In Pace Christi

Roveggio Antonio

Roveggio Antonio
Date of birth : 23/09/1858
Place of birth : Cologna Veneta VI/I
Temporary Vows : 28/10/1887
Perpetual Vows : 28/10/1887
Date of ordination : 29/03/1884
Date of consecration : 21/04/1895
Date of death : 02/05/1902
Place of death : Berber/SD

Cologna Veneta vede i natali di Antonio nel 1858.

Antonio entra dopo le elementari nel seminario di Vicenza, e, nel 1884 è ordinato sacerdote. L'anno dopo è ammesso nel noviziato missionario di Verona; è fra i primi figli del S. Cuore. Viene subito notato e stimato per la sua pietà e per le sue virtù. Nell'ottobre 1887 emette i suoi voti.

Parte per l'Egitto, ma nel 1894 è richiamato in Italia per preparare l'apertura della Casa di Bressanone richiesta dal governo austriaco. Ritorna poi in Egitto e adempie il desiderio di Propaganda Fide aprendo una missione ad Assuan. Nel marzo 1895 è eletto Vicario Apostolico.

Mons. Roveggio visse la sua vita di religioso tendendo costantemente alla perfezione, malgrado gli innumerevoli impegni, passava lunghe ore in preghiera, convinto che "la preghiera fa l'uomo potente". Parlava a Dio dei suoi problemi e delle persone a lui affidate. Gli presentava ogni sua difficoltà. E parlava di Dio con grande fiducioso amore ai suoi confratelli. Seppe governare con grande prudenza e soavità.

Fratello fra i fratelli trascinava con il suo esempio più che con la sua parola. Diede esempio di pazienza nelle grandi sofferenze, di cordiale carità verso i neri, di devozione del S. Cuore.

Fu sacerdote e vescovo di grande ardente zelo per le anime.

Non perdeva occasione di catechizzare. Lavorò con tenacia e passione ad Assuan dove costruì la chiesa, le scuole, la casa dei Padri, aprì un dispensario. Aprì una missione a Omdurman e poi a Lul.

Viaggiò molto anche in Europa per sollecitare personale e mezzo per la missione. Egli, timido per natura, trovò nella sua vocazione la forza di parlare ai poveri e ai grandi, in pubblico e in privato.

E' stato un animatore entusiasta: non pochi furono conquistati dal suo zelo e dalla sua bontà.

E amò soprattutto la croce: la sua vita non fu facile, le febbri lo minacciavano, soffrì pure per delle implicazioni diplomatiche, il clima torrido, la mancanza del necessario, pur stremato di forze attendeva alla cura dei confratelli ammalati, tuttavia nessuno l'ha mai sentito lamentarsi. Si legge nel suo diario: "Il Signore mi ha fatto sentire la necessità di abbandonarmi totalmente a lui. Il Signore mi ha fatto conoscere che la mia vita come religioso e missionario deve essere interamente uniformata a quella del primo missionario: Gesù, - deve essere quindi vita di sacrificio e di patimenti ... devo compiere come Gesù la volontà del Padre...".

Con lui tutto era possibile. E trovava la forza in Gesù Eucarestia che voleva sempre anche nella piccola cappella del Redemptor.

E... morì, solo, in treno a Berber, vittima del suo zelo.

Era il 2 maggio 1902.

Mons. Antonio M. Roveggio era un uomo di elevata statura spirituale. Affabile e dignitoso nel tratto, era da tutti amato.

Fra le belle doti e virtù che maggiormente spiccavano in lui, c'era il basso concetto ch'egli aveva di se stesso, fino a considerarsi come egli si esprimeva, quasi di peso alla missione.

Di cuore nobile e generoso, l'unico suo desiderio è stato di spendere e sacrificare la sua vita per la salvezza dei fratelli africani, e, attendeva da Dio la grazia di coronare la sua giornata terrena con il martirio.

E venne esaudito, che la sua morte ebbe tutti i caratteri di un vero martirio. Infatti furono le lunghe sofferenze di indefesso apostolato, in una clima torrido, e mentre si accingeva ad opere più grandi per la gloria di Dio e per il bene dei suoi fratelli africani, che avvenne la consumazione del sacrifico, offerto a Dio, sull'altare del suo cuore.

Dalla tomba di questo nuovo apostolo, come da quella del grande Comboni e da cento altri eroi della carità si levò potente al cielo una voce implorante pietà e invocante misericordia per l'infelice Nigrizia.

Questa voce fu accolta perché era la voce dei martiri dell'amore.

P. Leonzio Bano

******** 

MONS. ANTONIO ROVEGGIO

 Nato a Cologna Veneta nel 1858. Studiò in Seminario a Vicenza dove fu ordinato nel 1884.

Entrò in noviziato a Verona nel 1885 fra i primi Figli del S. Cuore. Fece i voti nel 1887 il 28 ottobre. Durante il noviziato supplì temporaneamente il P. Maestro P. Asperti durante le sue brevi assenze. Era molto stimato per la sua pietà e le sue virtù per cui al Cairo diresse spiritualmente la prima comunità religiosa come P. Spirituale prima e poi come superiore, dal dicembre 1889 al 1890 quando passò alla Gesira. Nel 1894 fu richiamato in Italia per preparare l'apertura della casa di Bressanone richiesta dal Governo Austriaco.

Nel ritorno in Egitto passò per Roma dove Propaganda sollecitò l'apertura di una missione ad Asswan. Egli vi si recò col P. Tappi, trattò la compera del terreno per la missione e le prime costruzioni. In marzo 1895 fu eletto Vicario Apost.

 Religioso perfetto

Anche da Vescovo sempre il primo alle pratiche di pietà, e sempre in ginocchio passava lunghe ore in preghiera (P. Hubert) "Perché la preghiera fa l'uomo potente". Parlava di Dio con grande unzione. Tutti i confratelli resero testimonianza della prudenza e soavità del suo governo. Fratello fra i fratelli si rimboccava le maniche e non disdegnava i più umili lavori.

Mai parlò della sua salute che per gli strapazzi ed il clima andava deteriorandosi. Trascinava col suo esempio più che con la parola i suoi confratelli alla devozione del S. Cuore, allo zelo per le anime, alla pazienza nella sofferenza, alla cordialità e carità verso i neri. Nel Capitolo generale del 1899 avrebbe raccolto la totalità dei voti per il generalato se vi fosse stata una scelta per la successione al Vicariato.

 Zelo ardente per le anime

Sacerdote al Cairo, non lasciava occasione per catechizzare, attirare, convertire: soprattutto preziosa la sua opera verso il centinaio di profughi di Khartoum a cui potè amministrare il battesimo e regolarizzare i matrimoni.

Da Vescovo lavorò con tenacia e passione ad Asswan dove costruì la chiesa, la casa dei PP., le scuole ed aprì un dispensario; ad Ondurman dove aprì la missione, nei due viaggi sul Nilo per la fondazione di Lul e la ricerca di un posto per la missione in Equatoria. Sempre il primo alla preghiera e alla predicazione in un arabo fluente.

Per la vita della missione viaggiò molto, a Vienna per pratiche per la Missione, a Londra per la costruzione del battello Redemptor, al Cairo per la preparazione dei suoi viaggi all'interno. Egli timido di natura trovò nella sua vocazione la forza di parlare ai poveri e ai grandi, in pubblico ed in privato. Non si fermò mai, neppure quando dopo il suo secondo viaggio sul Nilo, febbricitante e malato intraprese il viaggio di ritorno in Europa per sollecitare personale e mezzi per la Missione. Morì solo in treno a Berber vittima del suo zelo.

 Animatore entusiasta

Nei pochi mesi che da vescovo passò in Italia non aveva il tempo per visitare la sua famiglia, ma visitò molti seminari della Lombardia e del Veneto. Devono a lui la loro vocazione Mons. Silvestri, P. Pendrana, P. Antonio Vignato, P. Festa e tanti altri che ascoltarono le sue esortazioni ed erano conquistati dalla sua bontà e dal suo zelo.

 Amore alla croce

"Il Signore mi ha fatto sentire la necessità di abbandonarmi totalmente in lui ... Il Signore mi ha fatto conoscere che la mia vita come religioso e missionario deve essere interamente uniformata a quella del primo missionario Gesù, deve essere vita di sacrificio e di patimenti, e perciò devo attendere a rinnegare me stesso, le mie voglie e soprattutto sottomettere la mia volontà".

La sua vita non fu facile nella vecchia umida casa del noviziato in via del Seminario a Verona, al Cairo nella povertà più squallida con tante bocche da sfamare, nel torrido clima di Asswan, di Ondurman, delle rive del Nilo. Nessuno l'ha mai sentito lamentarsi. Sembrava il fiore della salute, ma le febbri lo minavano. Soprattutto nell'ultimo viaggio sul Nilo, nella lunga aspettativa che venisse il permesso della fondazione fra i Lotuko, pur stanco e stremato attendeva alla cura dei suoi compagni ammalati, trovando la forza in Gesù Eucaristia che voleva sempre nella piccola cappella del Redemtor.

Soffrì pure delle implicazioni diplomatiche. Il governo austriaco non voleva che Mons. Sogaro si ritirasse e che gli successe un italiano, pur con passaporto austriaco. Fece fuoco e fiamma presso Propaganda che fosse eletto P. Geyer. Questi non era ancora religioso anzi era il leader dei missionari che si opponevano alla congregazione religiosa e minacciavano di staccarsi dall'Istituto e formarne uno in altra sede.

Il Card. Ledochowski, prefetto di Propaganda fu irremovibile: volle Roveggio successore del Sogaro e ordinò ai missionari non religiosi di rimanere al loro posto.

Mons. Roveggio colla sua modestia e belle maniere placò le ire della Corte austriaca e quelle dei missionari del Cairo.

Lord Kitchener il vincitore Madhia e governatore di Khartoum brigava presso il Card. Vaughan perché intervenisse presso Propaganda affinché il Vicariato fosse affidato ai Missionari Inglesi. Il Card. Ledochowski dava al Roveggio poche speranze; ed egli allora si recò a Vienna ed ottenne che l'imperatore intervenisse perché l'Africa Centrale rimanesse ai Figli del Comboni.

 Fonti: G. Barra - Quando l'Africa chiama

*******

MONS. ANTONIO MARIA ROVEGGIO

e la nuova missione africana

La mattina del 28 ottobre 1887 nella cappella dell’Istituto dei Missionari Comboniani di Verona si è svolta una cerimonia importante e significativa. Dieci giovani, il primo dei quali era un sacerdote di 29 anni, hanno emesso i Voti di povertà, castità e obbedienza nella mani di mons. Sogaro, primo successore di Comboni, diventando, così, religiosi-missionari comboniani. Erano i primi di una lunga serie che ha dato origine alla Congregazione dei Missionari Comboniani del Cuore di Gesù. San Daniele Comboni, morto da sei anni, certamente sorrideva dal cielo e benediceva questi suoi figli.

In questa pagina vogliamo parlare di p. Antonio Maria Roveggio, il sacerdote di 29 anni, che è stato il primo religioso e missionario comboniano. Proveniva da una famiglia di contadini di Cologna Veneta, provincia di Verona e diocesi di Vicenza, dove era nato nel 1858.

Alunno del seminario diocesano di Vicenza, durante la teologia ha conosciuto Comboni e ne è rimasto affascinato. Diventato sacerdote nel 1884, ha chiesto al suo Vescovo di potersi unire ai missionari di Comboni. A questo punto è scoppiata la lotta in famiglia. Scrive lui stesso: “La mia vocazione missionaria fu messa a dura prova dall’insistenza di un sacerdote che mi dissuadeva da quell’impresa. La mia mamma, che pure soffriva al pensiero della mia partenza, mi chiamò in cucina e mi disse: ‘Don Antonio, tu sai quanto ti amo e quanto sia doloroso al mio cuore il dovermi distaccare da te; tuttavia, se il Signore veramente ti chiama per questa via, va’ in nome di Dio e non sia mai vero che io mi opponga alla sua volontà. Sarebbe questo per me un rimorso troppo grave per tutta la vita’”.

Fratello e amico degli ex schiavi

P. Antonio è partito per la missione alla vigilia dell’Immacolata del 1887 ed è finito nell’isola di Gesira, a un’ora dal Cairo, dove i Comboniani avevano raccolto gli ex schiavi fuggiti dal Sudan in preda alla persecuzione del Mahdi. Il Padre è diventato il loro amico e fratello. Non solo si è preoccupato di parlare loro di Gesù Cristo, ma ha trasferito in quell’isola la passione per la terra che aveva ereditato dai suoi genitori, ed è diventato imprenditore, realizzando il Piano di Comboni: “evangelizzazione e promozione umana”.

Ed ecco sorgere piantagioni di cotone e di zucchero, campi di grano, stalle che si riempivano di mucche, tanto da poter vendere latte e formaggio nella vicina Cairo… Gli africani hanno imparato a impastare e cuocere il pane e a costruire case. Una enorme pompa azionata a vapore succhiava l’acqua dal Nilo per irrigare quella terra produttiva…

Con la pratica della vita cristiana, gli ex schiavi hanno imparato anche ad essere uomini liberi, capaci di bastare a se stessi. La spiritualità di p. Roveggio, intanto, si affinava: “Eterno Padre, se ciò piace a voi e se è utile all’anima mia, vi offro e vi consacro la mia vita per il bene dei missionari e delle suore prigionieri del Mahdi affinché voi li preserviate dall’apostasia e da ogni peccato e li liberiate dalla schiavitù”.

Vescovo

Il 21 aprile 1895 p. Roveggio è consacrato vescovo a Verona succedendo a mons. Sogaro che ha dato le dimissioni. Alla vigilia della consacrazione episcopale scrive: “O divino Spirito, venite in me, impossessatevi interamente del mio povero cuore affinché nel mio operare abbia soltanto il fine della gloria del Signore e la salute degli africani per i quali nuovamente mi consacro fino alla morte”.

Con la sconfitta del Mahdi, settembre 1898, si riaprono le porte del Sudan. I tempi sono cambiati e anche i missionari devono modernizzarsi. Mons. Roveggio insieme al primo Superiore generale della Congregazione, p. Angelo Colombaroli, va in Inghilterra e fa costruire dai cantieri Jarrow di Londra un battello dalla chiglia piatta in modo che possa navigare comodamente sul Nilo. In febbraio 1899 il battello, dal nome augurale di Redemptor, è pronto. Monsignore scrive su “La Nigrizia”: “Stiamo organizzando la prima spedizione di missionari che dovranno recarsi nel cuore dell'Africa”. Il 29 dicembre 1999 il battello fa il suo viaggio inaugurale puntando verso Khartoum.

“Dunque, sia il nome del Signore benedetto . Dopo quasi sedici anni di assenza e di esilio, la nostra missione ha potuto riprendere l'opera sua apostolica nella capitale del Sudan”. Con i missionari partono anche le suore per occuparsi della scuola femminile, dell’orfanotrofio e dei dispensari… Comboni rivive in quei missionari che si sono messi sulla scia che lui ha lasciata nel lontano 1858

Il 4 gennaio 1900 Roveggio giunge a Khartoum. Non potendo fermarsi perché la vecchia missione è stata requisita dagli inglesi, va nella vicina Omdurman. Il governatore inglese gli fa sapere che i missionari non possono fermarsi al Nord, ancora percorso da pericolosi sbandati mahdisti. Allora Roveggio delinea il suo “piano”: puntare al Sud verso le tribù già visitate da don Comboni nella sua prima spedizione di quarant’anni prima.

La nuova penetrazione comboniana dell’Africa

È l’alba del 14 dicembre 1900 quando, a bordo del Redemptor, nuovo fiammante, mons. Roveggio e i suoi missionari si avventurano sulle acqua del Nilo. E cominciano a sorgere le nuove missioni tra le fiere tribù degli Scilluk, dei Denka e dei Nuer. Santa Croce, Gondokoro sono nomi che richiamano i missionari di quarant’anni prima. Il nuovo Vescovo cerca le loro tombe per recitarvi una preghiera e deporvi un fiore. E poi avanti ancora. Egli vuole realizzare il disegno di Comboni spingendosi fino ai Grandi Laghi d’Uganda.

Giunto al confine, gli inglesi gli impediscono di proseguire: il territorio non è ancora totalmente sottomesso. Attende invano il permesso da Londra. Non arriva. Arriva, invece, la malaria che riduce il battello a un ospedale galleggiante. Monsignore diventa infermiere dei suoi missionari, finché cadde anche lui vittima di tanti disagi. “O Cuore Sacratissimo di Gesù, io mi chiudo nella piaga del vostro dolcissimo costato e ne do le chiavi alla mia cara madre Maria e la prego di non aprirmi se non per venire a godervi per tutta l’eternità”.

Muore lungo la strada del ritorno. Sono le ore 19.00 del 2 maggio 1902. Le sue spoglie deposte nella sabbia presso Berber, vengono poi messe accanto a quelle di Comboni nella chiesa di Assuan, finché vengono portate a Verona. Aveva chiesto il martirio. Lo ha avuto, anche se non è stato quello di sangue. Comboni era morto a 50 anni, questo suo discepolo prediletto a 43. Le opere di Dio non si misurano con il numero degli anni, ma con l’intensità dell’amore. E di amore, mons. Roveggio, ne ha avuto tanto.

“Dalla mia vita dipende la salute di tante anime; tanto più io sarò santo, tante più ne salverò… Molto fa chi molto ama e molto ottiene chi molto soffre. Davanti alla Madonna di Lourdes ho chiesto la grazia del martirio”, aveva scritto nel suo diario. Oggi la Chiesa ha iniziato il processo di canonizzazione per dichiararlo santo.       P. Lorenzo Gaiga

*****

Mons. Roveggio e le Pie Madri della Nigrizia

Mons. Roveggio, come Vicario Apostolico era il normale superiore anche dell’Istituto femminile e perciò doveva provvedere al mantenimento dei membri dell’Istituto e si preoccupava della salute delle suore. Nel 1896, in occasione della morte della giovane suora Carlotta Vecchietti, scrisse alla superiora, madre Bollezzoli: “Considerando questi fatti che, di quando in quando si ripetono, e molto più lo stato in genere debole, infermiccio ed anemico di molte di coteste sue religiose, non posso fare a meno di non manifestarle un mio timore. Vorrei quasi dire che ciò provenga dall’abitazione… o forse per il cibo che non sia sufficiente o non sostanzioso… o per mancanza di vita attiva…”.

Aveva colpito nel segno. Le sue parole erano quelle di un padre preoccupato per la salute e il benessere delle sue figlie. La Casa Madre in Via Santa Maria in Organo a Verona, allora, era umida, fredda, malsana. Spesso le suore tossivano e si ammalavano. Anche madre Bollezzoli soffriva per la mancanza di mezzi necessari al sostentamento delle suore, tanto più che lei veniva da una famiglia benestante quindi percepiva maggiormente la differenza.

In giugno 1896 scoppiò il colera ad Assuan e si portò via sr. Maria Caprini, già prigioniera del Mahdi; al Cairo morivano sr. Bartolomea Beneamati e, poco dopo, sr. Beatrice Kutscha, mentre sr. Dorotea Felicetti spirava ad Helouan. Per il cuore di mons. Roveggio erano pugnalate.

Il dramma di suor Teresa

Ad un certo punto si affacciò un problema delicato, quello dell’ex suora Teresa Grigolini. Teresa Grigolini era stata Pia Madre della Nigrizia e superiora provinciale molto stimata da Comboni. Fatta prigioniera ad El Obeid nel 1882 dalle truppe del Mahdi, finì nel campo di prigionia di Omdurman insieme alle altre suore e ad alcuni missionari.

Poiché la legislazione islamica costringeva la donna a dipendere da un uomo (come moglie, concubina o schiava), le suore prigioniere furono consigliate di fare dei finti matrimoni con dei prigionieri greci, vivendo, poi, come sorelle e fratelli. La cosa funzionò per un po’ di tempo e gli arabi stettero calmi.

Ma quando si resero conto che quelle spose non diventavano mai madri, cominciarono a sospettare che i matrimoni fossero finti. Ciò poteva suonare come una presa in giro del Mahdi e della legge islamica. I finti mariti rischiarono il taglio della testa e le finte mogli di finire in qualche harem.

A questo punto suor Grigolini fu consigliata da padre Ohrwalder di sposarsi davvero e di mettere al mondo figli, così avrebbe chiuso la bocca agli arabi. Per fare questo non occorreva neppure la dispensa perché i Voti delle suore, che venivano rinnovati annualmente, erano scaduti, quindi erano tutte donne libere, anche se nel cuore si sentivano sempre suore.

Teresa Grigolini si sposò in un giorno di agosto del 1890, con grande dolore. Rivolta alle sorelle disse sottovoce: “Fossi morta prima di ridurmi a questo passo!”. “E noi – commentò suor Venturini che faceva da testimone – se dovessimo accompagnarti alla sepoltura non soffriremmo tanto”.

I giornali di Verona e d’Italia s’impossessarono della notizia facendone uno scandalo enorme, mentre il matrimonio di Teresa con il greco Cocorempas era regolare. Anche mons. Roveggio, che durante il noviziato aveva offerto la sua vita per evitare ai missionari una cosa simile, ne soffrì moltissimo.

Ma dopo essersi incontrato con la ex suora e aver sentito come erano andate le cose, scrisse: “Sono convinto che davanti a Dio Teresa Grigolini abbia acquistato meriti grandissimi per questo nuovo ed inaudito genere di sacrificio. Mi disse anche che fece quel passo nella speranza di liberare così le sue Consorelle da maggiori disgrazie".

La Grigolini, dopo la morte del marito, tornò a Verona e passò gli ultimi anni dedita alla preghiera e alle opere di carità nella casa di suo fratello sacerdote.

La questione economica

P. Angelo Colombaroli che era procuratore generale delle missioni e superiore del Cairo scrisse nel giugno 1896: “Se io fossi superiore di queste suore, esigerei in coscienza che facessero da sé e che avessero un’amministrazione separata da quella dei missionari”.

Madre Bollezzoli chiese consiglio a mons. Roveggio il quale rispose che era contento che la separazione si facesse e diceva che doveva essere completa, non solo limitata all’assegno mensile per il mantenimento delle suore, ma anche a tutto il resto. Insomma, voleva dare piena responsabilità alle suore, e scrisse e firmò una Convenzione riguardante la divisione dei beni, pregando la Madre generale di apporre la sua firma.

Ma la Convenzione che egli propose alla firma della Superiora gnerale non poteva essere accettata da costei, perché non dava sufficienti garanzie di sussistenza per il futuro dell’Istituto femminile, che aveva i medesimi diritti di quello maschile, essendo nato dalla stessa radice e con la stessa finalità.

Intercorsero lettere, chiarimenti e qualche contestazione, ma poi tutto si risolse per il meglio, grazie anche una lettera molto chiara del Cardinal di Canossa in difesa delle Suore, in data 28 febbraio 1897 e, soprattutto, grazie all’intervento di Propaganda Fide, la quale, il 13 aprile 1897, in risposta a Mons. Roveggio, il quale aveva fatto presente la situazione ed espresso il suo pensiero, scrisse che per il momento, con qualche accorgimento, le cose potevano procedere come al solito, senza fare il contratto previsto.

Ordinariamente le questioni finanziarie generano le più aspre divisioni e le più amare liti. Invece in questo caso, anche se Mons. Roveggio - bisogna dirlo - ha fatto un po’ soffrire le Suore per il suo grande senso di responsabilità verso il Vicariato, non ha mai intaccato la fiducia reciproca tra i Missionari comboniani e le suore Pie madri.

L'atteggiamento di Mons. Roveggio, è in certo qual modo comprensibile. A lui  pareva che l’Istituto femminile, fondato per la missione dell’Africa centrale, deviasse dal suo fine, perché aveva aperto a Laveno, in Lombardia, una casa (dalla quale, del resto, le suore erano state presto ritirate e che si era mantenuta da sé). Non accettava che le Costituzioni, approvate da poco dalla Chiesa, prevedessero la possibilità di qualche opera in Europa. Voleva tutti e tutte solo per l'Africa.. Non ricordava che lo stesso Comboni aveva aperto una casa per le Pie Madri a Sestri, in Liguria e non entrava nell’idea che anche una presenza in Europa si rendeva a un certo punto necessaria, a beneficio della Missione stessa, sia per far conoscere l’Istituto, sia per offrire opportunità di ripresa e di lavoro alle missionarie al loro ritorno in patria per un periodo di riposo o per motivi di salute.

Per questo, sentendosi obbligato in coscienza di tutelare i diritti e i beni del Vicariato, nella lettera inviata, sia al Card. Ledochowski, sia alla Superiora Generale aveva scritto: “O l’Istituto torna al suo fine esclusivamente missionario e la missione avrebbe continuato a mandare l’assegno mensile, o abbia pure una vita sua, ma in questo caso si mantenga da sé”.

La divisione amministrativa dei due istituti si realizzerà molto più tardi con il patrocinio di Propaganda Fide, ma il Vicario Apostolico non ebbe mai a sostenere, né allora, né poi, opere non africane delle Pie Madri.