In Pace Christi

Patroni Stefano

Patroni Stefano
Date of birth : 29/09/1901
Place of birth : Sernio SO/I
Temporary Vows : 01/11/1921
Perpetual Vows : 01/11/1925
Date of ordination : 29/05/1926
Date of death : 29/01/1966
Place of death : Verona/I

Nato a Sernio (Sondrio) nel 1901, compì il corso ginnasiale nel seminario di Como. In quegli anni sentì la voce dell’Africa e, primo tra i seminaristi comaschi del dopo prima guerra mondiale, entrò nell’Istituto comboniano. Era il 1919. Il rettore lo presentò ai Comboniani come un seminarista di “distinta pietà”.

Il suo impegno nella preghiera e nella mortificazione era così sentito che il padre maestro ha dovuto frenarlo. Frequentò il noviziato nella Villa Loreto di Savona dove i novizi comboniani erano profughi a causa della guerra, e lo concluse a Venegono Superiore, Varese. Qui, il 1° novembre 1921, emise i Voti di povertà, castità e obbedienza.

Poi passò a Brescia come assistente dei giovani seminaristi. “Era l’uomo della preghiera e della disciplina. Non era tenero neppure con gli alunni i quali, però, gli volevano un gran  bene perché vedevano quanto li amasse e volesse che diventassero santi missionari”. Il 29 maggio 1926 venne ordinato sacerdote nel Duomo di Brescia. Fu padre spirituale dei seminaristi comboniani di Trento per quattro anni, e confessore dei primi ragazzi raccolti da p. Venturini per la sua Congregazione dei Figli del Cuore di Gesù.

Missionario in Sudan

Imbarcatosi a Napoli il 7 aprile 1930 per il Bahr el Gebel (Sudan meridionale) fu destinato alla missione di Rejaf. Si dedicò anima e corpo all’apostolato guadagnandosi l’amore degli africani. Quando incontrava un cristiano che non voleva osservare la legge del Signore, il Padre digiunava e si flagellava per ottenere da Dio la sua conversione.

Dopo 8 anni rimpatriò per salute. I Superiori lo rimandarono nuovamente a Trento. Intanto fu aperto il secondo noviziato comboniano a Firenze (1940) e p. Patroni vi fu destinato come primo p. maestro. Inculcò nei novizi l’amore alla Regola e la devozione a San Giuseppe che protesse la casa durante la guerra.

Il Padre fece mettere la statua del Santo sul tetto. La casa si trasformò in ospedale e in casa di accoglienza per tanta gente che fuggiva dai bombardamenti, sicura che dove c’era p. Patroni non sarebbero cadute le bombe. E fu così: nessun ferito tra i missionari, nonostante le 140 granate cadute nel recinto del noviziato.

P. Stefano fu messo al muro dai tedeschi perché era corsa voce che i missionari avessero armi. Non trovarono armi e il Padre fu risparmiato. Un proiettile di mortaio entrò nell’atrio del secondo piano e rimase inesploso. È stata di p. Patroni l’idea dello splendido monumento a San Giuseppe che ora si trova presso la casa natale di Comboni a Limone sul Garda.

Questuante

Per mantenere i novizi p. Stefano si fece questuante. Con un carrettino trainato a mano cominciò a girare per i casolari intorno a Firenze chiedendo la carità: olio e grano, pane e formaggio, aiutato in questo dai novizi. Dopo il Capitolo del 1947 p. Patroni poté riprendere la via della missione. Partì dopo un breve soggiorno a Londra per imparare l’inglese e, senza andare a casa a salutare i suoi per spirito di mortificazione. Fu a Juba e poi a Rejaf (Sudan). Nel 1950 fu nominato Superiore dei missionari del Sudan meridionale.

Il nuovo superiore generale, p. Antonio Todesco, lo mandò in Messico, come Superiore regionale. Questa obbedienza gli costò molto perché lo allontanava dall’Africa. In Messico fu amato dai confratelli e dalla gente per la sua bontà. Anche qui, per costruire le opere della Congregazione, in particolare il seminario di Sahuayo, andò negli Stati Uniti a chieder l’elemosina. Quando era libero, aiutava gli operai come manovale. La gente lo riteneva un santo e il suo confessionale era sempre frequentatissimo. Dicevano: “Non si capisce bene quello che dice, ma in lui si percepisce la presenza di Dio”.

Nel 1957 era di nuovo in Africa, a Juba e poi a Rejaf. Nel 1960, il 10 febbraio al mattino presto, la polizia lo prelevò espellendolo su due piedi come un criminale (l’accusa – falsa – era quella che il Padre avrebbe favorito gli scioperi degli studenti quando il governo musulmano abolì la domenica).

E finì una seconda volta come p. maestro a Firenze. Austero e duro con se stesso, era di una carità squisita con gli altri. Per essi metteva a disposizione auto e autista, mentre per lui bastava il cavallo di San Francesco o i mezzi pubblici. Curava i malati con tenerezza materna e passava la notte con gli infermi. Formò alla vita religiosa e missionaria 250 novizi.

Una emorragia interna provocata da un tumore epatico lo costrinse ad andare a Verona dove, edificando tutti, affrontò la dolorosa malattia e la morte che avvenne il 29 gennaio 1966. Ad un confratello disse: “Avevo chiesto al Signore che mi portasse via senza disturbare, di notte, e di morire in Noviziato”. P. Patroni ha lasciato nell’Istituto un ricordo indelebile. Tutti lo hanno riconosciuto come una maestro di virtù umane e soprannaturali, un missionario autentico.                                          (P. Lorenzo Gaiga)

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            Nato a Sernio (Sondrio) il 27 settembre 1901, compì il corso ginnasiale nel seminario di Como. In quegli anni sentì la voce dell'Africa e - primo tra i seminaristi comaschi del dopoguerra - entrò nella nostra Congregazione nell'ottobre 1919, presentato dal rettore come un seminarista di « distinta pietà». Arrivò a Savona, nel Noviziato che si era sistemato in un'ala del Seminario appena sgombrato dai soldati (era ospedale militare). Pareva un novizio “ nato”, con facili discorsi spirituali in ricreazione e visite frequenti in cappella, e così prolungate che il Padre Maestro dovette avvisare di non fermarsi più di cinque minuti. Aveva poi il suo « stile» diritto, sprezzante della fatica e avido di mezzi e modi di mortificarsi e soffrire, e un notevole spirito di sacrificio e carità. Dava l'impressione di una modesta levatura, di semplicità e di fatica negli studi. Ma pure sforzandosi di passare inosservato, fin dai primi giorni era un modello, specie nell'osservanza degli avvisi; benché di novizi edificanti ce ne fossero parecchi! E tale fu per tutto il Noviziato, che passò alla «villa» del Seminario, sulla collina di «Loreto», prima di stabilirsi a Venegono il 16 luglio 1921. Qui emise i voti il 1° novembre di quell'anno.

            Inviato a Brescia come prefetto, appariva l'uomo della preghiera e della disciplina, e allora non era tenero neppure con gli alunni. I quali, però, gli volevano bene; e spesso quelli del primo anno avevano il regalo di un sermoncino dettato dal suo cuore desideroso di formarli allo spirito che il Signore gli aveva dato. A Brescia salì l'altare il 29 maggio 1926. Per l'Africa presentava la rinnovata offerta della vita e il primo divin Sacrificio; e chiedeva per sé ardore di apostolo e per la Missione molti operai.

            I primi quattro anni di ministero li svolse nella Scuola Apostolica di Trento, che si apriva con una dozzina di aspiranti missionari. Aveva l'ufficio di Padre Spirituale, ed era confessore dei primi sette ragazzi raccolti da P. Mario Venturini, fondatore dei Figli del Cuore di Gesù, il quale veniva a confessare i nostri alunni. Al momento della sua partenza per l'Africa il rimpianto generale mostrò quanto gli volevano bene.

            Imbarcatosi a Napoli il 7 aprile 1930 per il Bahr el Gebel, giungeva a Juba il 3 settembre e venne destinato a Rejaf. Era il momento in cui la stazione si trovava in pieno sviluppo. Nel luglio successivo gliene venne affidata la responsabilità in qualità di Superiore. Nei primi tempi si dava molto ai lavori e alle coltivazioni, perché la testa non gli reggeva; ma più tardi dedicò la maggior parte del tempo all'apostolato e alla direzione della Missione, pigliandosi coraggiosamente la responsabilità. Il suo apostolato africano lo svolse quasi tutto a Rejaf. Dei Bari seppe apprezzare le buone qualità e compatire i difetti; e se ne guadagnò l'amore con la mansuetudine, la bontà e la penitenza. Il catechista che l'accompagnava diceva in seguito che se in un villaggio c'erano dei cristiani sviati o delle persone dure di cuore, il Padre rifiutava la cena e poi si disciplinava.

            Dopo otto anni rimpatriò per salute. Arrivò in Italia il 14 marzo 1939. I Superiori lo rimandarono a Trento, a reggere la Scuola Apostolica; ma l'anno seguente lo trasferirono a Firenze come Padre Maestro di quella seconda casa di Noviziato, che si apriva ad accogliere una parte del crescente numero di novizi.

Maestro e Padre del Noviziato

            Il Noviziato di Firenze nasceva quando l'Italia era appena entrata in guerra; e nel 1944 venne a trovarsi sulla linea del fuoco. In quei terribili e indimenticabili mesi rifulse la fede e la prudenza del Padre Maestro. Cominciò con l'affidare la casa e la comunità a S. Giuseppe. Il 25 giugno mise la sua statua sul tetto, in una nicchia ben riparata, poi fece cominciare una serie di novene al Santo Protettore, aggiungendovi il voto di erigergli un monumento se la vita fosse proseguita normalmente e il personale e la casa fossero rimasti incolumi. Il 28 giugno si comincia a sentire il rombo del cannone, i bombardamenti aumentano e i mitragliamenti aerei divengono continui. Il Padre Maestro cerca di mettere al sicuro tutto: fa togliere i vetri, barricare le finestre del pianterreno, puntellare scale e colonne, e riporre la biancheria e i viveri. Due auto sono nascoste sotto un mucchio di fascine. Il 2 agosto P. Patroni si dirige all'episcopio per accettare l'ospitalità offerta dal card. Dalla Costa in Seminario. Purtroppo è tardi: è vietato accedere a quella zona della città. Bisogna cominciare ad usare il rifugio. Il 4 agosto la comunità si divide in due gruppi: una trentina di Novizi si accomodano alla meglio al vicino Collegio della Quercia, ospiti dei Barnabiti; tre Padri e dodici Fratelli restano in casa. Tuttavia i sotterranei accolgono anche i quaranta malati dell'ospedale di Camerata, divenuto inabitabile. In quei giorni un proiettile entra nell'atrio del secondo piano e resta inesploso. I novizi proseguono con mirabile tranquillità le loro pratiche sia alla Quercia che in casa, mentre i Fratelli - assistiti da una protezione speciale - continuano a fare la spola tra la casa e la Quercia per portare i viveri, e provvedono a seppellire le salme di sette persone cadute nel nostro terreno. Il 25 agosto tre soldati tedeschi entrano in casa durante le preghiere del mattino e mettono al muro nell'atrio il Padre Maestro e gli altri, minacciando di fucilarne dieci se trovano munizioni o nemici. Intanto la linea del fuoco si avvicina, e il 28 agosto il gruppo rimasto in casa viene ridotto a un Padre, tre Fratelli e due Novizi. Il l0 settembre il fronte supera Firenze, il Noviziato è libero e la comunità comincia a ricomporsi. Nel giorno di S. Pietro Claver è al completo, e il 16 settembre comincia una novena di ringraziamento a S. Giuseppe. Ne aveva motivo: neppure un ferito, nonostante le 140 granate cadute nel recinto del Noviziato, casa incolume, sostanze salve, e scongiurato anche lo sfollamento che pure era stato imposto a tutte le ville vicine.

            Riordinata la casa, P. Patroni pensa agli Esercizi Spirituali, che cominciano il 26 settembre. Il giorno 29, dopo undici giorni di malattia muore piamente il novizio studente Lucio Betti : è l'olocausto chiesto dal Signore. Bisogna poi pensare ai rifornimenti per l'inverno, e alla metà di ottobre Padri e Novizi ogni mattina partono con due carretti, passano di fattoria in fattoria e tornano la sera con ogni ben di Dio. Il 6 novembre il Noviziato riprende in pieno la sua vita ordinaria, anche se le circostanze fanno ritardare l'arrivo della maggior parte dei postulanti. S. Giuseppe aveva davvero diritto allo splendido monumento che gli venne eretto.

Superiore Regionale

            Dopo il Capitolo del 1947 P. Patroni insisté per essere rimandato in Missione, e fu esaudito. Prima di partire per l'Africa andò a Londra e fece del suo meglio per perfezionarsi nell'inglese; ma appena fu invitato a proseguire per il Sudan ricompose la sua modesta valigetta, chiedendo con l'umiltà di un novizio il permesso di ogni oggetto, e partì senza neppure visitare la casa vicina. Fu a Juba per due anni, poi tornò a Rejaf.

            Nel 1950 fu nominato Superiore Regionale, e seguì l'andamento della Regione con visite e corrispondenza. Nel 1953 partecipò al Capitolo.

            La nuova Consulta Generale, dimostrandogli una stima particolare, lo mandò nel Messico come Superiore Regionale. Questa obbedienza gli costò molto, perché lo allontanava dall'Africa. Anche nel Messico si fece stimare ed amare. La sua santità, esperienza ed energia erano apprezzate, e i Confratelli desideravano le sue visite. Egli si dedicò con particolare cura allo sviluppo delle case di formazione. Seguendo le iniziative del suo predecessore si interessò della costruzione della Scuola Apostolica di Sahuayo, per trasferirvi gli alunni dalla sede provvisoria della Capitale. Data la scarsità di offerte, nel1954 aderì prontamente alla proposta avanzatagli dal Superiore locale di permettergli un giro di propaganda negli Stati Uniti. E lo sostituì per alcuni mesi, quasi sempre da solo, attendendo ai lavori e sviluppando tutte le varie iniziative. (Questo lo fece anche negli anni seguenti). Si prestava di buon grado per le confessioni, e la gente ricorreva volentieri a lui, dicendo: “Non si capisce bene quello che dice, ma è tanto buono!” Quando era libero assisteva gli operai e li aiutava come un manovale. Alla fine del 1954 un'ala di 84 metri, con pianterreno e primo piano, era finita.

            Nel 1956 P. Patroni aveva raccolto dei fondi per cominciare un'altra Scuola Apostolica, ma fu esonerato dal suo ufficio. Lieto di tornare in Africa scrisse subito al Rev.mo Superiore Generale: “Non so come ringraziarla del grande favore che mi fa di rimandarmi nelle mie antiche missioni d'Africa. Così asseconda il mio ardente desiderio di consumare gli ultimi anni di questa povera vita, che va spegnendosi, nel campo del nostro primo apostolato”. Tuttavia non fu insensibile a quel distacco, e non dimenticò il Messico; e anche lo scorso anno fu felice di vedere qualche foto della nuova Scuola Apostolica, piena di alunni. Anzi parlò volentieri delle opere esistenti e di altre case di formazione, delle quali vedeva la necessità e suggeriva il posto.

            Nel giugno 1957 era di nuovo a Juba. Inviato a Kadulè non oppose difficoltà; ma quasi subito dovette essere richiamato, perché la sua salute destava preoccupazioni, e fu rimandato alla sua Rejaf.

Padre Maestro per la seconda volta

            La laboriosa quiete di Rejaf fu bruscamente rotta la mattina del 10 febbraio 1960. Verso le 9 la polizia di Juba raggiunse la Missione e dichiarò al Padre, che si trovava dietro la residenza, di doverlo portare a Juba. In pantofole, con un bagaglio minimo, e senza poter vedere il suo coadiutore (Che era in safari, e che era il vero ricercato), P. Patroni partì per Juba. L'auto della polizia passò davanti alla Procura, ma il Padre non poté nemmeno scendere per informare quei Confratelli e prendere un paio di scarpe. Nell'ufficio del Governatore si incontrò col Superiore di Kator (P. Luigi Benedetti), scortato anche lui da agenti dell' ordine. Alla presenza dei poliziotti il Vicegovernatore disse ai due «criminali» che per motivi di sicurezza emersi da informazioni sicure dovevano lasciare immediatamente il Sudan. (Sul Libro Nero risultarono imputati degli scioperi verificatisi nelle scuole per la recente abolizione della domenica). Invano P. Patroni replicò che era nel Sudan da trent'anni, e aveva fatto solo il missionario. Alle 13.30, salutato da alcuni Confratelli accorsi all'areoporto, saliva sull'aereo diretto a Khartoum. Si sforzava di mostrarsi calmo, e incoraggiava il compagno di esilio ad accettare la volontà di Dio, ma gli si leggeva in volto quanto gli costasse.

            Per vie misteriose la Provvidenza lo riconduceva in Italia quando il Noviziato di Firenze (Chiuso temporaneamente per ammettere i candidati a liceo finito) stava per riaprirsi; e i Superiori ve lo mandarono per la seconda volta come Padre Maestro. Era divenuto ormai di una carità delicatissima, benché apparisse austero e talvolta duro, e i novizi non tardavano ad aprirsi. Magari dicevano: “È duro; ma quando si vede il suo esempio non si può fare a meno di ammirarlo e tacere”.        Infatti il suo spirito di mortificazione era eccezionale. Pieno di riguardi, per gli altri, non voleva distinzioni per sé, neppure quando aveva la febbre (e lo si seppe un giorno per caso). Portava indumenti leggeri anche l'inverno, e lo si vedeva girare all'aperto senza soprabito, anche quando il freddo era intenso. In camera conservava una temperatura molto rigida. Una persona che attendeva alla guardaroba del Noviziato confidava che gli indumenti più scarsi e malandati erano quelli del Padre Maestro. Uscendo per ministero percorreva dei tratti non indifferenti di strada a piedi approfittandone per pregare e dare buon esempio, come inculcava ai novizi; oppure usava l'autobus. Ma per i Confratelli che erano di passaggio metteva prontamente a disposizione auto e autista, e se venivano di lontano o dalla Missione riserbava loro un'accoglienza speciale in casa e magari li faceva accompagnare in qualche visita od escursione. Per il suo onomastico si rassegnò a fatica a permettere qualche distinzione; mentre non lasciava passare inosservate le ricorrenze di Confratelli. E se erano malati o deboli ricorreva a delicatezze materne; anzi in due occasioni e per due notti consecutive volle assistere un Confratello dall'una alla sveglia. Di queste e di altre virtù P. Patroni fu maestro ai più di 250 novizi che preparò alla professione, avverando le parole che il Rev.mo P. Vignato amava dire: «I novizi hanno in P. Patroni un vero specchio di virtù». E mentre si mostrava esigente durante la loro preparazione, li trattava poi con una amabilità eccezionale dopo la professione.

Edificante fino all'ultimo

            Intanto continuava a deperire; ma nessuno sa quando abbia cominciato a sentirsi peggio del solito. Un giorno (lo disse lui stesso) si sentì male mentre celebrava presso una comunità: «Credevo di non poter finire la Messa, e di restare giù per la strada». Pochi giorni dopo, il 19 settembre 1964, il vice-superiore che usciva per celebrare all'ospedale di Camerata l'incontrò mentre passeggiava insolitamente nell'atrio. Il P. Patroni lo fermò e lo pregò di vedere se all'ospedale c'era un medico; e aggiunse: «C'è uno che tutta la notte ha avuto dolori fortissimi». «Mando qui il medico?», chiese il Confratello. «No; non è necessario. Può venire lui». Finito il ministero e sorpreso che nessuno sia venuto, il vice-superiore si avvia all'uscita dell'ospedale; ed ecco venirgli incontro il Padre Maestro che avanza trascinando i piedi, e gli dice con un mesto sorriso: «Il malato è qui!».

            Quella degenza durò solo tre giorni; ma il 17 novembre fu necessario il primo lungo ricovero. Le sue condizioni divennero allarmanti per una fortissima emorragia interna, provocata da un tumore epatico, e ne fu informato il parroco di Sernio e i familiari. Il parroco visitò il malato, poi accettò la nostra ospitalità. Entrando in casa chiese di ossequiare il Superiore; e seppe allora che P. Patroni era Superiore e Padre Maestro: e dire che lo conosceva da tempo per corrispondenza e di persona! Quando fu avvisato della gravità del male, P. Patroni· ringraziò commosso e si dispose a ricevere i Sacramenti. Ma quella volta si riprese e cominciò un lungo periodo di convalescenza.

            Nel corso di una confidenza disse: « Avevo chiesto al Signore che mi portasse via senza disturbare, di notte; e di morire nel Noviziato ». Quando non era obbligato a letto si tratteneva delle ore intere in cappella. In camera aveva sempre il rosario in mano, e compiva tutte le pratiche di pietà.

            Fu trasferito alla Casa Madre, e fu lieto di poter avere maggiori notizie del suo caro Sudan, e se ne mostrava avido. Le chiese con insistenza fino alla vigilia della morte. Continuava a parlare dell'Africa e, pur consapevole della gravità del male, diceva scherzando: “ Presto partiremo; preparate il passaporto!”. Quanto soffrisse si può intuirlo da questa affermazione di un malato che gli fu compagno di stanza all'ospedale di Verona: “Quell'uomo è veramente un santo, perché riesce a soffrire quello che soffro io, senza emettere un lamento”. Ad un infermiere che gli chiedeva se aveva sofferto molto per un'iniezione che doveva essere stata dolorosissima, rispose: “More solito: un pochino”. E un'altra volta disse : “Se la sofferenza è una grazia, perché lamentarsene?”.

            La fine del 1965 segnò l'avvicinarsi del suo tramonto. Il 22 gennaio il Padre Spirituale gli suggerì di ricevere il Sacramento degli Infermi. Il malato rispose che era prontissimo; e rinnovò l'offerta della vita per la Congregazione e le Missioni, e in modo particolare per le Case di Formazione e il Sudano L'Olio Santo gli fu amministrato il giorno 25, presenti numerosi Confratelli. Lo ricevette con mirabile raccoglimento e tranquillità; poi lasciò i suoi ricordi: « Per un efficace apostolato sono necessarie due cose: l'osservanza delle regole e il compimento delle pratiche di pietà. Non si trascurino mai, mai! Per me non prendetevi pensiero: il giorno della morte è il più bello della vita, perché noi abbiamo già lasciato tutto». Parlò con voce debole, ma così franca e risoluta da fare una grande impressione. Quello che aveva detto lo confermò subito. Infatti disse al Padre Spirituale che doveva ancora recitare Vespro e Compieta, e chiese se poteva ritenersi dispensato: e respirava con l'aiuto dell'ossigeno! Lo stesso fece nei giorni seguenti. Invitato a non stancarsi nella recita del rosario, rispose che faceva fatica a contare le Ave Maria. Conservò piena lucidità fino all'ultimo. Riconosceva i visitatori e li pregava di salutare dei Confratelli assenti, dei quali faceva i nomi, e di raccomandarlo alle loro preghiere. A qualcuno chiese la benedizione o volle baciare la mano. Si spense verso le 4.30 p.m. del 29 gennaio, silenziosamente secondo il suo stile, lasciando l'impressione di un autentico Figlio del S. Cuore.

Da Bollettino n. 77, aprile 1966, p.184-190