particolarmente pericolosa per­ché attraversava un tratto di bosco.

Ma a 5 chilometri da Kwuibale, si imbatté in un gruppo di ladri, che avevano sequestrato alcune persone, tra le quali tre ragazze. Dopo aver spogliato di tutto i malcapitati, i bri­ganti volevano portare con sé le ra­gazze.

Queste ultime, però, ingaggiarono una lotta furibonda con i manigoldi. P. Cin-Cin, vedendo come si metteva la situazione, s'intromise. Non con minacce, ma con parole che volevano essere persuasive, addirittura di ami­cizia, di comprensione e di supplica.

Niente da fare. Per tutta risposta, i banditi lo afferrarono violentemente, gli strinsero mani e piedi con una corda e lo trascinarono ad una qua­rantina di metri dalla strada, tra in­sulti e percosse.

Egli, di tanto in tanto, ripeteva: "Colpitemi pure. Tanto sapevo che sarebbe finita così, ma lasciate anda­re gli altri". E poi si raccomandava a Dio.

Quando gli assassini furono stanchi di seviziarlo, lo legarono ad un albe­ro e lo finirono con una scarica di mitra.

Il testimone che racconta queste cose è stato prigioniero degli assassi­ni per tre giorni e poi è riuscito a fug­gire. Egli assicura che il padre ha sopportato tutto con forza incredibi­le pregando continuamente il Signo­re ed offrendo il suo perdono ai car­nefici.

Logorante attesa

La distanza tra la missione di Alen­ga e quella di Alwala, dove p. Cin­-Cin aveva celebrato la messa, è di ap­pena 30 chilometri. I confratelli si aspettavano di vederlo rientrare per mezzogiorno. Quando non lo videro arrivare, non si preoccuparono, per­ché altre volte il padre aveva prolun­gato le sue assenze di un giorno o due, per il sopravvenire di qualche circostanza imprevista.

Il giorno dopo, tuttavia, p. Mario Balzarini, suo compagno di missione, cominciò a preoccuparsi. Cin-Cin era un uomo distratto, che dimenti­cava facilmente le cose, ma con i tempi che correvano non poteva la­sciar passare tante ore senza dare notizie di sé. Qualche cosa doveva essere successo!

Prese la sua moto e rifece lenta­mente tutta la strada che il padre aveva percorso, cercando di guarda­re bene a destra e a sinistra. Il meno che poteva succedere era di trovare la Cagiva di p. Cin-Cin rotta e lui ospite presso qualche famiglia. Chie­se alla gente che incontrava se lo avessero visto. Nessuna sapeva nien­te. Sembrava che il padre si fosse volatilizzato. Nel suo percorso p. Mario passò vicino al corpo del confratello, ma non lo vide perché era nascosto dai cespugli.

Giunto a casa, seppe che il padre aveva detto ad un maestro che, prima di far ritorno alla missione, sarebbe andato a Kigumba (70 chilometri più ad ovest), oltre il lago, sulla via di Kampala. Tutti si misero il cuore in pace.

Solo sabato 8 agosto, dopo quattro giorni, via radio, i missionari di Alen­ga seppero che p. Cin-Cin non era mai arrivato a Kigumba.

L'angoscia prese tutti. La notizia della scomparsa del padre intanto era corsa sulla bocca di tutti, e nessu­no sapeva dare una spiegazione. Per di più le razzie dei karimojong terro­rizzavano i villaggi, per cui la gente fuggiva portandosi dietro quel poco che poteva. Mettersi in strada in quella situazione era estremamente pericoloso.

La missione di Alenga, intanto, si andava riempiendo di profughi.

Come Cristo in croce

Martedì 11 agosto, diminuita la pressione dei razziatori, p. Francesco Rizza e p. Guido Cellana, venuto dalla missione di Aduku, insieme ad un gruppo di cristiani percorsero la strada che avrebbe dovuto fare p. Cin-Cin, cercando di scandagliare ogni cespuglio, ogni affossamento. Ormai, l'idea che il padre fosse mor­to era diventata comune, anche se un barlume di speranza di trovarlo vivo, forse malato o ferito, continuava a persistere, testardamente, più nel cuore che nel cervello dei missionari.

Ed ecco che nella foresta tra Alwa­la e Akòkoro, in un luogo completa­mente disabitato, trovano dei vetri. Si fermano. Con dei bastoni spostano l'erba che è alta... e vedono la moto senza fanali e senza batteria, ma an­che senza segni di cadute. Frugando qua e là, trovano sparpagliati ad arte, gli oggetti contenuti nell'altarino por­tatile. E finalmente trovano il corpo, adagiato sul fianco con le mani legate ad un tronco e le ginocchia piegate. Al vederlo dà l'idea di una persona in profonda preghiera, o di un Cristo che pende dalla croce.

Le cosce, al di sopra delle ginoc­chia sono trapassate da un legaccio e il torace e la schiena portano i segni di numerosi colpi di coltello e di spa­ri di fucile.

Alcuni presenti ricordano che do­menica 2 agosto, quasi presentisse la sua ora, p. Cin-Cin aveva detto nella missione di Awuilia durante la mes­sa: "Io non ho paura dei malfattori. Sono venuto a morire sul campo del mio lavoro".

La raccolta di quei resti fu partico­larmente pietosa, anche perché il ca­davere era stato lacerato da qualche animale del bosco.

Giunti in missione, i cristiani volle­ro che le ultime parole, quelle appe­na riportate, fossero scritte su di un cartellone e rimanessero bene espo­ste in chiesa.

"Io dico - afferma p. Mario Balzari­ni - che quello di p. Egidio Ferracin è un vero martirio in piena regola, pro­prio come per i cristiani della Chiesa primitiva. Gli assassini non hanno preso niente di importante, salvo un paio di fanalini e la batteria. Essi hanno voluto sacrificare una vittima innocente solo perché si opponeva ad una loro palese ingiustizia nei confronti di tre ragazze che rifiutava­no di essere violentate.

Dobbiamo pregare p. Egidio, il no­stro simpatico Cin-Cin? lo credo che ora è lui che sta pregando per noi e per questa povera Uganda tribolata".

Istinto di missione

Il 13 aprile 1937 Egidio venne al mondo a Malo in provincia di Vicen­za, quarto di otto figli (quattro ma­schi e quattro femmine). Papà Giu­seppe faceva il casaro, un mestiere che spesso lo portava lontano dalla famiglia in quanto serviva anche al­cune contrade sparse nel circonda­rio. Mamma Carolina Bille era casa­linga. Con le sue mani operose, face­va di tutto per mandare avanti la fa­miglia.

Il denominatore comune di casa Ferracin, come in quasi tutte le case del paese, era la fede vissuta median­te la preghiera quotidiana e la prati­ca dei Sacramenti. Alla tavola di mamma Carolina c'era sempre posto anche per qualche povero di passag­gio.

Egidio si dimostrò subito un ragaz­zino vivace, intelligente e sempre di­sponibile a combinarne qualcuna delle sue. Già da 16 anni nella vicina Thiene era stato fondato un semina­rio per preparare ragazzi e giovani desiderosi di darsi alla vita missiona­ria.

I missionari della casa di Thiene andavano, di tanto in tanto, anche a Malo e, com'è logico, parlavano di Africa e di moretti da battezzare.

Egidio ascoltava quei discorsi e già si immaginava di essere laggiù tra fiumi e foreste, tra deserti e paludi a predicare e a battezzare. E lo diceva chiaramente ai suoi compagni senza paura di essere chiamato "missiona­rio".

L'amicizia con i missionari conti­nuò anche quando la famiglia Ferra­cin si trasferì da Malo a Marano Vi­centino. Questo paese è molto più vi­cino a Thiene rispetto al precedente, per cui Egidio poté anche visitare il seminario in compagnia della mam­ma e del papà. E si convinceva che la sua futura strada sarebbe stata quella che finiva nel Continente Nero.

E finalmente fu accolto nel semina­rio missionario di Padova per fre­quentare la quinta elementare. Ave­va appena 10 anni.

Pane amaro

Lo studio non si addiceva ad un ra­gazzo vivace come lui. Le ore di scuola non passavano mai. Scrisse il suo assistente: "I libri stanno dinanzi ai suoi occhi come spettri paurosi e ciò gli ha tolto molto del suo entusia­smo. Tuttavia vuole diventare sacer­dote missionario. Il tempo schiarirà ogni nostro dubbio" (p. Antonio Bar­bieri).

In un alternarsi di entusiasmo e di sofferenza (per gli studi sempre più impegnativi) Egidio andava avanti. Ogni anno, a giugno, riportava la promozione anche se risicata, specie in italiano e matematica.

"A scuola è sufficiente - scriveva il superiore - ed è anche discretamente impegnato. Temperamento gioviale, anzi piuttosto inclinato alla leggerez­za e allo scherzo. Bisogna tenerlo d'occhio. In compenso è molto gene­roso e di grande spirito di sacrificio. Dice qualche parola volgare. Speria­mo bene!". Con questa nota Egidio terminò la terza media e si accingeva a passare a Brescia dove i Combonia­ni avevano (ed hanno) il seminario per la quarta e quinta ginnasio.

Già fin dall'inizio il cammino verso il sacerdozio per Egidio fu pane per­ché lo nutrì sostanziosamente, ma fu pane amaro perché gli costò molte sofferenze. Quante volte durante gli anni giovanili ripensò alle parole che, prima di lasciare la famiglia, aveva firmato. Esse dicevano: "Sento un vi­vo desiderio di consacrarmi al Signo­re per la conversione dei poveri infe­deli. Chiedo di mia spontanea volon­tà di essere accettato nel seminario dei missionari comboniani per pre­pararmi con la pietà e con lo studio a diventare sacerdote missionario" (25 ottobre 1948).

Tutti pensavano che quella firma ancora traballante fosse stata una pu­ra formalità; per Egidio invece aveva costituito un impegno con Dio e con se stesso al quale doveva restare fe­dele a costo di qualsiasi sacrificio. In quella promessa trovò la forza per superare i momenti di scoraggiamen­to.

Dio preferisce gli ultimi

Alla fine del ginnasio, Egidio era più che mai deciso a diventare mis­sionario, anche se i superiori conti­nuavano a nutrire su di lui qualche perplessità.

Preceduto da una strana "cartella" che riassumeva le sue virtù e i suoi difetti con una serie di aggettivi sul suo temperamento e carattere (volu­bile, innovatore, fantastico, attivo, un po' rozzo, troppo allegro, di sacrifi­cio, sincero, bonario, umile, compia­cente, generoso, spassoso), il 24 set­tembre 1955 faceva la sua entrata nella sede del noviziato comboniano di Firenze.

Inutile dire che Egidio ce la mise tutta per tradurre in pratica la lunga litania di ammonizioni che aveva col­lezionato. Ma... "Se il Signore mi ha fatto in certo modo - si giustificava ­io non so proprio cosa farci".

Nel settembre del 1956 passò a Gozzano. Nuovo ambiente, nuovo padre maestro... nuove delusioni.

"Non si è messo con troppo impe­gno nel lavoro spirituale. Solo ulti­mamente ha dato una speranza suffi­cientemente fondata di riuscita. Mi pare, però, che un fondo di buono ci sia. Quando riflette è tutto diverso dal solito".

Come si vede, tutti avevano da ridi­re, ma nessuno aveva il coraggio di dir gli chiaramente: "Non sei fatto per noi, tornatene a casa". La vocazione, Egidio, doveva conquistarsela passo dopo passo come uno scalatore che si sbuccia mani e ginocchia per rag­giungere la vetta. Forse Dio voleva dimostrare agli uomini, in questo ca­so agli educatori, che non sempre sceglie i migliori per i suoi piani. Del resto, se guardiamo chi erano gli Apostoli prima della chiamata (e an­che dopo) ne abbiamo un'ampia con­ferma. Il padre maestro l'ammise alla prima professione.

Avanti... con riserva

Col grosso crocifisso di missionario al collo, Egidio passò a Verona per gli studi liceali.

Scrive p. Novelli, suo compagno fin dai primi anni di seminario: "Cin-Cin ha tribolato molto per andare avanti. E, ad ogni rinnovazione dei Voti temporanei, aveva la spada di Damo­cle dell'espulsione che gli pendeva sulla testa. Era di un'allegria esube­rante. Attorno a lui si era sicuri che si formava sempre un gruppo perché, tra barzellette e battute di spirito, da­va un tono di ilarità alla giornata. Noi compagni ci auguravamo di andare in missione insieme a lui, quando sa­rebbe stato il tempo, così non avrem­mo sicuramente sofferto di malinco­nia. Era un tipo adatto a formare co­munità".

I superiori intanto annotavano: "Spassoso e parolaio. Sventato. Di­screto sforzo per essere più posato. Grande spirito di sacrificio". Fortu­natamente alla fine del liceo venne come superiore a Verona p. Gino Albrigo. Egli comprese di quale pasta fosse costituito il giovane aspirante al sacerdozio. E senza esitazioni scris­se: "Da ammettersi al rinnovamento dei Voti. La sua leggerezza è ampia­mente controbilanciata dalla sua ob­bedienza, dallo spirito di sacrificio e dalla bontà d'animo. Sarà uno che aiuterà i confratelli in crisi, specie in missione".

Ciò nonostante qualche altro scris­se all'esterno della cartella personale di Egidio con la matita blu: "Avanti, ma con riserva".

So che avete buona volontà

Sempre con il piede alzato, Egidio si trasferì a Venegono Superiore per gli studi teologici. All'ordinazione sa­cerdotale mancavano quattro anni.

Durante la teologia andava a fare catechismo in un paesetto vicino a Venegono. Partiva in bicicletta alla domenica subito dopo pranzo e tor­nava alla sera.

"Avessi un coadiutore come Egi­dio! - scriveva il parroco -. Con i ra­gazzi è un mago. Questi vi conquiste­rà tutta l'Africa in poco tempo".

Quattro anni passarono veloci. Il 9 settembre 1963 Egidio doveva emet­tere i Voti perpetui. Il superiore del­lo scolasticato teologico annotò: "Il Consiglio scolastico dei professori, dopo lunga discussione, nota che la sua fondamentale bontà non è rovi­nata dall'esuberanza del carattere un po' strano. Sono anch'io piuttosto fa­vorevole a farlo accedere al sacerdo­zio".

Il superiore provinciale, p. Longino Urbani, uomo di gran cuore che, piuttosto di perdere un missionario per l'Africa avrebbe preferito perde­re la testa, ma anche di grande re­sponsabilità, si sentì in dovere di scri­vergli una lettera personale.

Certo della buona volontà di Egi­dio, lo invitava con paterna sollecitu­dine, ad attendere con molta respon­sabilità al ministero sacerdotale per edificare le anime.

La lettera, ispirata da vero amore, e traboccante di affetto, fu il regalo più bello di p. Egidio per la sua ordina­zione sacerdotale che ricevette a Ve­rona il 28 giugno 1964. La montagna era stata ardua, ma egli era arrivato alla vetta.

Ricordo e profezia

Sull'immaginetta-ricordo della sua prima messa, p. Egidio ha riassunto il difficile cammino che lo ha portato al sacerdozio. Nello stesso tempo la fo­to e i testi hanno il sapore di una pro­fezia sulla sua morte.

Nell'immaginetta c'è il Cristo mor­to con il Volto reclinato sulla spalla. La didascalia è ricavata da Giovanni 19,42 "Consummatum est. Et inclina­to capite tradidit spiritum"... Chi ha trovato il corpo di p. Egidio nella sa­vana ha appunto detto: "Era nell'at­teggiamento di un Cristo in croce".

Nel retro dell'immaginetta p. Egi­dio non poteva che esprimere ciò che era stato, e che doveva essere, il filo conduttore della sua vita sacerdotale: la gioia e l'amore di Dio. "Felice rin­grazia con me Dio e prega che io sia fedele nel manifestare ogni giorno il suo amore per noi". E in basso, sem­pre rivolgendosi all'ipotetico deten­tore del ricordo, gli dice: "... anche te ho in cuore nella mia gioia, e t'offro con Gesù nella Messa".

Questo sarebbe stato il programma della sua vita sacerdotale: portare gli uomini a Dio, nella gioia.

E per ultimo, l'invocazione alla Madonna Immacolata per essere fe­dele al suo programma: "Sostienimi in altezze, Immacolata - per elevare molti".

Il resto per l'Africa

Dal settembre del 1964 al giugno del 1965 p. Egidio andò a Londra per impratichirsi nella lingua inglese. "Lo studio è sempre una brutta bestia ­scrisse - ma quando si studia in vista della missione che quasi la tocchi con la mano, tutto diventa più facile, anzi dolce" .

Nell'agosto del 1965 era ad Aboke in Uganda come coadiutore. Dokolo, Alenga, Alito, Amolotar, Minakulu e ancora Alenga furono le tappe del suo cammino sempre entusiasta, sempre improntato alla gioia più schietta.

P. Egidio fu testimone del passag­gio dell'Uganda da "paradiso terre­stre" a terra di violenza. Affrontò tut­te le vicende condividendo con la gente gioie e dolori. Particolarmente toccante è stato il suo apporto in fa­vore dei malati di lebbra di Alito. Cin-Cin amava questi malati e per lo­ro si prodigava.

Essi lo conoscevano e gli vole­vano bene. La gente dei villaggi lo sa­lutava quando passava, aspettando che egli tirasse fuori qualche parola simpatica o si fermasse per parlare, per... scherzare. Spesso gli girava in­torno sapendo che da lui ricevevano sempre qualcosa.

A curar ferite

Nell'ultima missione, quella di Alenga, p. Cin-Cin era tornato da pochi mesi. Questa missione era sta­ta riaperta dopo che il vescovo aveva tolto l'interdetto motivato da ruberie e disordini succeduti l'anno prece­dente.

I cristiani avevano sofferto molto per la dura prova. Chi aveva rubato aveva anche restituito, ma molti ani­mi erano ancora esacerbati.

P. Egidio fu mandato in questo campo difficile per portare un po' di serenità e di ottimismo. E vi stava riuscendo molto bene. "Qui ci sono tante ferite da curare. Occorre tem­po e pazienza; ma alla fine si aggiu­sterà tutto".

Alla fine, invece, p. Cin-Cin vi ha trovato il martirio. Egli che si defini­va il "tappabuchi", il "pezzo di ricam­bio", colui che per molti anni era sta­to considerato l'ultimo (ed egli era convinto di esserlo, senza umiltà pe­losa) è stato scelto per la testimo­nianza estrema. Ora la sua salma ri­posa nel cimitero di Lira, accanto a quella di p. Ambrosoli.

"E la tua morte - conclude p. Tocal­li - quella dell'agnello innocente sgozzato, è la stessa che tanti inno­centi hanno assaporato nel loro cor­po oltraggiato, nei villaggi o nelle pri­gioni, ad opera di tanti torturatori... perché tu hai saputo condividere fino allo spargimento del sangue... Non c'è amore più grande di chi dona la vita per i suoi amici... E chissà che putiferio di gioia hai scatenato lassù in paradiso, tra i Santi nella casa del Padre... Fa’ che l'eco della tua alle­gria arrivi fino a noi, sempre, ogni giorno".

I missionari d'Uganda hanno estre­mo bisogno di questo.                    P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 157, aprile 1988, pp.46-53

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“Colpitemi pure. Tanto sapevo che sarebbe finita così, ma lasciate andare gli altri”. E poi si raccomandava a Dio. Quando gli assassini furono stanchi di seviziarlo, lo legarono ad un albero e lo finirono con una scarica di mitra”.

È morto legato ad un albero, come Cristo in croce, agnello innocente!

4 agosto 1987: una splendida mattina ad Alenga, nel cuore dell’Uganda, se non fosse per quel fastidioso crepitare dei fucili mitragliatori. Più che i fucili, padre Cin-Cin (il caro Egidio Ferracin, per tutti) teme i ladri e i razziatori. Tuttavia si mette in viaggio, con un pezzo di pane e formaggio in tasca, e con una gran carica di entusiasmo e di... paura. Raggiunge senza incidenti la scuola di Alwala, presso il traghetto di Masindi, dove celebra la santa messa, prega a lungo con la gente; poi, verso le 12.30 punta su Kwuibale e Akòkoro, per vedere i catecumeni. La strada nel bosco è pericolosa.

Ma a 5 chilometri da Kwuibale, si imbatte in un gruppo di ladri, che avevano sequestrato alcune persone, tra le quali tre ragazze. Dopo aver spogliato di tutto i malcapitati, i briganti volevano portare con sé le ragazze. Queste ultime, però, ingaggiano una lotta furibonda con i manigoldi. padre Cin-Cin, vedendo come si mette la situazione, s’intromette. Non con minacce, ma con parole persuasive e di supplica. Ma i banditi lo afferrano violentemente, gli stringono mani e piedi con una corda e lo trascinano ad una quarantina di metri dalla strada, tra insulti e percosse.

Egli, di tanto in tanto, ripete: “Colpitemi pure. Tanto sapevo che sarebbe finita così, ma lasciate andare gli altri”. E poi si raccomanda a Dio. Quando gli assassini sono stanchi di seviziarlo, lo legano ad un albero e lo finiscono con una scarica di mitra.

Il testimone che racconta queste cose è stato prigioniero degli assassini per tre giorni e poi è riuscito a fuggire. Egli assicura che il padre ha sopportato tutto con forza incredibile pregando continuamente il Signore ed offrendo il suo perdono ai carnefici.

L’inutile attesa e poi l’affannosa ricerca di p. Cin-Cin da parte dei padri e della gente è durata vari giorni. Finalmente, diminuita la pressione dei razziatori, i padri e un gruppo di cristiani battono le strade e scandagliano ogni cespuglio e affossamento. Ed ecco che nella foresta tra Alwala e Akòkoro, in un luogo completamente disabitato, trovano dei vetri, poi la moto senza fanali e senza batteria, ma senza segni di cadute, trovano sparpagliati ad arte gli oggetti contenuti nell’altarino portatile. E finalmente trovano il corpo, adagiato sul fianco con le mani legate ad un tronco e le ginocchia piegate. Al vederlo dà l’idea di una persona in profonda preghiera, o di un Cristo che pende dalla croce. Il torace e la schiena portano i segni di numerosi colpi di coltello e di spari di fucile. Il cadavere è stato lacerato da qualche animale del bosco. P. Mario Balzarini afferma: “È un vero martirio, come per i cristiani della Chiesa primitiva. Gli assassini non hanno preso niente di importante. Hanno sacrificato una vittima innocente solo perché si opponeva alla loro ingiustizia nei confronti di tre ragazze”.

         Egidio nasce a Malo (Vicenza), quarto di otto figli. Papà Giuseppe fa il casaro, e mamma Carolina Bille è casalinga: due genitori modelli di vita cristiana. Egidio si dimostra subito un ragazzino vivace, intelligente e birichino. A Egidio piace ascoltare i Comboniani della vicina casa di Thiene (Vicenza), che andavano anche a Malo e parlavano dell’Africa. Senza paura Egidio dice ai suoi compagni che vuole diventare “missionario”; A 10 anni, entra dai comboniani a Padova per la V° elementare.

Lo studio non si addice ad un ragazzo vivace come lui; le ore di scuola sono pane amaro, ma vuole tenacemente diventare prete missionario. In un alternarsi di entusiasmo e di sofferenza per gli studi, Egidio va avanti. Ogni anno, a giugno, riporta la promozione anche se risicata: le note di condotta e di scuola dividono i superiori e i professori, ma alla fine viene sempre ammesso alla tappa seguente. Così anche in noviziato e per gli anni di liceo, filosofia e teologia.

È di un’allegria esuberante. Attorno a lui si formava sempre un gruppo, perché, tra barzellette e battute di spirito, dà un tono di ilarità alla giornata. Vari compagni si augurano di andare in missione insieme a lui. Alla fine del liceo, il superiore di Verona, padre Gino Albrigo, comprende la sua buona pasta e senza esitazioni scrive: “Da ammettersi al rinnovo dei voti. La sua leggerezza è ampiamente controbilanciata dall’obbedienza, spirito di sacrificio, bontà d’animo. Sarà uno che aiuterà i confratelli in crisi, specie in missione”. Il parroco di un paesetto dove va a far catechismo scrive: “Avessi io un coadiutore come Egidio! Con i ragazzi è un mago. Vi conquisterà tutta l’Africa”. Finalmente Egidio è ordinato prete a Verona, il 28 giugno 1964.

Dopo un anno a Londra (1965) arriva in Uganda: Aboke, Dakolo, Alenga, Alito, Amolotar, Minakulu e ancora Alenga sono le tappe del suo cammino missionario, sempre entusiasta, nonostante i tempi duri e violenti. Condivide con la gente gioie e dolori. Toccante è il suo rapporto con i malati di lebbra ad Alito. Ad Alenga riesce a portare un po’ di serenità, riconciliazione e ottimismo. Alla fine, però, p. Cin-Cin vi ha trovato il martirio. Egli, che si definiva “tappabuchi”, “pezzo di ricambio”…, è sgozzato come l’agnello innocente. Muore come tanti innocenti: per portare pace!

(Dalla serie “I Martiri” preparata a Verona da P. Romeo Ballan, 14.9.2010)