In Pace Christi

Dalvit Giuseppe

Dalvit Giuseppe
Date of birth : 15/09/1919
Place of birth : Pressano TN/I
Temporary Vows : 07/10/1937
Perpetual Vows : 07/10/1942
Date of ordination : 10/04/1943
Date of consecration : 29/06/1959
Date of death : 17/01/1977
Place of death : San Mateus/BR

            Così scrive un comboniano dal Brasile:

            «Stasera - 18 gennaio 1977 - abbiamo avuto la notizia certa della morte di Mons. Dalvit, avvenuta a São Mateus. Ti scrivo con un misto di commozione, di dolore e di gioia e di tanti altri sentimenti. Dom José è tornato al Padre, ma il fatto che ci ha lasciati, credo abbia lasciato in più di ognuno di noi un dolore.

            L'ultima volta che l'incontrai fu verso febbraio dell'anno passato: stava bene, era sereno e contento, migliorato anche di salute, sia per il clima sia per l'ambiente di Belo Horizonte, dove era Vescovo coadiutore.

            Lo ricordo con tanto affetto: quando ricevetti la prima destinazione per la missione, gli scrissi dall'Italia e mi rispose subito una lettera affettuosa e buona. Ho lavorato con lui vari anni...

            Era meticoloso e soffrì molto per gli anni della contestazione e del passaggio alla nuova visione di Chiesa... ma era buono con tutti.

            Il popolo aveva una venerazione per lui. Mai c'è stato un povero che battesse alla porta del Vescovato senza che andasse via con qualche cosa. Adoperò soldi che riceveva (lui personalmente ebbe sempre una vita povera, semplice, senza fronzoli) anche per soccorrere casi speciali: un lebbroso che assistì lungamente; una ragazza che aiutò a curarsi dalla poliomelite; un padre di famiglia tubercoloso che soccorse molte e molte volte con parole buone e con denaro.

            Con me fu sempre buono; nei momenti di abbattimento sempre pronto ad ascoltarmi e a darmi coraggio.

            Molta gente semplice del popolo della diocesi di São Mateus deve piangere ora ed anch'io, mentre ti scrivo, sto piangendo ...

            La vecchia Vitòria, una nera discendente di schiavi, Beatrice, Mario e tanti altri poveri e umili a cui sempre si rivolgeva con tanta bontà ...

            Anche a Belo Horizonte (per quel poco che so) era molto stimato e benvoluto, sia dai tre Vescovi di là, sia dalla gente.

            Ultimamente mi sembrava diventato più attento e delicato ancora; aveva quei gesti semplici, quelle maniere di accoglierti, di vedere ciò che ti poteva occorrere, ti cedeva la sua stanza per riposare quando passavi per Belo Horizonte, ti accompagnava in macchina se avevi qualche cosa da fare ...

            Fu sempre attaccatissimo alla Congregazione!

            Conservo ancora con me la copia della lettera che gli mandai alcuni anni fa in risposta ad una sua in cui, con molta umiltà, chiedeva a tutti i suoi preti di indicargli i propri difetti, perché voleva correggersi.

            La sua fedeltà alla Chiesa fu sempre totale, completa e senza dubbi.

            Termino qui queste mie povere parole e solo desidero incontrarlo un giorno lassù!».

«Fuori del mio schema»

Questa testimonianza, che mi è arrivata senza averla richiesta, ha fatto rivivere nella memoria quella personalità di Mons. Dalvit, che avevo conosciuto molti anni fa a Trento e a Brescia: un comboniano che aveva messo Dio come unico tutto nel centro del suo cuore e che, per suo amore, si era consacrato all'ideale missionario, solo preoccupato di fare la divina volontà nel migliore dei modi.

            Eravamo diventati amici e mi sorprendeva la sua umiltà dimostrata nel chiedermi consigli sulla vita religiosa e sulla maniera di adempiere il suo ufficio di direttore spirituale.

            Nel 1953 partimmo per le nostre missioni: lui per il Brasile e io per il Messico: lo stesso mese e lo stesso anno!

            La notizia della sua elezione a Vescovo mi meravigliò assai; con la mia mentalità inclinata a vedere nel vescovo più un principe che un pastore, che fosse fatto vescovo il superiore di Brescia, Mons. Parodi, era logico, ma che il padre spirituale ne seguisse l'esempio ... ciò era fuori del mio schema.

            Alcuni anni dopo arrivò in Messico la notizia della sua rinuncia e, avendolo conosciuto abbastanza intimamente, intuii tutto il suo dramma.

            Due anni fa m'incontrai di nuovo con lui a Roma: eccetto ciò che avevano impresso in lui il tempo e la sofferenza, era ancora quello di Brescia e di Trento.

            Ed ora egli ci ha lasciato!

            Di tutto ciò che è stato scritto sopra di lui e delle tante pagine che ho qui davanti, quello che più m'impressiona è che il Signore abbia scelto proprio lui come primo vescovo della diocesi di São Mateus.

            La pietra d'angolo fondamentale ha un'importanza speciale e colui che fabbrica la sceglie e la prepara con cura.

            Dio, i cui pensieri non sono come i nostri, ha messo Mons. Dalvit alla base di quella nuova chiesa: là egli ha sacrificato tutto se stesso, ha sofferto il suo calvario e là, per un misterioso disegno della Provvidenza, è morto; il suo corpo è sepolto nella sua cattedrale: vero grano di frumento che deve marcire per dare la vita.

Attività pastorale

            Mettendomi poi a leggere le informazioni arrivate dal Brasile sulla sua vita e apostolato vescovile, ecco che si delinea davanti a me la figura di un autentico missionario comboniano, fedele all'ideale del Fondatore, pronto a sacrificare tutto per venire incontro alle necessità dei più abbandonati e disposto a scomparire nelle fondamenta della chiesa che egli ha fatto nascere.

            Appena Mons. Dalvit arriva a São Mateus - il 19 settembre 1959 - la sua preoccupazione è quella di ubbidire a Papa Giovanni, che, nella Bolla di nomina, gl'indicava come primo lavoro la preparazione di sacerdoti locali per la nuova diocesi e quindi il 17 gennaio 1960 mette la prima pietra del seminario diocesano.

            E poi il pastore vuol conoscere le sue pecorelle ed allora inizia le sue Visite Pastorali, seguendo il metodo e l'attività del grande Borromeo: predicazioni, catechismi, sacramenti, contatti personali... In una sola visita, nella parrocchia di Barra de S. Francisco, amministra circa 11.000 cresime!

            Conosciuta la diocesi, crea nuove parrocchie e, seguendo le direttive del Concilio Vaticano II, divide il suo territorio in quattro zone per un lavoro pastorale più idoneo.

            Durante le visite pastorali e i contatti con i missionari, con i presidenti delle cappelle e con il popolo in genere, Mons. Dalvit si convinse sempre di più che per poter fare della sua chiesa una chiesa autenticamente viva, fatta non solo di costruzioni, strutture ed uffici, ma specialmente di «pietre vive», per diventare davvero «l'Assemblea del Popolo di Dio», doveva preoccuparsi che tutti - sacerdoti, religiosi e laici - si sentissero responsabili del lavoro pastorale.

            Per la formazione dei futuri sacerdoti aveva iniziato il seminario, ora bisognava pensare qualcosa per i laici. Fu così che egli ideò il CEFOLIR, il Centro di Formazione per «líderes rurais», centro che tutti conoscono con il nome di «Sacra Famiglia». «Il fine del Centro - scrive Mons. Dalvit - è eminentemente umano: è destinato ad elevare il livello di vita del nostro popolo. Vogliamo che il Centro serva come di fulcro per le attività diocesane».

            Il suo cuore di pastore non poteva rimanere indifferente ai tanti ammalati incontrati nelle visite pastorali, che, nelle zone più lontane, soffrivano nell'abbandono e nella mancanza di ogni igiene. E, contro il parere degli esperti che sconsigliavano un ospedale nell'interno, diede inizio all'Ospedale S. Marco di Nova Venecia, inaugurato il 25 aprile 1967.

            Fra le tante altre attività di questo Vescovo mai stanco, è bello ricordare la Tipografia ES.TI.MA. di S. Mateus che egli iniziò nel 1961: doveva servire per la diffusione della Parola di Dio e diventare un mezzo di comunicazione per le zone settentrionali dello Spirito Santo.

            Dietro a questo schematico elenco di iniziative, promosse e portate a termine dallo zelo apostolico di Mons. Dalvit, c'è tutto un lavoro suo personale e che rimane facilmente sconosciuto: trovare i mezzi e soprattutto le persone che servono per far vivere e crescere ciò che la sua diocesi esige per poter essere quella chiesa viva, vera famiglia di Dio, che egli desiderava.

Le sue sofferenze

            E non poteva essere un degno figlio del Comboni se non fosse giunta anche per lui l'ora del Calvario!

            La calunnia «il Vescovo è ricco» è la spina che fa sanguinare il suo cuore e scrive: «Ciò che si è fatto, è stato solo ricercare il bene del prossimo con la massima attenzione ad amministrare il denaro con la più scrupolosa fedeltà alle intenzioni dei donatori, senza mai cercare l'interesse personale. Tanto è vero che tutto è intestato alla diocesi di São Mateus e se, domani, il Vescovo andasse via, per qualsiasi motivo, porterà via solo alcuni libri, qualche vestito e la macchina da scrivere... Francamente sono scoraggiato; tanto lavoro per poi ascoltare i commenti: come è ricco questo Vescovo!».

            Altra causa di sofferenza profonda per lui che amava moltissimo la sua gente, fu vederla maltrattata: piantagioni di caffè distrutte, esodo di tante famiglie, scoraggiamento nei pochi che rimangono ... e non poter far nulla.

            Altro dolore intensissimo: il suo seminario «la pupilla degli occhi» viene contestato e chiuso a poco a poco.

            E nella lunga serie delle sue croci c'è anche l'incendio, nella notte tra sabato 19 e domenica 20 aprile 1969 della piccola segheria... Caso o dolo?

            Ce n'è abbastanza per fiaccare anche l'uomo più forte; la sua salute crolla. Non riesce più a dormire, neppure con i sonniferi. Ritorna in patria; migliora, ma ritornando in diocesi, peggiora.

            Non potendo più adempiere al suo dovere di vescovo, chiede alla Santa Sede di poter lasciare il suo incarico e il 28 giugno 1970 lascia São Mateus.

            Dopo un lungo periodo di riposo, sentendosi migliorato, Mons. Dalvit chiede di poter ritornare a lavorare in Brasile; gli offrirono l'ufficio di Vicario Capitolare della Diocesi di Belo Horizonte e, nominato il Vescovo titolare, rimase a lavorare in quella chiesa in qualità di Vescovo Ausiliare, come responsabile della zona rurale di quella vastissima regione.

            Il 10 gennaio 1977, come ormai era solito fare tutti gli anni, arrivò a São Mateus per passarvi alcuni giorni di vacanza. Questa volta non sapeva che faceva ritorno alla sua antica diocesi per incominciare proprio lì, dove aveva tanto lavorato e sofferto, il viaggio definitivo verso la Patria.

            La sera della domenica, 16 gennaio, celebrò la Messa nella parrocchia di Conceicão de Barra, senza sintomi speciali; la mattina dopo, non si sentiva tanto bene. Gli fu consigliato di riposare e a mezzogiorno lo trovarono già morto. Secondo i medici, la morte fu provocata da infarto cardiaco.

Comboniano fino alla fine

            Tra le lettere che Mons. Dalvit aveva scritto ai Superiori in varie occasioni e che sono conservate nell'Archivio della Segreteria Generale, ce n'è una, l'ultima - è in data 2 gennaio 1977 - , che potrebbe, a mio parere, essere considerata come il suo testamento spirituale e un messaggio che egli lascia a tutti noi suoi confratelli.

            Eccola:

            Belo Horizonte, 02 .01. '77.

            Venerati e stimati Confratelli della Direzione Generale

            Vi ringrazio cordialmente per la lettera di augurio che mi avete inviato in occasione del Santo Natale; ricambio i vostri auguri con altrettanti per un felice nuovo Anno.

            Da parte mia vi dico che non dimentico mai che sono comboniano e mi sento orgoglioso di appartenere a questa Congregazione. Soprattutto dopo lo splendido esempio che ha dato realizzando l'unione delle due famiglie: l'italiana e la tedesca.

            Unito a voi nella preghiera, cordialmente mi firmo    Dom José Dalvit

(Redatto da P. G. CANESTRARI, FSCJ)

Da Bollettino n. 116, aprile 1977, pp.75-78

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Seduti all'ombra della vigna, papà Eugenio e il piccolo Giuseppe riprendevano fiato dopo due ore di assiduo lavoro.

“Vedi - diceva il papà - se vuoi che la vite renda, bisogna mondarla dai tralci improduttivi”.

“Come fai a sapere quali sono i tralci improduttivi, papà?”.

“Semplice! Quelli che non hanno il grappolino attaccato. Hai studiato al catechismo ciò che ha detto il Signore a proposito della pianta che non porta frutto: si taglia e si getta sul fuoco”.

“Sì, ma il parroco ha detto che Gesù non parlava delle piante, ma degli uomini, di quelli che non fanno opere buone”.

“Giusto. Ma anche per le piante è la stessa cosa. E' inutile permettere ai rami improduttivi di succhiare la sostanza della vite. E' meglio che questa sostanza vada nei grappoli, non ti pare?”.

“Hai proprio ragione!”, e così dicendo Giuseppe, ultimo di sette fratelli, affondava i denti in una mela ancora acerba.

Papà Eugenio, con gesto calmo e misurato, si asciugava il sudore e intanto guardava con soddisfazione il pezzo di terra che gli stava attorno.

“Quando tanti anni fa tuo nonno - mio padre - lasciò il suo paese di origine, Palù di Giovo, per emigrare a Pressano in cerca di fortuna, pensava già che questa terra un giorno sarebbe stata sua. Era in vendita, ed egli se ne innamorò subito. E non si sbagliò... E' una terra buona, generosa, basta lavorarla senza aver paura di farsi male alla schiena. Intendiamoci, gli è costata sacrifici enormi, a lui e a noi. L'abbiamo riscattata un po' alla volta, lavorando dall'alba al tramonto, risparmiando su tutto, allevando galline, mucche e conigli che poi vendevamo, sempre per pagare quelle benedette tratte. Il Signore ci ha aiutati dandoci una salute di ferro e concedendoci stagioni favorevoli per cui, in pochi anni, ce l'abbiamo fatta. Che festa, quella sera, quando abbiamo pagato l'ultima corona austriaca! Ci sembrava di essere i più ricchi del mondo!”.

 Come quelle montagne

 Negli occhi di papà Eugenio brillava ancora tutta la gioia di quel momento ormai lontano. Giuseppe aveva smesso di rosicchiare la mela e guardava il genitore senza perdere una parola. Poi disse:

“Pressano è un gran bel paese. Mi piace. Anche questa terra mi piace. Io non la lascerò mai”. Il papà sorrise mestamente. Sapeva che quella modesta proprietà non sarebbe bastata per sette famiglie. E poi il "maso" non doveva essere diviso: sarebbe rimasto a uno solo, e questi avrebbe liquidato i fratelli che si sarebbero sistemati in altro modo. Sempre lavorando, comunque... "ma il lavoro mantiene sana l'anima e anche il corpo", pensò papà Eugenio. Questo pensiero gli portò un po' di conforto. Poi, per concretizzarlo, disse:

“Guardati attorno, Giuseppe. Quella è la Paganella, quell'altro il Bondone, laggiù c'è il Montecorona. Quelle montagne, con la loro suggestiva grandiosità, ci dicono che anche noi dobbiamo essere tenaci, forti, resistenti a tutte le bufere che la vita ci può riservare, se vogliamo farcela. Forza e silenzio, ecco cosa ci dicono i monti che ci stanno attorno. Senza dire del beneficio che portano all'agricoltura. Siamo a quasi trecento metri di altitudine sul livello del mare, su di un ripiano morenico ondulato, in zona pianeggiante e fertilissima. Le rocce che scendono a picco per buona parte tutto intorno ci riparano dai venti freddi del Nord e ci assicurano piogge regolari e acqua abbondante”.

“Te l'ho detto, papà: io non mi allontanerò mai da qui”.

“Bravo, bravo, ma ora riprendiamo a mondare le viti e tu a portare i tralci al termine dei filari”.

 Da commercianti a contadini

 Di origine antichissima, Pressano è praticamente attraversato dalla via Claudia Augusta che da Verona porta in Baviera. Questo essenziale mezzo di comunicazione era stato costruito dai Romani. Nel 1859 la strada "imperiale" venne fiancheggiata dalla ferrovia. L'importante arteria diede al paese una certa floridezza economica come lo attestano le antiche e solide case con bifore e portoni in pietra. Le guerre di indipendenza (1859-1866) ridussero drasticamente il commercio con il Lombardo Veneto, e così la vita di Pressano mutò radicalmente. Gli abitanti, da artigiani e commercianti, divennero contadini.

Ancor prima del 1900 a Pressano sorsero la Cassa Rurale e la Famiglia Cooperativa di Consumo. I risultati positivi si fecero ben presto vedere: nel giro di un decennio il paese fu dotato di un nuovo acquedotto, di un asilo infantile e la chiesa fu ampliata di una campata.

 Timido, silenzioso e introverso

 Senza avvedersene, il papà aveva impartito ancora una volta una lezione di vita al figlio. Aveva fatto così anche con i più grandi e tutti, con la legge del lavoro e a contatto con la natura, avevano appreso le regole fondamentali del vivere umano e cristiano.

In quell'ambiente sereno e operoso, Giuseppe era nato il 15 settembre 1919. Il Trentino era da poco terra italiana per cui il futuro vescovo del Brasile poté sempre dire:

“Io, a differenza dei miei fratelli, sono nato italiano”.

Essendo l'ultimo della squadra, crebbe tra le coccole dei fratelli e delle due sorelle che se lo contendevano. Fin da piccolo si dimostrò piuttosto silenzioso e introverso, tuttavia tenace nelle sue idee e un po' capriccioso. Quest'ultima "qualità" gli fu causata dal fatto che, essendo il più piccolo, l'aveva sempre vinta, e tutti ridevano delle sue marachelle.

La famiglia, profondamente cristiana, lo iniziò subito alla pratica della chiesa e la mamma, Fanny Salici, gli fece apprendere le preghiere sulle sue ginocchia. Appena raggiunse l'età scolare, frequentò le elementari, dividendo il tempo libero tra i giochi con gli amici e il lavoro nei campi. Mostrò subito una notevole intelligenza che, abbinata alla tenacia che lo contraddistingueva, gli consentì un brillante risultato negli studi. Don Aurelio Zomer, parroco di Pressano e uomo di profonda pietà, diagnosticò che quel suo chierichetto, serio, composto, per nulla chiacchierone, che eseguiva i suoi doveri con impegno e senso di responsabilità e che quando gli altri litigavano si tirava da parte timoroso, aveva tutte le carte in regola per la vita di seminario.

Un giorno passò dal paese padre Negri, un missionario gesuita. Questi, parlando in chiesa, presentò la vocazione missionaria come l'avventura più bella che possa capitare a un giovane. Giuseppe aveva dieci anni. A differenza dei coetanei che erano un po' irrequieti per il prolungarsi del discorso, egli non si lasciò scappare neppure una parola. Alla fine promise in cuor suo che si sarebbe fatto missionario.

 Il fascino di un'avventura

 In quel tempo un altro giovane, Vittorio Fanti, lasciava il paese per entrare tra i Comboniani. Era il primo pressanese che tentava "l'avventura africana", come chiamavano allora la partenza per la missione. Nella fotografia di commiato, oltre ai giovani del Circolo giovanile San Tarcisio, si vedono: il partente fratel Fanti, il parroco, don Giovanni Battista Colombini, padre Massimino Nicolini (camilliano), don Alfonso Cesconi e alcuni ragazzini seduti in prima fila. Tra questi c'è proprio Giuseppe Dalvit. Pur così piccolo, già condivideva gli immensi ideali della missione.

Dopo aver espresso il suo desiderio al parroco e ai genitori, ottenne il permesso di partire. Lasciare Pressano per Trento, dove i Comboniani da 4 anni avevano aperto un piccolo seminario per futuri missionari, fu uno strappo incredibile per il cuore troppo sensibile di Giuseppe. Ma egli superò la prova con coraggio, cercando di inghiottire tutte le lacrime che gli spuntavano negli occhi. Era l'anno 1930. Giuseppe aveva 11 anni.

La vita di seminario gli divenne presto familiare. Era ben voluto dai compagni per la sua discrezione, e stimato dai superiori per le sue buone maniere, lo spirito di obbedienza e di pietà, senza parlare del risultato negli studi.

Dopo le medie passò a Brescia per il corso ginnasiale, quindi a Venegono Superiore per il noviziato, poi fu mandato a Trento come assistente dei ragazzi. Contemporaneamente frequentò il liceo e la teologia presso il seminario diocesano della città.

Il 19 aprile 1943, in piena guerra mondiale, venne ordinato sacerdote nella cattedrale di San Vigilio a Trento, e a Trento rimase come assistente e formatore dei seminaristi.

Intanto la guerra distrusse il seminario comboniano perché, trovandosi in prossimità della stazione ferroviaria, anche se molto più in alto, fu ripetutamente colpito dalle incursioni aeree americane.

 Saggio educatore

 Partire per la missione con la guerra in corso, neanche parlarne. Padre Giuseppe aveva dato prova di saggezza, di equilibrio, di discrezione, di saperci fare con i ragazzi, per cui i superiori lo inviarono nell'Istituto Comboni di Brescia come padre spirituale.

Al suo arrivo trovò come superiore padre Diego Parodi, un uomo di gran cuore e nato per comandare. Sicuro nelle sue decisioni, molto intelligente e di idee quadrate, conduceva la comunità con braccio forte e sicuro. Ciò contrastava con lo spirito di delicatezza e di cortesia che padre Dalvit aveva ereditato dai suoi genitori e che facevano di lui un autentico gentiluomo. Eppure tra i due ci furono sempre perfetta armonia e vicendevole intesa.

Nessuno ricorda di aver visto padre Dalvit arrabbiato o di aver sentito dalle sue labbra parole meno che corrette. Anche nei momenti di maggior tensione, invece di lasciarsi andare a qualche escandescenza, chinava la testa e si limitava a un profondo sospiro. Era sempre misurato in tutto, anche nel comportamento, nel modo di camminare e in quello di tenere le mani, normalmente una sull'altra, accostate al petto.

Si direbbe che un uomo così incutesse un certo timore nei giovani seminaristi. Invece era tutto il contrario. Quando si andava in camera a trovarlo per manifestargli il proprio animo, i piccoli o grandi problemi propri dell'adolescenza, egli ascoltava con attenzione, interrompendo raramente e solo per chiarire meglio il concetto o per aiutare l'individuo ad esprimersi, e poi sapeva dire parole di incoraggiamento e di conforto. Anche di rimprovero, se occorreva.

Tra gli alunni ce n'era uno che era un autentico e indomabile contestatore, appena nei limiti della tolleranza. Durante i venti minuti di ginnastica in cortile prima dell'inizio della scuola, si sedeva sul muretto e attendeva che gli altri terminassero i loro esercizi per unirsi al gruppo. Quando c'era da fare: "braccia in alto, braccia in basso", questi si limitava ad alzare e ad abbassare solamente le mani, suscitando qualche risata tra i compagni e le ire dell'istruttore.

Un giorno padre Dalvit chiamò in stanza quello scavezzacollo, che pur andava regolarmente a confessarsi da lui tutte le settimane, e gli disse con la maggior calma possibile:

“Questa mattina ti ho osservato dalla finestra mentre facevi ginnastica”.

“Mentre non facevo ginnastica”, corresse onestamente l'altro.

“Mi piace la tua sincerità, e anche la tua bontà di cuore che ti porta a difendere i più deboli. Ed è forse per questo che i superiori si sono trattenuti dal mandarti a casa su due piedi. Ma non puoi andare avanti in questa maniera. Non solo non formi te stesso, ma diventi elemento di disturbo anche nei confronti dei compagni”.

“Anche padre Canestrari, quando ero a Trento in seconda media, voleva mandarmi a casa, ma poi ha portato pazienza dicendo che crescendo mi sarei corretto”.

“E allora, quando aspetti a correggerti, benedetto ragazzo!”.

“Ha ragione. Se lei mi dà una mano, io spero di farcela. Se, invece, mi manda a casa, resterò in eterno con i miei difetti e, ciò che è peggio, non potrò diventare missionario. Porti pazienza anche lei. Certe cose mi vengono così, senza pensarci e poi... quando è fatta è fatta”.

“Devi abituarti a riflettere prima di agire o di parlare. E' così che si diventa uomini e bravi missionari. Bene, coraggio adesso e avanti. I superiori porteranno ancora pazienza con te perché potresti diventare un ottimo missionario ma, attento, la pazienza ha un limite”.

“Ottimo per me è troppo, non l'ho mai preso in vita mia!”.

Padre Dalvit sorrise e gli diede un colpetto sulla spalla incoraggiandolo a mettersi a lavorare sul serio.

Diventare uomini e bravi missionari era un binomio al quale padre Dalvit teneva moltissimo, quasi insinuando che non si può essere bravi missionari se prima non si è uomini completi. A titolo di cronaca, quel ragazzino piuttosto vivace, è diventato sacerdote e sta facendo del suo meglio per essere un uomo e un bravo missionario... sempre, però, con i difetti di una volta.

Padre Dalvit a Brescia fu anche insegnante di religione. Preparava con scrupolo le lezioni, scrivendole su di un quadernetto. Dopo la spiegazione, cominciava a dettare i punti fondamentali in modo che la materia si imprimesse bene nella mente degli alunni. Prima di ogni lezione, premetteva cinque minuti di ginnastica con le finestre aperte. Ciò serviva a scaldare i muscoli e ad ossigenare il cervello. Gli insegnamenti di padre Dalvit sono caduti nel cuore dei suoi ragazzi come un seme fecondo. Posso testimoniare che qualcuno di essi è vissuto per anni della sua eredità spirituale e ancor oggi ne fa tesoro.

 Povero, misero e crudele

 In piedi sulla tolda della nave che lo portava in Brasile, padre Dalvit osservava la "Croce del Sud" col grande binocolo prismatico che il capitano gli aveva messo nelle mani.

“Quella "croce" - disse costui - ci indica che la terra brasiliana non è più tanto lontana”.

“Sia ringraziato Dio”, rispose il missionario.

Quell'espressione racchiudeva tutti i malesseri, i mal di stomaco e i giramenti di testa che quella traversata gli procurava. Quando era partito dal porto di Genova, alcuni giorni prima, non avrebbe mai immaginato che il mare, per lui, si sarebbe trasformato in un simile calvario!

Finalmente, Rio de Janeiro. Si era nel novembre del 1953. Padre Dalvit aveva 34 anni. Due anni prima, nel 1951, erano giunti in quella terra i primi Comboniani.

L'impatto con il Brasile, dove l'obbedienza lo aveva destinato, fu drammatico. Questo paese, grande 28 volte l'Italia, potenzialmente è uno dei più ricchi del mondo grazie alle sue risorse, in realtà è abitato dai più poveri della terra. Il cancro che lo divora giorno dopo giorno si chiama capitalismo, per cui di fronte a pochissimi ricchi, padroni di vastissime aree, sta una moltitudine immensa di povera gente che non sa se riuscirà a mettere qualcosa sotto i denti prima che tramonti il sole.

La sera stessa dello sbarco padre Dalvit rimase impressionato da una folla di persone piccole, magre, sporche, nere, mulatte e bianche, tutte accomunate da una medesima miseria. Dalle banchine portavano sacchi di caffè nelle stive delle navi reggendoli a malapena sulla testa. Bambini e bambine si confondevano con ubriachi, ammalati o gente resa pazza dalla fame, con vesti a brandelli, tutti in cerca di cibo. Ciò faceva stridente contrasto con le montagne di grano, caffè, riso e banane che si ammonticchiavano sui moli per essere esportati. Ma tutto quel ben di Dio apparteneva alle multinazionali e guai se qualcuno di quei miserabili si avvicinava o tentava di allungare una mano.

Alla sera, poi, la gente sfibrata dalla fatica riempiva le osterie e si ubriacava, mentre le prostitute, alcune ancora ragazzine dal volto vistosamente truccato, andavano avanti e indietro invitando i clienti. Folle di bambini con la cassetta da lustrascarpe fissata al collo chiedevano il favore di poter spazzolare le scarpe a chi aveva la fortuna di indossarle. Nell'alcol, nel vizio o arrangiandosi con piccoli furti, quella povera gente cercava di dimenticare. Dimenticare, perché niente meritava di essere ricordato di quanto aveva offerto il giorno.

Poi, con i fumi dell'alcol, scoppiavano le risse nelle quali luccicavano le lame dei coltelli o si udiva qualche sparo di pistola.

“Pensavo sì che il Brasile fosse un paese povero, forse anche misero, ma non così crudele!”, mormorò padre Dalvit ai confratelli che con lui avevano attraversato l'oceano. E già quella prima sera formulò propositi per un fecondo apostolato tra quel popolo che ora era il suo popolo.

 Dio non vuole la sofferenza

 Prima tappa del suo apostolato missionario in Brasile furono le parrocchie di Serra e di Fundao, nello stato dello Spirito Santo. Dopo un discreto tirocinio al tavolino per studiare il portoghese e il gergo della povera gente, si lanciò nell'attività apostolica, proprio tra i poveri. Parlava con loro, condivideva i loro problemi, diceva che la vita poteva migliorare, che i bambini dovevano essere curati, che la fame poteva essere debellata, bastava organizzarsi e agire. Ma come? Quella gente non sapeva né leggere né scrivere e anche a parole faceva fatica a spiegarsi.

Quel primo contatto con i contadini di Serra e di Fundao aiutò padre Dalvit a capire che, insieme all'evangelizzazione, occorreva una massiccia opera di promozione umana, altrimenti quella gente non sarebbe mai uscita dal baratro di miseria in cui si trovava. Quando diceva:

“Non dovete rassegnarvi a questa sorte”, si sentiva rispondere:

“E' normale, Padre. Si vede che Dio vuole così”.

“No, Dio non vuole che i vostri figli vivano pieni di malattie e muoiano perché non hanno da mangiare a sufficienza, né vuole che abitiate in case che fanno acqua dappertutto, e nemmeno che i latifondisti vi portino via i campi che lavorate da generazioni. Dio non vuole queste cose, non vuole la sofferenza dei suoi figli; solamente la permette per dare a noi la possibilità di diminuirla!”, e così dicendo, lui che non perdeva mai la calma, rischiava di arrabbiarsi sul serio.

Fino a quel momento lo stato dello Spirito Santo costituiva un'unica immensa diocesi. Alla morte del vescovo, il nuovo presule decise di smembrarla almeno in tre: Vitòria al centro, Cachoeiro a Sud ed un'altra a Nord, della quale, per ora, non esisteva nemmeno il nome. In tutta quella immensa porzione di Brasile esisteva un unico sacerdote a San Mateus.

 Miracolo a San Mateus

 Nel marzo del 1954 padre Dalvit si trovò impegnato a organizzare la parrocchia di Nova Venecia. Mantenne il suo stile fatto di incontri con la gente, di visite ai casolari più lontani (era diventato un abile cavallerizzo) di parole di conforto, di incoraggiamento e di sprone per elevare il tenore di vita.

Fece un ottimo lavoro, tanto che l'anno dopo (1955) fu inviato proprio a San Mateus con il delicato compito di preparare l'ambiente per una nuova diocesi. Un lavoro immane che il nuovo parroco affrontò con il coraggio e la serenità di sempre. Spiritismo, miseria, ignoranza e "aguardiente", con le conseguenti liti nelle quali spesso ci cascava il morto, facevano parte della vita quotidiana del suo popolo, un popolo estroverso, disinibito e allegro. Padre Dalvit capì che con la sua nuova gente doveva chiudere un occhio, e anche due, sulle rubriche liturgiche o sulle regole alle quali aveva sempre tenuto, per accontentarsi della sostanza delle cose. Capì anche che egli stesso doveva modificare il suo "temperamento" sforzandosi di diventare allegro, disinvolto e un po' "canzonatore". Uno sforzo non comune per un tipo come lui.

Poco a poco il popolo cominciò a conoscere il nuovo venuto e ad amarlo. Un congresso parrocchiale in preparazione al congresso eucaristico internazionale cominciò a portare i suoi frutti tra le coppie, i giovani, gli adolescenti, gli appartenenti alla Lega Cattolica e i membri dell'Apostolato della Preghiera. Nelle comunità rurali padre Dalvit cominciò a predicare le Beatitudini come evangelizzazione dinamica in difesa dei diritti dell'uomo. E nei suoi sermoni non mancava di richiamare l'attenzione delle autorità quanto a sviluppo della cultura, della situazione economico-sanitaria, della giustizia sociale per eliminare la miseria e la disoccupazione. E perché il suo dire non fosse solo parole, fece costruire un reparto maternità per partorienti povere.

Pensava agli altri ma lui non aveva neppure un tetto dove ripararsi. A prezzo di enormi sacrifici, in luglio acquistò il terreno per la costruzione della canonica. La gente guardava e non collaborava. Padre Dalvit cercò di coinvolgerla facendo capire che lavoravano per la loro chiesa. Prima qualcuno, poi alcuni, infine molti, cominciarono a dargli una mano attratti, soprattutto, dalla bontà del Padre.

Quando in ottobre il Vescovo fece la sua visita pastorale, amministrò 800 cresime, e più di 700 adulti si accostarono alla comunione. "Uno spettacolo emozionante e impensabile - scrisse padre Dalvit - anche se solo il Signore conosce quanto si è lavorato per arrivare a tanto". Il Vescovo, più semplicemente, commentò:

“A San Mateus è capitato un miracolo”.

 Come nel Far West

 Intanto, qua e là nell'immenso territorio sorgevano chiesette e cappelle dove la gente si radunava a pregare. Padre Dalvit scelse i capi della preghiera, una specie di catechisti che, pur non essendo esperti in catechesi, sapevano le preghiere ed erano disponibili ad insegnarle agli altri. "Se si prega - commentava il Padre - tutto il resto verrà dietro con più facilità".

Per la festa di Cristo Re fondò l'Opera delle Vocazioni Sacerdotali. Voleva preparare un clero locale, senza attendere l'arrivo e l'aiuto dei sacerdoti stranieri. Poi fu la volta di un salone per la gioventù maschile e femminile che viveva dispersa, senza un centro di raccolta e in balìa di chi se l'accaparrava per primo. Molti di questi giovani venivano sottratti alle osterie, alle case di prostituzione e alle sale da ballo. Ciò scatenò le ire dei nemici della religione. "Si va avanti tra epiche lotte degne del Far West" scrisse Dalvit.

Non erano ancora passati due anni e già un lavoro enorme si era accumulato per lui e per i missionari che erano venuti ad aiutarlo. Il segreto di tanto successo lo spiega il Padre stesso in una lettera ai superiori: "Ci vogliamo bene e andiamo d'accordo condividendo i problemi e le preoccupazioni pastorali".

 Cominciare da niente

 All'inizio del 1957 padre Dalvit ricevette l'ordine di fondare una parrocchia a Montanha, una dozzina di povere case nel fondo di una valle.

“Nel nome del Signore”, esclamò e si mise in viaggio. Mancavano la chiesa, la canonica, e soprattutto i cristiani. Niente paura. Iniziò con un salone per formare la gente, i giovani, specialmente. I viaggi a cavallo, in auto, a piedi si susseguivano a ritmo estenuante. Dopo la messa, prendeva una tazza di caffè e poi cominciava a trasportare mattoni per il salone. La gente lo guardava, qualcuno finalmente si decise ad aiutarlo.

Non l'aiutava, invece, la salute che cominciò a risentire di una vita così vorticosa. Ed egli neppure si sognava di prendere le necessarie precauzioni. Dormiva poco, si alzava presto per dare tempo alla preghiera, lavorava molto. Era quasi una sfida con se stesso. Intanto cresceva anche la chiesa. Quella di pietra e quella di uomini.

 Non problemi, ma solo persone

 Non riuscì a terminare quel lavoro che tanto gli stava a cuore perché i superiori lo destinarono a San Paulo per dirigere la formazione di una nuova parrocchia.

“Nel nome del Signore”, rispose e partì. Era il 15 agosto, festa dell'Assunta.

I problemi della grande metropoli erano ben diversi da quelli del "sertao" abitato da poveri e da contadini. Non perché non mancassero i poveri, anzi! ma erano di un altro tipo. La parrocchia, inoltre, era carica di debiti e lui non aveva un soldo. Non si perse d'animo. Cominciò ancora una volta da zero confidando solo nel Signore.

“La fede del nostro parroco - dicevano alcuni - si trasforma in entusiasmo”. E la comunità ne venne contagiata.

“Sono debiti di famiglia - affermava la gente - dobbiamo pagarceli”. La statua della Madonna di Fatima scolpita in Portogallo con legno brasiliano fece il giro dei quartieri suscitando entusiasmo e buoni propositi. Ma sotto c'era la continua lotta col potere delle tenebre che non voleva farsi scappare soprattutto la gioventù. Padre Dalvit pregava, soffriva, lavorava e combatteva.

A Natale i poveri furono i veri protagonisti della festa. Cinquecento persone ricevettero cibo e vestiti dal parroco. Capirono che Cristo è povero e predilige i poveri, quindi è con loro anche se la miseria alle volte sembra portarli lontano da lui.

“Come fai a risolvere tanti e tali problemi in così poco tempo?”, gli chiese un confratello.

“Perché per me non ci sono problemi, ci sono solo persone”, rispose.

 Vescovo

 Il 9 maggio 1959 la Santa Sede nominò padre Giuseppe Dalvit primo vescovo di San Mateus. Nello stesso giorno il suo vecchio superiore a Brescia, Diego Parodi, fu nominato vescovo di Balsas, sempre in Brasile. Scrisse padre Giorgio Canestrari, amico di ambedue: "La notizia della sua elezione mi meravigliò assai. Che fosse fatto vescovo Parodi, era logico, ma che il padre spirituale ne seguisse l'esempio... era fuori del mio schema, inclinato a vedere nel vescovo più un principe che un pastore".

La notizia della nomina colse di sorpresa padre Dalvit e lo fece tremare. Paura? Gioia? Certamente obbedienza. E scrisse al nunzio: "Ho sempre creduto sinceramente che i superiori parlino in nome e per autorità di Dio. Per questo ho sempre accettato qualsiasi destinazione e incarico. Questa volta è la voce del Vicario di Cristo: a maggior ragione penso che sia mio dovere accettare". Le parole incise sul suo stemma episcopale furono: "Nel nome del Signore".

Papa Giovanni XXIII, nominandolo vescovo dell'erigenda diocesi di San Mateus, gli disse di iniziare subito un seminario per incrementare le vocazioni locali. Vocazioni: una parola! Su una superficie di 15 mila chilometri quadrati con 350 mila abitanti nella maggioranza cattolici... solo di nome, praticamente non esisteva una Chiesa vera e propria. Esistevano, invece - e in abbondanza - ignoranza religiosa, superstizione, spiritismo, povertà, analfabetismo, alcol, lussuria, violenza e sfruttamento da parte dei pochi ricchi nei confronti della massa dei poveri. Inoltre i 35 mila protestanti erano di una cattiveria eccezionale.

Anche tra i cattolici le cose non erano pacifiche. La discriminazione razziale tra bianchi e neri, solitamente inesistente in Brasile, a San Mateus era molto accentuata. Alle feste dei primi, i secondi erano esclusi; a quelle dei neri, i bianchi non si facevano vedere.

Durante il mese di preghiera che trascorse in un convento prima della consacrazione episcopale, padre Dalvit pregò e rifletté sulle linee fondamentali della sua futura attività pastorale. Lesse anche la "Costituzione" brasiliana firmata dal presidente Getulio Vergas nel 1934, e vi trovò numerosi paragrafi in favore della Chiesa cattolica. Egli concluse che, per il bene del suo popolo, bisognava collaborare nel limite del possibile con l'autorità civile richiamando quei paragrafi riguardanti la giustizia sociale che, in pratica, erano già caduti nel dimenticatoio.

Scrisse: "Non si può dire a chi muore di fame: beati i poveri perché di essi è il Regno dei cieli. Tuttavia presenterò la povertà come valore evangelico senza giustificare con questo la ricchezza ammucchiata nell'ingiustizia e la miseria imposta con la violenza". La medicina per curare questi mali? Pazienza, dialogo e preghiera, tanta preghiera.

Con questi sentimenti padre Dalvit venne consacrato vescovo nella cattedrale di Vitòria il 29 giugno 1959. Aveva 39 anni.

 Saper coinvolgere

 A Pressano, il primo ad abbracciare il nuovo Vescovo fu papà Eugenio, ormai molto vecchio, poi seguirono i fratelli, il parroco e le autorità. Mancava mamma Fanny che era presente alla festa in spirito. Mons. Alfonso Cesconi, amico dei missionari pressanesi e responsabile diocesano dell'Azione Cattolica, lo aveva accompagnato sull'auto proveniente da Trento. Quella vacanza si trasformò in un generale coinvolgimento dei compaesani, delle autorità, della stampa perché tutti concorressero a fondare la Chiesa in quella sperduta parte del Brasile.

“Chiedo la carità per la mia diocesi”, ripeteva il Vescovo. E fu una gara di generosità che non si limitò a quei giorni ma durò nel tempo e si estese anche all'estero, sollecitata dalle lettere che mons. Dalvit scriveva in continuazione, proprio come mons. Daniele Comboni, fondatore dell'Istituto al quale apparteneva, rubando ore ed ore al sonno. Ciò gli costerà caro, ma per il momento non voleva pensarci.

 A vostra disposizione

 Il 19 settembre 1959 mons. Dalvit fece il suo ingresso in San Mateus. Battendosi il petto davanti all'altare eretto nella piazza della città, chiese perdono a Dio e al popolo per i suoi limiti. Poi aggiunse: "Sono a vostra completa disposizione". E i suoi fedeli lo presero in parola, limandogli, un poco alla volta, la sua giovane esistenza.

Le piantagioni di caffè, il latifondo e la situazione miserevole dei lavoratori che non guadagnavano a sufficienza per mantenere i figli e che non avevano i soldi per comperare le medicine, furono le prime sfide che dovette affrontare. Poi c'erano le infinite sétte di protestanti, di massoni, di marxisti, di razzisti, di gestori delle balere... e chi più ne ha più ne metta.

“La mia pastorale deve basarsi sull'evangelizzazione sostanziata di annunzio di liberazione e promozione delle classi meno favorite e oppresse”, confidò al suo vicario generale.

“I confratelli le vogliono bene, Monsignore, e tutti conosciamo i problemi di questa gente. Insieme li risolveremo”.

Intanto, alle cinque del mattino, il Vescovo era già in chiesa immerso nella preghiera per invocare da Dio forza e coraggio. Alle otto, iniziava il suo lavoro: ricevere gente, incontrare confratelli, dialogare con le autorità, studiare cosa fare per gli ammalati, i disoccupati, i lontani. E poi viaggi su viaggi attraverso l'immenso territorio con la jeep regalatagli dalla gente di Trento o a dorso di mulo dove ancora non esistevano strade. Sempre col sorriso sulle labbra, sempre aperto alla comprensione, al dialogo, all'incoraggiamento.

 La Chiesa brasiliana ad una svolta

 Di fronte ai gravi problemi del Brasile, dominato da pochi ricchi e abitato da una massa di eterni poveri, la Chiesa cattolica si trovò ad una svolta: o stare con il potere per salvaguardare i propri privilegi, o mettersi contro di esso in difesa di coloro che non avevano voce. Questa seconda ipotesi, ovviamente, l'avrebbe privata di tanti favori e l'avrebbe inserita in un contesto di quasi persecuzione.

Già nel 1952 venne costituita la Conferenza Episcopale Brasiliana il cui primo segretario fu il "vescovo dei poveri" Hélder Camara. Le frizioni e le lotte all'inizio furono stridenti. Troppi vescovi, per paura del comunismo, andavano a braccetto con il capitalismo senza intuirne l'intima cattiveria.

A cominciare dal 1964, dopo il colpo militare, la Chiesa del Brasile si schierò decisamente a favore dei più oppressi, lottando per la difesa dei diritti umani fino al punto di criticare coraggiosamente il modello economico capitalistico adottato dal governo. Questo tipo di evangelizzazione verrà chiamata "liberazione" appoggiata ideologicamente da una teologia che permetterà alla Chiesa di fare un salto di qualità. Ma, purtroppo, non tutta la gerarchia ecclesiastica accettò la nuova impostazione. Così c'erano vescovi di destra, di sinistra, di centro. Solo col passare dei decenni, la Chiesa farà definitivamente la "scelta dei poveri" subendo, come conseguenza, l'imprigionamento e l'uccisione di sacerdoti, sindacalisti, catechisti, capi comunità, intellettuali cattolici... tutti con l'accusa di essere "comunisti".

Anche i Comboniani hanno pagato a livello di vite umane la loro coerenza ai principi evangelici di giustizia. Citiamo per tutti padre Ezechiele Ramin ucciso a Cacoal nel 1983 per aver difeso i contadini indios dalla rapacità dei latifondisti sostenuti dal potere.