In Pace Christi

Ohrwalder Josef

Ohrwalder Josef
Date of birth : 06/03/1856
Place of birth : Lana BZ/I
Date of ordination : 08/12/1880
Date of death : 06/08/1913
Place of death : Omdurman/SD

Don Giuseppe Ohrwalder, con Giovanni Dichtl e Francesco Pimazzoni, è uno dei tre giovani missionari, cari al Comboni, che gli sopravvissero. Giuseppe Ohrwalder era nato a Lana (Bolzano, diocesi di Trento allora), il 6 marzo 1856, ed entrò a Verona il 13 settembre 1875 come chierico, proveniente da Bolzano. Ricevette la tonsura e gli ordini minori da S.E. il card. Canossa l'11 agosto 1876, partì pel Cairo il 3 novembre 1879, e ricevette il presbiterato a Cairo l'8 dicembre 1880 da mons. Comboni (SPV, 27). Rolleri aggiunge che arrivò al Cairo il 14 novembre 1879, e che fu ordinato sacerdote nella cappella degli istituti. Partì per l'interno il 28 dicembre 1880 (SPC, p. 11-12).

Ancora da Verona, il 10 luglio 1880, Comboni aveva scritto a Giulianelli in Cairo: "Dire ai miei cari figli Dichtl e Giuseppe che mostrano poco senno col voler andare a Beyrut, quando le scuole sono già terminate, ed essere ordinari da altri fuori che dal proprio vescovo" (A/16/19/14). Ma questo è l'unico rimprovero del Comboni a loro riguardo; tutti gli altri apprezzamenti sono altamente elogiativi. Il 10 dicembre 1880 scriveva dal Cairo a Sembianti: "Sono arcicontento dei due tedeschi da me ordinati preti. I Gesuiti me ne fanno i più grandi elogi" (A/16/5/13).

E il 17 dicembre 1880: "Il Dichtl è un soggetto molto buono, così pure d. Giuseppe: essi hanno il vero spirito di morire pei negri" (A/16/5/15). E il 28 dicembre, sempre allo stesso dal Cairo: "D. Giuseppe Ohrwalder ha meno talento, più arditiello, ma buono ed attaccato fino alla morte alla missione e disposto a morire subito" (A/16/5/18).

Altrettanto scrive a suo padre: "Khartum, 1 febbraio 1881. I due tedeschi, d. Giovanni e d. Giuseppe sono veri missionari" (A/14/127). E il 19, stesso mese ed anno, da Khartum: "D. Giovanni e d. Giuseppe sono due preti di primo ordine" (A/16/1/58). Lo stesso ripete a Sembianti da Khartum il 12 febbraio 1881: "D. Dichtl e d. Giuseppe Ohrwalder sono e riusciranno due missionari di primo ordine per abnegazione, virtù, devozione, orazione, attività e totale sacrificazione della vita" (A/16/5/26). E il 23 aprile da El Obeid: "D. Giovanni Dichtl e d. Giuseppe Ohrwalder sono missionari di primo ordine, di grande spirito di sacrificio, veramente santi" (A/16/19/27). Ed è questa l'ultima testimonianza del Comboni.

Significative sono anche le parole di p. Sembianti a Propaganda del 6 novembre 1881, riguardo alla nomina di un successore al Comboni: "La maniera più naturale per conseguire questo sarebbe certamente che gli istituti presentassero uno dei suoi per sostituire il capo caduto; ma non potendo forse farlo, dico forse, perché v'ha chi proporrebbe il R.D. Giuseppe Ohrwalder, sacerdote da undici mesi e condotto tosto ad Obeid (al mio veder troppo giovane e per ciò stesso forse non accetto agli altri) (A/17/16/64).

Ma ecco uno scritto di Ohrwalder al suo amico Dichtl di Khartum, poco dopo il suo arrivo a Delen, dove fu destinato. "8 gennaio 1882. Ecco le prime righe da Gebel Nuba... Quì non ho ancora avuto un giorno buono. Per lo più sull'angareb (letto). Appena arrivato qua ebbi delle ulcere su tutto il corpo che mi tormentavano assai e per giorni intieri non potei cambiare posizione. Ho ancora un'ulcera, che però mi molesta meno; insieme avevo sempre dolori di ventre, che prima non avevo mai avuto. Poi si aggiunse la diarrea, che ho appena superata. Oggi sono l'istesso, con fatica potei dire messa, che per delle settimane aveva dovuto omettere. Forse adesso le cose andranno meglio, spero almeno. Martedì 10 d. Luigi andrà ad El Obeid, e così per un mese resterò solo. Ciò non è piacevole, perché qui non ho molta pratica... Caro Giovanni, io sono del resto tutto contento, ma mi sembra ora di essere in terra straniera. Mi sembra di non essere più nella missione di monsignore (morto da tre anni) insomma tutto mi appare strano. Del resto il paese è bello. Finora ho veduto poco, perché dall'angareb non si possono fare degli studi ... Qui ci sono tre suore, e sono ben contento ... Potresti qualche volta scrivere anche una letterina su ciò che avviene nel mondo, altrimenti non vengo a sapere nulla. Sono molto contento di d. Luigi: è molto attivo. Abbiamo più di 20 ragazzi e circa 13 ragazze. Lo spazio è piccolo. Il nostro domicilio è un piccolo villaggio con 16 dordor (capanne)... Sembianti mi ha scritto e mi fa coraggio. A Verona si crede che qui le cose siano disperate e che si voglia andare via ... Prega per me; resta sano e mille saluti dal dordor in cui ti scrivo" (A/27/32).

 Tanto Bonomi come Ohrwalder stamparono le loro relazioni sulla prigionia e fuga dai dervisci, ma forse è preferibile riferire alcune lettere scritte proprio in quel tempo, cominciando da questa di p. Ohrwalder d. Dichtl che era a Khartum, ma chissà quando e dove la ricevette. E' datata El Obeid, le festa di S. Stefano, 26 dicembre 1882. "Dall'accampamento del Dervisc. Caro Giovanni, non so più quando ti abbia scritto l'ultima volta; credo che sia lungo tempo... non adduco nessuna scusa, le circostanze non me lo permettevano. Inoltre è assai incerto se ti arriverà questa mia, essendo il paese scorazzato da questi ladroni ... Sto bene, cosa che non è tanto facile in questi siti. Veramente ci volevano tagliare la testa. Io e tutti gli altri eravamo per tre mesi in tale stato che veramente poca speranza rimaneva da poterne uscire. Ora io ti racconterò brevemente i nostri avvenimenti; narrarti tutte le nostre sofferenze non mi sarà possibile... In principio eravamo minacciati dal nemico di fuori, ultimamente anche da una parte di Delen, la quale fu causa anche del nostro imprigionamento... Eravamo tutti d'accordo di fuggire da Delen verso Fascioda. Tutto era pronto, noi con i nostri ragazzi e ragazze andammo a mezzanotte colle poche cose che potemmo prendere con noi al luogo donde dovevamo partire tutti assieme.. ma uno, un certo scrivano già di Hansal, era passato al nemico e ci aveva traditi, chiamando i mahdisti... Ritornammo di nuovo alle nostre abitazioni, ove trovammo un'estrema desolazione; durante la nostra assenza i Nuba avevano derubato quanto poteva tornar loro utile, e distrutto il restante. Verso sera andammo dall'inviato del Dervisc per sapere che cosa sarebbe stato di noi. La risposta fu: farsi musulmani e tutto sarebbe andato bene; altrimenti consegnare ogni cosa. Restammo d'accordo di consegnare tutto e che noi saremmo liberi di ritornare ai nostri paesi, e ci fu concesso. La sera stessa consegnammo le armi, l'indomani il nemico entrava nel nostro recinto ed esportava tutto quello che avevano lasciato i Nubani. I nostri mori e more ci vennero portati via, gli altari della chiesa distrutti, e a noi lasciarono soltanto il vestito che avevamo addosso ed un altro per cambiarci. Il 17 settembre fummo condotti via da Delen e tra questi 30 ladroni poco di bene ci rimaneva a sperare. A Sangiokai ci tolsero tutto, fuori quello che avevamo indosso. Cercavano sempre denari, e non ne trovavano mai. S'era sparsa tra il popolo l'opinione che noi avessimo 20 casse di talleri; frugavano dappertutto con vero furore ma invano; noi non avevamo che cento tolleri e questi nascosti . Le minacce e le seduzioni adoperate lungo il viaggio per farci apostatare, permettimi di tralasciarle. Il Signore si degni di reputarcele a merito.

"Il 27 settembre arrivammo nell'accampamento del Dervisc. Già per ben due volte eravamo stati visitati e derubati di ciò che portavamo con noi, perfino i veli dal capo delle suore strapparono; di più volevano togliere loro anche le gonnelle, ciò che potemmo impedire colle istanti nostre preghiere. A me toglierono la giubba, cosicché dovevo presentarmi al Dervisc in pantaloni e camicia. Stanchi morti arrivammo all'abitazione del Mahdi, davanti al quale venivamo tosto condotti. E' un uomo pressa poco della mia statura, di tinta bruna rossiccia, porta un turbante bianco ed una gialabìa (lunga veste) di diversi colori, decorata di pezzetti di stoffa di diversi colori, e questa è la divisa di tutti i suoi seguaci; noi però possiamo portare che una gialabìa bianca, perché non lo riconosciamo come Mahdi... Sul suo volto brilla sempre un finto sorriso pieno di dolcezza ... Ci rivolse la domanda, se noi volessimo abbracciare la religione di Maometto, che era la migliore di tutte.

Ci lesse da un certo libro ecc. Ma la nostra risposta fu: "no". Poi si ritirò col suo consigliere per decidere sulla nostra sorte. Quindi ritornò di bel nuovo, ci tentò perché abbracciassimo la religione di Maometto. Poi ci condusse dal Khalifa, dove vengono incarcerati tutti i delinquenti ... Verso sera apparve Giorgi Stambulia e ci disse che la mattina appresso ci avrebbero decapitati, se non rinnegavamo la nostra fede. Però la nostra risposta fu sempre una: "No, qualunque morte, piuttosto che rinnegare la nostra religione". La notte ci confessammo e ci preparammo alla grande grazia. Tosto ci addormentammo dalla stanchezza. Dormii assai tranquillo fino al sorgere dell'aurora.

"Splendeva superbamente una bella cometa dalla potente coda e mi fece risovvenire la stella ch'era apparsa ai Magi. Allegramente misi tutta la mia speranza nella grazia di Dio e mentre i nostri custodi dormivano ancora, ci scambiammo parole di consolazione e di confidenza nel Signore. Verso le 7 apparve il Khalifa, e indirizzò ad uno ad uno la domanda se volesse piuttosto morire od abbracciare l'islamismo. Dopo aver domandato al primo, si ritirò e noi ci credevamo vicini al grande momento. Ma niente di nuovo fin verso mezzogiorno, quando fummo da 18 armati di lancia condotti fuori nel campo, dove il Mahdi teneva la rivista dei suoi, circa 20.000 lancieri a piedi. Mentre passavamo tra le loro file, ci minacciavano gridando: "ammazzate questi cani". Noi siamo al nostro termine.

"Il Mahdi cavalcava un cammello, dietro a lui sedeva un fanciullo che sosteneva il parasole. Era fiancheggiato da parecchi schiavi, che con ventagli lo rinfrescavano. Quando egli ci scorse, si rivolse a noi, chiedendo se stavamo bene. Poi ci disse: Io vi faro rimpatriare. Allora noi ce ne tornammo allegri quanto ci eravamo andati, perché dubitavamo della nostra decapitazione. La sera il Mahdi ci permise di ricoverarci presso il sig. Giorgi Stambulia, dove ancor oggi ci troviamo. Tralascio di descrivere la vita piena di stenti e di miserie che passammo per 2 mesi e mezzo. Tutti soffrimmo di febbri ed insetti, dormendo sulla nuda terra. Tre di noi mancarono: il 27 ottobre sr. Eulalia, Gabriele il 31 ottobre, sr. Amalia il 7 novembre. Ancor potemmo riaverci e adesso ci troviamo bene. Abbiamo fatto parecchi tentativi per ottenere il permesso di poter partire, ma inutilmente. Sa Dio cosa ancora ci aspetta! Non ho più carta, e sì che vorrei scriverti ancora delle cose interessanti. Il fanatismo è straordinariamente grande. Saranno circa 100.000 persone quelle che attorniano El Obeid, che adesso è all'estremo. Addio, caro Giovanni, ogni bene per il tuo onomastico. Prega per me. Manda questa lettera ai miei parenti. Tuo Giuseppe" (A/32/6/1).

Intanto si era sparsa a Khartum la notizia che fosse morto p. Ohrwalder: il suo nome era stato scambiato con quello di fr. Mariani. Dopo la caduta di El Obeid, si seppe anche della morte ivi avvenuta il 27 dicembre 1882, durante l'assedio, di d. Giovanni Losi.

Per valutare nel loro giusto significato i messaggi che verremo registrando è necessario fissare alcune date:

1882-1885: i prigionieri sono insieme nel Kordofan (El Obeid, Boga, Rahad).

Alla fine del 1884 Isidoro Locatelli e le 6 suore vengono fatti partir per Omdurman.

Giugno 1885: fuga di p. Luigi Bonomi da El Obeid.

Ottobre 1885: fuga di 2 Pie Madri da Omdurman: sr. Maria Caprini, veronese, e sr. Fortunata Quascè, Nubana.

Marzo 1887: fuga di Isidoro Locatelli.

Altro dato da tener presente: nei primi tempi ad El Obeid, i prigionieri furono assistiti con denaro, vitto e alloggio dal siriano Giorgi Stambulia. Venuto questi in seguito a trovarsi lui stesso in necessità, p. Ohrwalder insisterà perché la missione venisse anche in suo aiuto.

Dopo la fuga di p. Bonomi, e ancor più dopo quella di Isidoro Locatelli, i poveri prigionieri si aspettavano, se non la liberazione, almeno soccorsi proporzionati ai loro bisogni. Purtroppo non li ricevettero, o certo non secondo i loro desideri e vere necessità. Perché? I messaggieri inviati, con denaro e merci, e con l'incarico di liberare qualcuno, se possibile, o intascarono il denaro e non si fecero più vedere, o furono derubati o uccisi per via, o tradirono chi li mandava e quelli cui erano inviati, facendo i loro interessi o quelli dei mahdisti. Naturalmente mons. Sogaro e 6 suoi missionari, dislocati in vari punti delle frontiere (p. Speeke morì ad Assuan il 4 agosto 1887) divennero sospettosi e non si fidavano di tutti i messi che si presentavano, esigendo che fosse fatto con loro un regolare contratto, davanti alle autorità. Ma pochi, anche dei più fidati, riuscivano nell'impresa. Ora ecco alcuni dei ripetuti messaggi di p. Ohrwalder e altri.

A p. Bonomi: "Omdurman, 25 maggio 1887. Ho mandato un certo Saleh wad Hag Ali affinché potessimo avere un aiuto, abbiamo bisogno strettissimo. Adesso mando ancora un certo Mohammed Said Abu Ibrahim Khalifa, perché mandino più presto possibile. Spero che non saranno avari. Con questa pure raccomando questo nominato Saleh ed i suoi aderenti, come questo portatore, sono uomini fidati, i quali faticano per noi e (fanno) piaceri immensi - onorateli, tratteli bene e non lasciaste loro mancare niente; vorrei che fossero ricevuti come me stesso - la donna di Isidoro è in pericolo forte - cerchiamo di spedirla a Berber - di là a voi di salvarla. Mohammed Said (Giorgi Stambulia) ha bisogno; è povero; è a lei don Luigi di ricordarsi di lui e mandargli qualche cosa" (A/36/6/2).

"Omdurman 7 ottobre '87- Siamo sommamente meravigliati di vederci perfettamente abbandonati. Mi pare impossibile, che dopo l'arrivo del sig, Locatelli ci sia ancora dubbio del nostro tristo esilio. Debbo persuadermi che non siamo più né fratelli né conoscenti - insomma, quel che fu e basta. Però, che non abbiano da scusarsi mai, dirò che siamo poveri e poveri assai, estremamente poveri e più che mai degni di compassione. Del resto scrivo più per piacere del portatore di queste righe, e si chiama Mohammed Hamed. Quest'uomo ascoltate in tutto che vi domanda. Lui si mette in pronto a portare tre persone - provvedete di tutto il bisogno.- Non mandate merci, mandate pura moneta. Tenete gran secreto anche di là perché è ragione - il portatore stesso dirà il resto per bocca. Sempre il vostro Giuseppe Ohrwalder" (A/32/6/3).

"Dopo 8 mesi di crudele aspettazione ecco finalmente è venuto l'uomo. Con che? Colle mani vuote. Che disinganno!..

"Finché andrà e verrà, passerà un altro anno e intanto cosa facciamo noialtri? Meno male che Saleh stesso si è mostrato generoso.

Già nella sua andata, senza conoscere né noi né voi, ci lasciò 15 tolleri, e adesso ci consegnò 100 ghinee, le quali sborserete là"...

Quel che ci lasciò Saleh ci sollevò molto noi, i quali siamo nella case proprie - ma per quelle le suore le quali sono nelle case degli altri - mi capite - non basta. Perciò preghiamo mandateci ancora una buona somma "non lasciatelo venir colle mani vuote. Se gli consegnate un poco di china, di laudano, tremor tartaro, ermetico, li porta volentieri. Noi tutti e tutte distintamente vi salutiamo dal nostro esilio. Omdurman, 10 novembre '87. Giuseppe Ohrwalder" (A/32/6/4).

I messaggi precedenti, e quelli che seguiranno, sono in generale su minuscoli pezzettini di carta. Uno è scritto su foglio grande doppio, ma forse è una copia. Ad ogni modo segno che qualche cosa era arrivato a destinazione: duecento ghinee egiziane.

"Siamo tutti ancora in vita e vi salutiamo omnes et singuli.

Se vi capitasse altra nostra domanda, saprete regolarvi, e vi preghiamo di non esserci avari, il perché non posso spiegarvi.

Omdurman 18 Novembre 1887. Vi supplichiamo di soddisfare quanto prima alla somma che abbiamo ricevuto. Sr. Grigolini Teresa" (A/32/6/5).

Ci sono poi tre pezzettini di carta, sembra inviati insieme ad un precedente messaggio, come appendici: Saleh ci portò quell'unguento: un giorno forse ci gioverà" (era l'olio degli infermi?). E aggiunge una nota birichina: "Sciol saluta Callisto - dite in secreto ad Athanasiadis e Callisto - che essa ancora è non maritata - pero in secreto - Vi saluto tutti e sono vostro servo Don Giuseppe Ohrwalder".

Non si sa chi fosse questa "Sciòl" (= nera): era nome comune di donna, e almeno una viveva ancora a Omdurman dopo la Mahdiya, ed era cristiana. Ma potrebbe anche essere il soprannome di Vittoria, già fidanzata di Callisto Legnani e cognata di Athanasiadis (che aveva sposato Anna sorella di Vittoria). Questa Vittoria sposerà poi Panayoti Trampas, e sarà benefattrice della missione e delle Pie Madri a Khartum e al Cairo. (A/32/6/6/1).

Il biglietto precedente aveva a tergo anche un appello per Isidoro Locatelli: "Questa lettera inclusa vi raccomando assai di mandarla al suo indirizzo direttamente. È pure per una povera bisognosa, la quale domanda soccorso. Facciano questa carità; vi prego assai. Giuseppe Ohrwalder".

Tre mesi dopo scriveva il bigliettino del 25.2.88, già riportato riguardo a Locatelli.

In maggio aggiungeva questo biglietto: "Voleva farvi capire che i denari presto si consumano, se non c'è qualche cosa che frutta; perciò sarebbe cosa utilissima, se ci mandassero dei colori, p.e. rosso, verde, insieme la maniera di tingere la tela in questi colori - in questa maniera avremmo un continuo frutto ed insieme occupazione utile - se ci mandassero Antonacci tutte e due le parti, o autore migliore, se conoscete, ci potrebbe esser di grande utilità. Bisogna che cerchiamo di procurarci il pane, dacché (secondo appare) la divina provvidenza ci condanna a questo esilio... Mohammed Said (Giorgio Stamublia) è in stretto bisogno - se potete pagare quel che spese per noialtri in Kordofan fareste grande carità. Don Luigi ha nota di questa sua spesa. Siamo tutti ancora vivi e vi salutiamo tutti" (A/32/6/9).

E' difficile sapere di preciso cosa riferissero i messi ai poveri prigionieri. Questa lettera deve essere intesa come uno sfogo davanti a quella che a p. Giuseppe sembrava incomprensione da parte di mons. Sogaro.

"Omdurman, 28 novembre 1888. Da pochi giorni il nostro Mohammed Said è arrivato qui e non ci ha portato né una riga né le cose chieste, ma una notizia triste, cioè che V.E. non abbia pagato i costì la somma ricevuta qui da Hag Ahmed el Farsi al suo figlio ed abbia dichiarato al detto messo, che non si voglia più darci denaro in nessuna maniera. Saleh Wad el Hag Ali si trova ancora sempre a Berber e così non tengo per ora nessuna riga da parte di V.E. Ora mi rincresce che io non abbia conosciuto i sentimenti di V.E. prima, perché mi sarei guardato bene di accettare denaro. Mi sono lasciato ingannare da alcune lettere di d. Vicentini, d. Leone e Callisto, nelle quali erano espresse le più solenni promesse di aiutarci. Ma non essendo così la cosa, V.E. non abbia paura; non molesterò altro V.E. con richieste. Forse si spera colà giù di non rivederci più! Io ho avuto sempre dubbio se si voglia aiutarci realmente, perché se ciò fosse citato il caso, già da lungo tempo si sarebbe potuto assisterci in modo conveniente, giacché costì c'è libertà. Per noi era un dolce pensiero che vi si trovano uomini, amici, i quali hanno interesse per noi, ma ora sappiamo che ci siamo ingannati. Però sappia V.E. che noi siamo nella situazione la più triste, senza alcuna speranza di redenzione, se non avessimo timore di Dio dovremmo gettarci nel Nilo.

"Inoltre dichiaro a V.E. sotto quali condizioni ho accettato il denaro. Delle 87 ghinee di Mohammed Said e delle 100 di Wad Hag Ali ho preso la metà, e l'altra metà era loro guadagno. Quanto alla somma di Hag Ahmed el Farsi, ecco come sta la cosa. I greci erano stanchi fino all'estremo e non volevano aiutare oltre le suore; o veder soggiacere quelle povere, o chiudere la bocca ai loro protettori con denaro; questa era la triste situazione, a ciò fare si offrì l'occasione e così presi per 200 ghinee in realtà soltanto 400 talleri (ma forse voleva dire 40, perché 400 talleri è l'equivalente di 200 ghinee egiziane). Giudichi V.E. su di me. Del resto, dopo questa notizia, che cioè non si cura più di noi, dovranno soggiacere le suore, mentre costì si prepara altri sacrifici per un paese nel quale sarà sempre impossibile di fare il minimo bene e dove ora noi miseramente dobbiamo perire, parte per ignoranza, parte per inganno dei superiori. Questa dichiarazione dopo la più fondamentale esperienza.

"Inoltre Stambulia molestia, angustia continuamente, dimandando da me denaro per le spese del Kordofan. Cosa fa costì d. Luigi? Non sa egli che ha preso denaro dal suddetto e che bisogna pagare i debiti? Tutto si è congiurato contro di noi. Ora V.E. sa quanto denaro ho."... (A/32/6/10).

C'é In archivio (A/32/6/13) un documento in francese, che sembra la traduzione d'una lettera firmata da d. Giuseppe Ohrwalder e sr. Teresa Grigolini il 2 dicembre 1888 a Omdurman, di mano di d. Leone Hanriot, in cui si dà la somma totale di sussidi ricevuti dal 1882, ancora nel Kordofan, fino al 1888: sarebbe un totale di 42045 piastre egiziane. Ma, o per difetto di traduzione, o per poca conoscenza delle cose, non se ne può cavare un'idea chiara.

Il seguente bigliettino è in data Omdurman, 5 luglio 1890: "Alla Missione dell'Africa Centrale in Cairo. Con questa occasione vi mandiamo i nostri saluti. Tutti e tutte siamo vivi. Abbiamo estremo bisogno di tutto. Vostro dev.mo D. Giuseppe Ohrwalder" (A/32/6/16).

Ci sono poi due lettere in data 1 agosto 1890, sullo stesso argomento. Diamo la più breve, anche perché firmata, oltre che da p. Ohrwalder, da Giuseppe Regnotto, sr. Concetta Corsi e sr. Elisabetta Venturini: "In riguardo del debito della missione dell'A.C. e questo debito è di Mohammed Said (Giorgi Stambulia), e mi meraviglio di don Luigi; non vi ha dichiarato del debito fatto? Per tal ragione prego la V.S. senza nessuna difficoltà, pagate al detto sig. Habib Nasrallah Khuri, procuratore di Mohammed Said, la somma domandata ...". "Quando don Luigi ha ricevuto questa somma, eravamo nudi ed affamati, privi di qualunque soccorso umano; Mohammed Said (Stambulia) ci dava moneta a rischio della sua vita e per tal ragione fu saccheggiato, con prender da lui le grandi somme che aveva, per cagione nostra; oltre a ciò, ha offerto per quattro mesi del mangiare, senza pagare tale somma in conto, e ciò prima dell'apertura di El Obeid; e poi per soddisfare il detto signore al suo bene fatto alla missione, non pagarlo? Tanto più che si trova in uno stato misero lui e la sua numerosa famiglia, che merita la carità e la missione non vuol pagare il suo, che ha tutto il diritto di averlo?".

Altrettanto ripetevano gli stessi in altra lettera del 27 marzo 1891. Si vede proprio che le notizie viaggiavano molto lentamente, se pur arrivando a destinazione. Di qui ulteriori complicazioni. Fu proprio di pressione da parte dei greci, in questo periodo, 1890-91, che p. Ohrwalder consigliò sr. Teresa Grigolini, da tempo in grave pericolo con le altre suore e Vittoria (Trampas), a sacrificarsi per il bene di tutte, e ad acconsentire al matrimonio religioso col greco Dimitri Cocorempas. Ne informò mons. Sogaro lo stesso padre il 25 giugno 1891

Sappia V.E. che la povera madre Teresa dovette soccombere alla violenza. Il suo protettore di una volta ora è suo marito. La storia durava da troppo tempo. Chi può salvarsi? Una suora soffre per mancanza di mestrui. Prego mandare qualche medicina. V.E. non lasci tornare l'uomo a mani vuote. Fuori di Domenico (Polinari morto 30.9.1890) siamo tutti vivi. D. Giuseppe Ohrwalder" (A/32/6/21). Forse lo stesso giorno o poco dopo, in un bigliettino consegnato allo stesso o altro messo, aggiungeva:

"Hag Ahmed el Farsi non le ha comunicato niente sul mio piano di fuga? Prego prendere informazioni da lui. Ha certamente delle notizie, conosce la mia abitazione ... ciò è molto necessario. Poi si deve rivolgere ad un intermediario. Se il segreto è tradito, niente più è possibile. Anzitutto si mantenga assoluto segreto. Prego di rendere possibile al suddetto l'esecuzione del piano. Siamo ancora tutti vivi. Molti saluti. D. Giuseppe Ohrwalder" (A/32/6/24).

 Finalmente il 9 luglio 1891 p. Leone Hanriot, a nome di mons. Sogaro, firmava con Ahmed Hassan el Abadi il contratto di liberazione di p. Ohrwalder e due suore, a cento sterline a persona: venti in anticipo, il resto dopo la liberazione (A/32/9/27).

Il 3 ottobre 1891 moriva a Omdurman sr. Concetta Corsi, e il 27 ottobre comparve sulla soglia della capanna di p. Ohrwalder un arabo che gli rivolse queste parole: "Io sono venuto. Tu vieni?" Era l'inviato della missione, Ahmed Hassun el Abadi. Sembrava incredibile. Era vero? Concertarono di prendere con sè due suore, Elisabetta Venturini e Caterina Chincarini, e la piccola Adila Morgian di 14 anni. Partiti il 29 novembre 1891 da Omdurman su quattro cammelli, le sette persone (due suore, il padre e Adila, la guida e due compagni) giunsero l'8 dicembre ai pozzi di Murra, primo presidio egiziano, il 13 a Korostio il 21 dicembre erano già in Cairo.

Qui è necessario un chiarimento. In Europa e in Egitto, e soprattutto su mons. Sogaro e negli ambienti ecclesiastici, fece enorme impressione l'apostasia, sia pure soltanto materiale, di Rosignoli e Locatelli, e poi il supposto matrimonio di greci con suore (anche se era soltanto un sotterfugio per salvare il loro onore); peggio poi, come si è detto parlando di Locatelli, quando questi violò la verginità di sr. Concetta e la rese madre. E' vero che le suore avevano soltanto voti temporanei, che rinnovavano ogni due anni, e che don Losi, incaricato per la parte spirituale da Propaganda nel vicariato, durante l'assedio di El Obeid nel 1882 aveva sciolto dai voti religiosi le Pie Madri, consigliandole a rinnovare i voti giornalmente: ma esse intendevano rimanere fedeli ai loro impegni religiosi, a costo del martirio, come dimostrarono anche col sangue nel primo periodo della prigionia. Sr. Concetta fu vittima della violenza: ma l'impressione fu enorme, e l'atteggiamento dei superiori molto severo. P. Ohrwalder fu considerato apostata perché forse si era recato qualche venerdì nel grande piazzale per la preghiera obbligatoria per gli uomini (non per le donne), e al suo arrivo in Egitto gli fu chiesta la professione di fede per essere assolto dalle censure ed essere reintegrato nell'esercizio del ministero sacerdotale. Incongruenze e incomprensioni della mentalità legalistica del tempo, che non seppe riconoscere nella sofferta agonia il merito di un diuturno martirio. La condotta di p. Ohrwalder durante tutta la prigionia fu ineccepibile. Il forzato matrimonio di sr. Teresa Grigolini un vero sacrificio eroico per salvare le consorelle in una situazione resasi insostenibile. Tanto dovrebbe bastare per togliere qualsiasi nube sulla onorabilità di p. Ohrwalder e delle suore.

Torniamo ora alla avventurosa fuga attraverso il deserto, evitando di avvicinarsi al Nilo per non essere scoperti: 700 km in 8 giorni. 7 dromedari ben pasciuti e vivacissimi alla partenza, rallentarono gradualmente il passo, mentre le loro caratteristiche gobbe scomparivano quasi del tutto. I cavalieri, stanchi e affranti, cadevano dal sonno (una suora dovette essere legata al cammello dalla sua guida; tolto il capo, che viaggiava solo di retroguardia, gli altri erano due per cammello). P. Ohrwalder, che non era scrittore, era riluttante a scrivere la storia della sua prigionia. P. Geyer gliela fece raccontare in tedesco, e la scrisse, facendola stampare l'anno stesso, 1892, a Innsbruck. Un edizione inglese fu subito approntata dal colonnello F.R. Wingate, poi governatore generale del Sudan, e stampata lo stesso anno in Inghilterra, cui seguirono numerose edizioni, anche popolari. Lo stesso Wingate informava mons. Sogaro che delle 3000 copie stampate, ben 2178 erano già state vendute il 31 dicembre 1892, e annunciava che circa 120 sterline del ricavato andavano a p. Ohrwalder perché lui "aveva sofferto la prigionia e l'aveva raccontata" (A/42/96/3).

Mons. Sogaro scriveva a p. Voltolina a Verona il 26 dicembre 1892: "La pubblicazione del lavoro di d. Ohrwalder in Inghilterra fa furori. L'editore a quest'ora avrà guadagnato 100.000 lire e noi 5000. Anche l'edizione tedesca fu esaurita e si fa la seconda" (A/41/29/52).

Quanto all'edizione italiana, Sogaro aveva scritto allo stesso il 14 il dicembre 1892 che un editore di Milano gli aveva chiesto di acquistare i diritti di stampa del libro. "Ora la traduzione si sta facendo dal sac. di Trento d. Luigi Gennari... Parlai coi Salesiani, che sarebbero disposti a stamparne 5000 copie per conto nostro per Lire 3.600". Sogaro pensava farne un buon guadagno. (A/41/29/51). Ma il 3 gennaio 1893 faceva sospendere le trattative, accennando a un altro progetto (A/41/29/53).

Fu un'occasione perduta? Il vero motivo però sembra deva ricercarsi in queste parole che p. Ohrwalder scrisse il 18 agosto 1895 da Suak al Sogaro, già dimissionario: "Prego V.E. di non più occuparsi dell'edizione del mio libro. Un poeta tedesco fece un dramma: "Gordon Pascià", con tutte le persone le quali ebbero parte in Khartum coi nomi, come Hansal, Leontidi, Klein, Uhrfelder (mio nome), Ifigenia, una greca etc. Un ritaglio di giornale tedesco mandatemi, loda assai il dramma, probabilmente sarà messo in scena quest'autunno a Dresda nel teatro della Residenza. Mi dispiace assai di venire messo in pubblico. Scrissi che facesse il piacere di cambiare il mio nome di più ... 'Uhrfelder' si capisce troppo bene da chi se ne intende. Quanto maledico questa pubblicità" (A/27/35/9). E ribadiva il suo punto di vista scrivendo allo stesso Sogaro il 22 dicembre 1895: "Mons. Roveggio mi scrisse che permettessi di tradurre il mio libro; gli risposi che non avrei nessun desiderio, anzi sarei contrario affatto ad una traduzione. S.E. restò con tento delle ragioni esposte da me" (A/27/35/11). E non se ne fece nulla. In archivio si conserva però la traduzione del Gennari: "Dieci anni prigioniero del Mahdi" (B/242/6/10/16).

Non credo tale mancata pubblicazione sia connessa con la controversia allora in corso tra missionari anziani e quelli della nuova congregazione. P. Ohrwalder vi accenna nella sua lettera da Suakin del 18 agosto sopra citata, in cui parla di tante altre cose:

"Come saprà, tutto è deciso... I vecchi possono andarsene, o restare come missionari cooperatori. Tutto bene per conto mio, perché sono decrepito, esausto, a lungo non durerà ... Ma lasciamo questo, per quanto andasse male per me, ringrazierò sempre Iddio che sono fuori dalla Mahdiya" (A/27/35/9). E l'amarezza espressa in questa lettera si può ben comprendere dal suo animo asacerbato per tante sofferenze passate; appariva, qualche anno dopo, 1904, vecchio e stanco" (A/43/6). Nel 1855 si trovavano ancora addetti alla missione i seguenti missionari anziani: Geyer, Ohrwalder, Bonomi, Giacomelli, Titz, Rosignoli, Daniele Sorur. Hanriot era già morto ad Asmara.

Appena rimessosi in salute, dopo la liberazione, Ohrwalder ritornò in Egitto, e dal Cairo, Suakin e Assuan si interessò per la liberazione di altri prigionieri, cooperando in larga misura anche alla liberazione di Slatin pascià. Nel 1898 si cercò anche di farlo nominare cappellano dei soldati cattolici dell'armata di Kitchener, ma avevano già un loro cappellano Robert Brindle, altamente benemerito, che poi divenne ausiliare di Westminster e vescovo di Nottingham, 1901-1916), e la sua proposta non fu accolta. Fu invece il primo missionario cattolico che andò a Khartum nel 1899 con p. Banholzer, e che nel 1900 si recò ad Omdurman col Roveggio, e vi si fermò come primo parroco e superiore di quella missione. Accompagnò mons. Roveggio nel suo primo viaggio sul Nilo, con la fondazione di Lui nel 1901, e nel 1902 aprì la prima cappella a Khartum: "Domenica seconda di avvento ho detta la prima volta la S. Messa nella cappella che feci a Khartum. Sono una cinquantina di soldati inglesi cattolici che vengono in chiesa, fuori degli altri stabili, in Khartum: A fine anno arriveranno a Khartum altri soldati cattolici inglesi". (A/27/36/5).

Si interessò anche per l'acquisto di due terreni a Khartum: su uno fu poi fabbricata la scuola delle suore (S. Anna), nell'altro il Comboni College. Il 6 giugno 1902 scriveva: "Omdurman resta e anche noi dobbiamo restare. I nostri cattolici sono tutti commercianti. Avremo circa 400 cattolici e la chiesetta nostra è sempre piena a tutte e due le messe. Le suore hanno una trentina di ragazze e noi 20 ragazzi a scuola.

Dopo la morte di mons. Roveggio (Berber, 2 maggio 1902) ci deve essere stato un momento di incertezza sull'avvenire della missione, ma egli scriveva: "Non vedo ragione per lasciare Lui. Anzi col tempo si potrebbe forse di lì internarsi verso i Nuba. Andar adagio credo sia il migliore, così si va arricchendosi in cognizioni ed esperienze. Se i protestanti possono stare al Sobat e sperano di fare cosa utile, perché non dobbiamo avere noi altrettanta perseveranza? La morte purtroppo sconcerterà sempre i nostri conti, ma questo si sapeva già prima e l'Africa non si è cambiata coll'occupazione degli inglesi. Come accadde a monsignore, capitò a 3 greci, dei quali in via per Halfa, 2 morirono e uno poté salvarsi a Halfa. Un siriano venendo da Halfa arrivò qui per morirsene il giorno dopo" (C/263/15/2).

 Abuna Yusef, come era chiamato, era una figura popolare a Omdurman, durante e dopo la prigionia. Beppo Regnotto, passando da Assuan nel 1898, riferiva a p. Tappi, che ne scrisse a Roveggio l'11 dicembre: "P. Ohrwalder si è sempre comportato bene. Abbastanza significativo il fatto che mentre egli (Regnotto) viveva con p. Rosignoli, il suo figlio Alessandro fu battezzato dalla Grigolini" (A/37/12/22). Era considerato il padre di tutti i cristiani, e godeva la stima e amicizia di alcuni alti ufficiali, specialmente di Wingate e Slatin, con i quali era in corrispondenza epistolare. Ciò però gli procurò anche noie e amarezze. Molti visitatori volevano vedere questo missionario già prigioniero dei mahdisti e parlare con lui. Ma non tutti si dimostrarono discreti, e qualcuno sparse voci scandalistiche a suo riguardo. Queste voci furono raccolte e poi stampate in un libro, con la foto di p. Ohrwalder, da una ricca signora americana, in viaggio turistico nel Sudan nel 1912-13: "Avemmo con lui una visita molto interessante. E' un austriaco, alto e magro. Ha una scuola di ragazzi indigeni, dall'aspetto poco intelligente. Nel suo libro non parla del suo matrimonio, ma altre voci dicono che fu obbligato a sposare una indigena, dalla quale ebbe figli, che egli mantiene ma che non vivono con lui. A causa del suo matrimonio, la Chiesa gli ha proibito di dire messa, e così può fare solo il maestro - e in un terreno così arido. Sembra che dovrebbe detestare di vivere dove ha sofferto così crudelmente. Ma forse egli pensa di dover fare qui un buon lavoro" (A white woman a black man's country, by Nettie Fowler Dietz, Omaha, Nebraska, 1926, "privately printed", 327; p. 73).

E' impossibile immaginare quanto queste calunnie affliggessero p. Ohrwalder. Mons. Stoppani mi diceva nel 1929 in Inghilterra che poco prima di morire Abuna Yusef gli aveva scritto pregandolo di accoglierlo a Wau per sottrarsi ai visitatori importuni..

Ma morì improvvisamente a Omdurman, il 6 agosto 1913, durante il pranzo, mentre si chinava per dare da mangiare al gatto. (Testimonianza di p.F.Bertenghi, 1920).

 P. Ohrwalder, nel suo libro e in Nigrizia 1893, accenna al comportamento dei neri cristiani durante la mahdiya. "Dei nostri negri cristiani solo pochissimi rimasero in vita; quasi tutti morirono nelle continue guerre, e ancor più nella terribile carestia del 1889. Fra i pochi sopravvissuti si trova un certo Pancrazio Morgian. Questo ragazzo di spiriti vivaci imparò a leggere e scrivere in italiano e arabo. Fatto soldato dai mahdisti, gli piacque la vita del campo, come quasi tutti i negri, e perché si distinse pel suo coraggio, fu promosso ras-mia (capo di cento). Memore d'esser stato figlio della missione, ebbe sempre cura dei suoi compagni, li tenne raccolti ed a molti, che erano stati venduti come schiavi, ottenne colla sua influenza, la libertà. Nonostante tutta la sua sollecitudine per i suoi compagni, non li potè salvare da quella carestia, la quale spopolava paesi interi. Conservò sempre rispetto per i suoi missionari e, se l'avesse potuto, ci avrebbe di certo soccorso. Caduta Khartum, si venderono gli schiavi presi, fra i quali si trovò anche una madre con due figlie, educate nella nostra missione; dopo molte peripezie, vennero queste a Gallabat, ai confini d'Abissinia, dove morirono di fame la madre e una figlia, mentre l'altra, chiamata Adila, rimase colla sua padrona a Gadaref. Pancrazio, trovandosi in quel tempo colà, incontrò per caso la ragazza Adila, la riconobbe come educanda della missione, ricercò la sua padrona, e la comprò dopo pochi giorni per circa 180 marchi.

"La fanciulla era in età  di circa 12 anni. Pochi mesi dopo venne essa a Omdurman in compagnia di Pancrazio, il quale me la diede in dono. Fortunata fanciulla! Poco tempo dopo la presi meco nella mia fuga in Egitto, ed oggi si trova a Gesira nella nostra colonia" (Nigrizia 1893, 146-147). Sposò Felice Giomaa, e sopravvive la figlia Agnese.

Un ricordo personale. In un raduno di sacerdoti a Southampton nel 1928, mons. Doubleday, vescovo di Brentwood, saputo ch'ere dei missionari di Verona, mi disse: "Vi conosco. Ho letto il libro di p. Ohrwalder. Era un grande uomo. Un grande missionario".

 Da Bano Leonzio, Missionari del Comboni 4, p. 70-85

 

P. Ohrwalder Josef (06.03.1856 – 06.08.1913)

Er war Freund und Kurskollege von P. Dichtl und lernte die Mission durch den Marienverein von Wien und vor allem durch Mitterrutzner kennen. Auch Comboni nennt die beiden meist zusammen „i due tedeschi“ (die beiden Deutschen) und sie sind für ihn unter den am meisten geschätzten jungen Mitarbeitern. Dichtl konnte wohl besser schreiben, war begeisterungsfähiger, zumindest eloquenter. Ohrwalder war pragmatischer, zäher und mit weniger Worten, „più arditello“ (etwas trockener). Er stammte aus Lana bei Meran in Südtirol und wurde am 6. März 1856 geboren. 1875 trat er in Verona ein und wurde von Comboni in der Hauskapelle der Niederlassung in Kairo am 8. Dezember 1880 zum Priester geweiht, drei Tage nach Johann Dichtl.

Wie geschätzt er war, zeigt, dass man nach dem Tod Combonis an ihn sogar als Nachfolger dachte, obwohl er damals gerade 25 Jahre alt war. In diesem Sinn schreibt P. Sembianti aus Verona an die Propaganda Fide in Rom. Dichtl und Ohrwalder fuhren nach der Priesterweihe zusammen mit Comboni nach Khartum. Ohrwalder wurde in die Mission nach Delen geschickt. Damit trennten sich die Wege der beiden, denn als Ohrwalder 1891 aus der Gefangenschaft des Mahdi fliehen konnte, war Dichtl bereits gestorben.

Doch der Reihe nach. Die Mission in Delen war kein Zuckerschlecken. Ein Brief an seinen Freund Dichtl drückt sehr schön die Situation und auch den Charakter Ohrwalders aus: „Hier meine ersten Zeilen aus Gebel Nuba. ... Bis jetzt hatte ich noch keinen einzigen guten Tag. Die meiste Zeit habe ich im ‚angareb‘ (Bett) verbracht.... Kaum dass ich hier war, bekam ich einen Ausschlag am ganzen Körper, der es mir tagelang unmöglich machte, meine Position zu ändern. Ich hatte auch Schmerzen im Bauch wie nie zuvor. Dazu einen Durchfall. Es scheint, dass es jetzt langsam besser wird. Ansonsten bin ich zufrieden.“ Dann schreibt er weiter (Comboni war drei Monate zuvor gestorben): „Mir kommt es vor, als sei ich in einem fremden Land. Mir scheint, ich sei nicht mehr in der Mission meines Bischofs. Alles ist mir fremd. Im Übrigen ist das Land sehr schön. Ich habe bisher allerdings kaum etwas gesehen, denn vom Bett aus kann man keine Studien machen.“

Ohrwalder ist damit auch später nicht weit gekommen, denn bereits im Sommer des Jahres 1882 brach über seine Mission das Unglück herein: Seit Monaten war die Gegend um Delen von den Anhängern des Mahdi kontrolliert. Die Atmosphäre vergiftete sich immer mehr, auch gegen die christlichen Missionare. Darum dachten die Missionare zu retten, was zu retten war und bereiteten eine Flucht vor. Die „Früchte ihrer Arbeit“, ein paar Handvoll getaufte oder sich auf die Taufe vorbereitende Kinder, wollten sie mitnehmen und auch in Sicherheit bringen. „Alles war bereit“, schrieb Ohrwalder in einem aus dem Lager des Mahdi geschmuggelten Brief an Dichtl, „wir und unsere Buben und Mädchen mit dem, was wir mitnehmen konnten, gingen gegen Mitternacht an den vereinbarten Ort, von wo aus wir zusammen aufbrechen wollten.“ Aber sie wurden an die Mahdisten verraten und zurückgeholt. „Wir kehrten zurück in unsere Behausungen und fanden alles verwüstet. Während unserer Abwesenheit hatten die Nuba alles geraubt, was ihnen nützlich erschien, und das übrige zerstört.“ Weiter schreibt er, anschließend seien sie zum Abgesandten des Mahdi gebracht worden. Sie fragten ihn, was nun weiter mit ihnen geschehen würde. Die Antwort: „Wenn ihr Muslime werdet, wird alles gut.“

Für ihn und die übrigen Mitglieder der Mission, darunter vier Schwestern, folgte eine fast zehnjährige Gefangenschaft im Heerlager des Mahdi. Ohrwalder hat sie in seinem bereits erwähnten Buch beschrieben.

Ziemlich am Anfang der Gefangenschaft wurden sie vor die Wahl gestellt, sich entweder zum Islam zu bekennen oder hingerichtet zu werden. Sie waren entschlossen, ihrem Glauben treu zu bleiben und bereiteten sich auf den baldigen Tod vor. Es kam aber anders. Der Mahdi selbst scheint beeindruckt gewesen zu sein und ließ sie am Leben, zumal vermutlich muslimische Berater dem Mahdi sagten, dass es nicht im Sinn des Propheten sei, religiöse Führer – auch anderer Religionen – zu töten. Was folgte, waren Jahre zermürbender Schikanen und der Versuch, in einer ausweglosen Situation glaubwürdig zu leben und zu überleben. Und da, so darf man sagen, bewährte sich der Pragmatismus Ohrwalders, der bald zum Haupt und Sprecher der Gruppe wurde, nachdem Don Giovanni Losi, sein Oberer in Delen, den Strapazen erlegen war, und einem anderen Mitbruder die Flucht gelungen war. Ohrwalder suchte Verbündete in dem fast hunderttausend Menschen umfassenden Camp und fand sie vor allem unter griechischen und anderen Kaufleuten sowie gefangenen Europäern, unter ihnen einem österreichischen Haudegen namens Rudolf Slatin. Ohne sich je zum Islam zu bekennen, ließ Ohrwalder sich gelegentlich beim Freitagsgebet sehen. Deswegen sah er sich nach seiner Befreiung Vorwürfen ausgesetzt. Die größeren Vorwürfe kamen aber wegen seiner Haltung den Schwestern gegenüber.

Unter diesen war Teresa Grigolini, die von Comboni besonders geschätzt war und die er als spätere Generaloberin der „Pie Madri della Nigrizia“ („Fromme Mütter des Negerlandes“, heute: „Comboni-Missionsschwestern“) gedacht hatte. Angesichts der Drohung, in Harems verteilt zu werden, riet P. Ohrwalder den Schwestern, Scheinehen mit vertrauenswürdigen Männern einzugehen. Teresa Grigolini schloss eine solche mit dem griechischen Kaufmann Kokorempas. Da die Schwestern aber keine Kinder bekamen, wurde der Druck stärker und die Gefahr, vergewaltigt und anderen Männern zugeteilt zu werden, immer größer. In dieser Situation riet Ohrwalder Schwester Grigolini, nun doch eine richtige Ehe einzugehen. Er traute sie kirchlich im Geheimen. Sie bekam mehrere Kinder, von denen zwei überlebten. Nach der Flucht Ohrwalders blieb sie die Seele der winzigen geheimen Gruppe von Christen in Omdurman. Als Ohrwalder nach dem Ende der Mahdiherrschaft 1899 wieder nach Omdurman kam, fand er im Haus von Teresa Grigolini-Kokorempas seine erste Unterkunft und richtete die erste Glaubensschule ein. 

1891 gelang Ohrwalder und zwei Schwestern im Dezember die Flucht durch von Bischof Sogaro bezahlte Fluchthelfer. Sie legten in acht Tagen auf Kamelen 700 Kilometer zurück. Die einzige Mitwisserin der Flucht, Teresa Grigolini-Kokorempas, und ihr Mann wurden für mehrere Tage in Ketten gelegt.

Das Buch, das Ohrwalder über seine Gefangenschaft und Flucht schrieb, fand viel Interesse und wurde ins Englische und Italienische übersetzt. Er selber wollte dem Interesse – und auch den ständigen Fragen und Verdächtigungen - so bald als möglich entfliehen und ging, kaum wieder bei Kräften, nach Ägypten zurück. Kairo, Suakin und Assuan waren Stationen seines Wirkens. 1900, als es wieder möglich war, ließ er sich in Omdurman nieder, schon eine Art Legende. Er starb am 6. August 1913 während des Mittagessens im Alter von 69 Jahren an einem Herzinfarkt, als er sich gerade hinabbeugte, um dem Kater etwas zu fressen zu geben. Mit den Mitbrüdern der neuen Kongregation stand er in freundschaftlicher Verbindung, zumal einer, mit dem er sich gut verstand, Franz Xaver Geyer, inzwischen zu ihr gehörte und seit 1903 sein Bischof war. R.I.P.      P. Alois Eder