Domenica 9 agosto 2015
Esiste un metodo comboniano di lavoro missionario? Se si, in che cosa consiste? Questo articolo ha fatto seguito alla pubblicazione della Ratio Missionis (RM) dell’Istituto comboniano. La RM era un tentativo di definire cosa fosse la missione per noi, missionari comboniani del XXI secolo, e che cosa comportasse in termini di atteggiamenti, criteri e scelte. Ma la domanda che molti comboniani si facevano era se esistesse un metodo di lavoro che ci distinguesse dagli altri Istituti. La RM, per la delusione di molti, non ha risposto a questa domanda in modo esaustivo. Era, quindi, interessante indagare su come i Capitoli Generali dell’Istituto avessero trattato il tema dell’evangelizzazione/missione ad gentes e quali fossero le tematiche di fondo dibattute nelle assisi capitolari. Infatti, in ogni Capitolo Generale si cerca ‘dare ragione’ a ciò che si fa e a come lo si fa, cioè si elabora, anche se non sempre in modo articolato, una Ratio Missionis adattata ai tempi. Nella foto: P. Mariano Tibaldo, autore dell’articolo.

Il presente elaborato, che prende in considerazione i Capitoli Generali dal 1969 al 2009, tratta, per ogni Capitolo Generale, le seguenti tematiche: fine e natura dell’evangelizzazione, i suoi ambiti e orizzonti (cioè a chi e dove si indirizza l’azione missionaria, quindi il contesto in cui si svolge tale attività); le vie dell’evangelizzazione (pertanto le modalità attraverso cui essa si esplica); i responsabili dell’evangelizzazione e le dimensioni spirituali del missionario.

Non tutti i Capitoli hanno avuto lo stesso spessore e la stessa importanza: i due Capitoli del 1969 e del 1975 sono stati quelli che hanno dato un’impronta fondamentale alla missione comboniana: essi hanno liberato la missione da orizzonti strettamente geografici e la hanno orientata verso le gentes cioè i ‘più poveri e abbandonati in senso sociologico come in senso religioso’ (due dimensioni che dovrebbero essere sempre tenute insieme per giustificare la nostra presenza). Ogni Capitolo, tuttavia, ha dato un suo contributo originale all’evangelizzazione. È quindi auspicabile che anche il prossimo Capitolo Generale ‘dia ragione’ della missione comboniana nella complessità del mondo d’oggi prestando ascolto a “ciò che lo Spirito di Dio dice alle Chiese”.

 

P. Everaldo de Souza Alves,
missionario comboniano,
nella Repubblica Centrafricana.


 

L’evoluzione dei contenuti,
delle modalità e del termine

evangelizzazione ad gentes
nei Capitoli Generali dal 1969 al 2009

P. Antonio Vignato, nel Sudan dei primi anni del secolo scorso successivi alla Mahdia, si domandava come si potesse organizzare una missione, considerando che non si avevano modelli da imitare e nessuno dei missionari presenti aveva un’esperienza da condividere al riguardo; infatti, la rivoluzione del Mahdi aveva cancellato il lavoro missionario per quasi un ventennio e non esistevano, nel Sudan, manuali che guidassero l’attività missionaria.

Nelle tre missioni del sud si erano affermati due criteri di lavoro: quello di chi affermava che, per ‘fare’ i cristiani, “bisognava prima fare gli uomini” – quindi dando priorità all’ “assistenza caritativa”; e di chi, invece, asseriva che prima bisognava “fare dei buoni cristiani” per ottenere “bravi uomini” – e, perciò, la formazione religiosa doveva essere prioritaria rispetto alla cosiddetta “beneficenza”[1]. Naturalmente, le questioni poste non erano di pura teoria missionaria ma erano frutto di un particolare contesto in cui lavoravano i primi missionari, a contatto con una popolazione abbrutita da anni di schiavitù, afflitta dalla distruzione delle culture e della coesione sociale, e falcidiata dalla fame e dalle malattie.  Due metodi di “organizzare una missione”, ciascuno promosso da due figure straordinarie: il Vicario Apostolico Franz Xaver Geyer propendeva per la promozione umana come primo passo per arrivare, in seguito, alla formazione religiosa; il Vignato favoriva invece, come suaccennato, un approccio in cui l’insegnamento religioso doveva essere il compito primario.

Il principio del Vignato sarà quello adottato nelle nostre missioni sia del Sudan che in quelle dell’Uganda; un principio che, poi, si sarebbe arricchito di un metodo missionario vero e proprio che sarebbe stato esposto nella sua Raccolta di suggerimenti e dottrine per utilità pratica del giovane missionario.

Il metodo su ‘come organizzare una missione’ rimase invariato (almeno nelle missioni del Sudan e dell’Uganda) fino agli anni sessanta del secolo scorso quando, sotto la spinta dei cambiamenti in atto nella società africana e nella Chiesa e a contatto con nuovi campi di lavoro, si cominciò a porre in questione questo metodo e cercare vie nuove di presenza. Non solo. L’accento posto sulla primigenia inspiratio e, quindi, sulla particolarità carismatica dell’essere missionario comboniano, fece sorgere la domanda se esistesse pure una peculiarità di metodo di lavoro.  Ecco, quindi, gli sforzi di specificare, negli anni seguenti, il metodo comboniano di attività missionaria attraverso varie formulazioni del tema, con relativi tentativi di risposta: metodo di apostolato, metodologia missionaria, metodologia missionaria comboniana, ratio evangelizationis, ratio missionis. 

Finora, però, il lungo processo non ha portato a formulazioni conclusive e il tema, ad essere proprio sinceri, sembra ormai logoro. Oltretutto, è un fatto ormai assodato che l’epoca dei manuali, come la pretesa di imbrigliare la missione in particolari principi, norme e regole, sia superata. Ma questo non ci esime dal domandarci se veramente esista una nostra specificità di metodo di lavoro e in che cosa essa consista.

 

Missionari comboniani,
che hanno partecipato
al Forum Sociale Mondiale,
dal 24 al 28 marzo 2015,
a Tunisi, in Tunisia:
P. Fernando Zolli, Italia,
P. Joseph Mumbere M., R.D. Congo,
P. Daniele Moschetti, Sud Sudan,
P. Isaiah Nyakundi Sangwera, Etiopia,
P. Jean Claude Kobo, R.D. Congo.

 

 

Le tematiche di fondo

Ci sono due assi portanti che hanno qualificato l’identità del missionario comboniano e che sono chiaramente elaborati dal 1969 in poi: il Comboni come figura di fondazione e orizzonte ideale e la missione/ evangelizzazione ‘ad gentes’ come criterio delle scelte di vita dell’Istituto.

“Nato dalla missione e per la missione – afferma il Capitolo del 1969 – è alla missione che l’Istituto deve continuamente riferirsi. Tutte le sue strutture, le opere, le Costituzioni che lo reggono, la formazione dei suoi membri, il genere di vita e di attività che essi svolgono devono ispirarsi ad un fine esclusivamente missionario. La sua stessa spiritualità è legata al carisma della vocazione missionaria […] nel modo che ha qualificato la vita del Comboni e dei membri più rappresentativi dell’Istituto” [2].

Indagare sull’evangelizzazione/missione ad gentes e analizzare, per quanto sia possibile, come alcune tematiche di fondo legate a tale dimensione siano state elaborate, è l’obbiettivo di questo elaborato. Tali tematiche – seguendo, in linea di massima, la struttura dell’enciclica Redemptoris Missio – sono le seguenti: fine e natura dell’evangelizzazione, i suoi ambiti e orizzonti (cioè a chi e dove si indirizza l’azione missionaria, quindi il contesto in cui si svolge tale attività); le vie dell’evangelizzazione (pertanto le modalità attraverso cui essa si esplica); i responsabili dell’evangelizzazione e le dimensioni spirituali del missionario. Ritengo che le tematiche sull’evangelizzazione/missione ad gentes si siano arricchite, negli anni, di sfumature differenti perché diversi erano i contesti politici, sociali, religiosi e istituzionali in cui l’Istituto e i suoi membri operavano.

Naturalmente, bisognerebbe studiare la storia generale dell’evangelizzazione nell’Istituto per avere un quadro generale degli argomenti in questione. Penso sia possibile, però, studiare tali tematiche in ciò che “è l’autorità suprema dell’Istituto, esercitata in maniera straordinaria e collegiale, [che] esprime la partecipazione di tutti i missionari alla vita dell'Istituto” (Regola di Vita n. 146), cioè i Capitoli Generali e vedere come sono state elaborate nel corso degli anni.

Vorrei prendere in esame gli Atti Capitolari dal 1969 al 2009. Parto dal 1969 perché è da quell’assise capitolare che lo ‘specifico’ del missionario comboniano diventa oggetto di riflessione. Per evidenti limiti di comprensione della lingua tedesca da parte mia, indagherò solo gli Atti dei Capitoli dei FSCJ e non quelli della Congregazione dei MFSC. L’unione delle due Congregazioni sarà definitivamente sancito, come è noto, nel Capitolo Generale del 1979.

Un elemento importante da chiarire è cosa si intenda per ‘contesto’ quando si parla di Capitoli Generali. E’ indubbio che vi sia un contesto generale dato dalla situazione della Chiesa e dell’Istituto, ma è altrettanto evidente che ognuno dei delegati al Capitolo porti con sé, potremmo dire, un particolare contesto dato sia dal luogo dove il missionario opera sia dalla sua geografia di provenienza familiare. Un confratello che lavora in America Latina con i popoli indigeni avrà un modo particolare di declinare l’impegno missionario ‘ad gentes’, così come diversa sarà la maniera di attuarlo di un confratello che lavora con i popoli pastori dell’Africa dell’Est; diverse saranno le sensibilità circa le strutture di missione di un confratello africano da un europeo. Cioè, fermo restando che la ‘missione come evangelizzazione ad gentes’ faccia parte della nostra identità, i punti di vista teorici e le esplicitazioni pratiche di tale principio costituente diventeranno più differenziate nelle varie situazioni. E ciò ha delle ripercussioni non indifferenti in un Capitolo Generale. Sono convinto che più la composizione geografica e di lavoro dei partecipanti ad un Capitolo si diversifichi, più i temi tendano ad assumere sfumature diverse (quando non precomprensioni differenti); questo può creare conflitti ma anche nuovi arricchimenti nella comprensione stessa della missione.

Due note in chiusura. Le tematiche di ogni Capitolo sono precedute da una breve (necessariamente incompleta) descrizione del contesto politico-ecclesiale mondiale e della situazione delle missioni comboniane: il contesto ‘situa’ il Capitolo e ne da le coordinate storiche che, parzialmente, ne spiegano le decisioni.

Nel corso dell’elaborato le parole ‘evangelizzazione ad gentes’, ‘evangelizzazione’, ‘attività missionaria’, ‘azione missionaria’, ‘missione’ sono praticamente intercambiabili e usate con lo stesso significato.

 

P. Eliseo Tacchella,
missionario comboniano,
con postulanti,
nella RD. del Congo.

 

1. Il Capitolo del 1969

1.1 Il contesto 1960-1969

Diversi fermenti politici ed ecclesiali scuotono gli anni sessanta del secolo scorso. È il periodo della cosiddetta Guerra Fredda, delle Indipendenze di gran parte delle Nazioni africane ma anche delle guerre civili in Nigeria, Burundi, Congo, Sudan; è il tempo delle contestazioni studentesche in Europa e del maggio francese nel 1968; dell’inizio della dittatura militare in Brasile e del massacro degli studenti a Tlatelolco, in Messico nel 1968, alcuni giorni prima dell’inizio dell’olimpiade – per nominare solo alcuni eventi in Continenti e Nazioni dove i Comboniani erano presenti.

Eventi carichi di speranza per la Chiesa e per il mondo e che incideranno sulla teologia e sulla missione negli anni a venire sono il Vaticano II, la pubblicazione delle encicliche sociali di Giovanni XXIII e Paolo VI, Mater et Magistra, Pacem in Terris e Populorum Progressio e l’enciclica di Paolo VI Ecclesiam Suam - considerata il documento programmatico del suo pontificato e incentrata sul dialogo; inoltre, l’abrogazione dello jus commissionis e il sinodo Latinoamericano di Medellin del 1968.

I vescovi africani si incontrano in Uganda nel luglio-agosto del 1969 in occasione del primo viaggio di un Papa, Paolo VI, in terra africana; famose le parole del Papa in quell’occasione: “Adesso voi Africani siete missionari di voi stessi […]”. 

Il X Capitolo  Generale speciale dei Missionari Comboniani fu convocato nel maggio del 1969 e durò – con due brevi interruzioni – fino al 6 dicembre dello stesso anno; il Capitolo aveva lo scopo di dar seguito al rinnovamento della vita religiosa propugnato dal Vaticano II. I capitolari di diritto e di nomina furono 67: 22 dall’Africa, 17 dall’America Latina, 17 dall’Europa e 11 membri della Curia. Il 95,5% era di nazionalità italiana.

Il Capitolo ebbe luogo, come accennato, in un periodo di sconvolgimenti epocali per la Chiesa e la società ma anche in un momento di sofferenze per i Comboniani, soprattutto in Africa: ricordiamo le espulsioni in massa dal Sud Sudan nel 1964 con la conseguente apertura di nuovi campi di lavoro in Burundi, Congo, Togo e Repubblica Centrafricana, quest’ultimo nella direzione di assistenza dei rifugiati sudanesi[3]. In Etiopia si riaprì la missione tra il 1965 e il 1966 – dopo una breve presenza tra il 1937 e il 1941. La guerra civile in Congo, che costò la vita a migliaia di persone tra cui 109 missionari, fu tragica anche per i Comboniani che persero quattro dei loro confratelli.  Non solamente in Congo; anche le morti violente di p. Luigi Corsini in Messico nel 1963, p. Barnaba Deng in Sudan nel 1965 e p. Marco Vedovato nel 1968 in Brasile nella regione di Balsas allungarono la lista dei comboniani uccisi[4].  Ma i problemi non erano terminati. L’Istituto, infatti, stava per essere investito da una crisi – che paleserà tutta la sua virulenza dopo gli anni ‘70 – che la Chiesa stessa stava già vivendo e di cui la diminuzione delle vocazioni in Europa era il segnale[5]. I Superiori che si riunirono per il Capitolo Generale ne erano consapevoli, anche se difficile era trovare una soluzione ai problemi: sarebbe stato sufficiente ritornare – come alcuni credevano – alle ‘sane tradizioni’ dell’Istituto e all’osservanza minuziosa di regole, oppure una riforma più radicale sarebbe stata necessaria[6]? Il Capitolo opterà per la seconda soluzione.

È in questo contesto fatto di luci ed ombre che si svolse il X Capitolo Generale. 

1.2 Natura e Fini dell’evangelizzazione

Con brevi pennellate gli Atti Capitolari (AC) tracciano la natura della missione che “deriva da Cristo […] per la realizzazione del disegno del Padre” (II, 1) [7]; essi sottolineano che l’Istituto è una “famiglia totalmente missionaria” il cui scopo è “di evangelizzare e fondare la Chiesa” favorendo strutture e ministeri che la rendano autonoma e autosufficiente (I, 4; II, 58); il Capitolo  chiarifica così l’identità propria dei Missionari Comboniani e la finalità della missione che è la plantatio ecclesiae, secondo le indicazioni del decreto conciliare Ad Gentes.

Allo stesso tempo, gli AC articolano più compiutamente le finalità dell’attività missionaria. È una missione la cui attenzione è diretta non tanto sul numero di battezzati ma sulla loro qualità che si misura sulla capacità di influenzare la società (II, 13-14); un’attività missionaria che vuole far sorgere una comunità “simile […] alla primitiva comunità cristiana” (II, 30), trasformare in Popolo di Dio e sua famiglia quei gruppi umani che sono ancora “non popolo”: essa, quindi, considera la salvezza come un evento essenzialmente comunitario (I,4; II, 13-14).  Gli AC sottolineano la doppia dimensione dell’attività missionaria: come evangelizzazione e sviluppo umano perché la salvezza “abbraccia tutto l’uomo: nella sua componente materiale non meno che in quella spirituale” (II,8). È da sottolineare come gli AC – indubbiamente sotto l’impulso delle encicliche sociali e del Vaticano II – amplino il concetto di salvezza: da una dimensione confinata all’ambito individuale e spirituale ad una con caratteristiche più comunitarie e storiche.

1.3 Ambiti e Orizzonti

Gli AC, riconoscendo che l’Istituto è rimasto “fedele all’ispirazione primitiva – la missionarietà – a vantaggio dei più poveri nella fede” (I,65) riconosce che la scelta dei campi di lavoro possa mutare, nel corso degli anni, per due ragioni essenziali. Prima di tutto, perché le situazioni storiche cambiano. Il Capitolo si richiama al Comboni che “fu sempre sensibile ai segni dei tempi (sua è l’espressione ‘la pienezza dei tempi africani’) che gli indicavano che per l’Africa era giunta ormai l’ora di grazia” ( II, 51b). Prendendo spunto dalle indicazioni della storia dell’Istituto gli AC fanno risaltare come la scelta di lavorare tra le popolazioni nere degli Stati Uniti e in America Latina avesse avuto luogo in un momento in cui la situazione dei “più poveri e abbandonati in senso sociologico come in senso religioso” e la lettura dei segni dei tempi in questo Continente interrogavano l’Istituto e interpellavano “in modo urgente e drammatico la Chiesa” (II, 55). Che le ragioni della nostra presenza negli Stati Uniti – come ebbe a scrivere nel suo diario di viaggio l’allora p. E. Mason – fossero anche determinate da scopi economici e dalla ricerca di vocazioni, non invalida il fine primario che era quello di lavorare tra le popolazioni nere (II, 53, nota 2).

Ma la seconda ragione è altrettanto importante e si basa sull’evoluzione del concetto stesso di attività missionaria, espresso nel decreto Ad Gentes n.6, che pone al centro della sua azione i popoli e i gruppi che ancora non credono in Cristo. Gli AC prendono atto che “[i criteri geografici e giuridici] sebbene avessero il vantaggio di distinguere nettamente le missioni dalle non-missioni, oggi non sono più sufficienti” (II,56). Infatti, la nuova prospettiva “tiene conto prima di tutto dei diversi popoli e dei diversi gruppi di culture” (II, 57b). È quindi giustificato l’appello che “ogni Capitolo riesamini i nostri campi di lavoro” (II, 55) che devono essere determinati “dal fine strettamente missionario e dai criteri di scelta comboniani” (II, 55).

Il fine ‘strettamente missionario’ e i ‘criteri di scelta comboniani’ sono esplicitati nella scelta dei ‘referenti’ – i più poveri e abbandonati – considerati nella loro situazione sia religiosa che socio-economica e nella modalità della missione. I più poveri e abbandonati sono coloro “non sono mai stati evangelizzati”, quei gruppi umani dove la Chiesa non esiste e “per i quali sembra maturare il tempo della salvezza”:  perciò l’Istituto privilegia “in linea di massima gli stadi iniziali dell’evangelizzazione” (II, 61b, 67). Il primo è quindi un criterio prettamente religioso. È interessante notare come questo criterio venga applicato in altri due casi: in società in cui, nonostante la Chiesa sia presente, “sussistano gruppi umani estranei alla Chiesa”, ma anche in società in cui si perde “la presenza della Chiesa” per cui si esige “una nuova evangelizzazione” (II, 59a,b).  Uno sviluppo stimolante per le ricadute che questi principi possono avere circa la scelta di nuovi campi di lavoro.

 Ma i “più poveri e abbandonati” sono pure coloro che “appaiono anche umanamente più poveri e bisognosi” (II, 67). Il secondo criterio sottolineato è perciò di natura socio-economica, anche se il Capitolo sembra dare l’impressione di privilegiare maggiormente il principio di natura religiosa.

1.4 Le vie dell’evangelizzazione

I ‘segni dei tempi’ diventano luogo teologico e sfida all’attività missionaria. Si parla quindi di “mutate situazioni storiche […] che ci costringono a ripensare alle missioni ‘ad gentes’ nelle loro motivazioni e nello stile in cui vendono realizzate” (II,7); si insiste sulla necessità che ‘la finalità e la metodologia missionaria’ vadano ripensate e adattate alla luce dei segni dei tempi, come anche “le varie ‘fasi dell’attività missionaria [debbano] essere sottoposte ad esame” ( II, 6).

Le ‘mutate situazioni storiche’ sono individuate in tre eventi epocali: nei popoli del Terzo Mondo che stanno affacciandosi sul proscenio del mondo “con tutto il cumulo di problemi sociali ed economici e che spingono verso una maggiore fratellanza e uguaglianza sociale”, “la scoperta dei valori delle culture e delle religioni non cristiane” e “l’affermazione dei diritti della persona e delle singole comunità che ha portato ad uno spiccato senso di libertà e di autodeterminazione, non escluso quello religioso”. (II, 3).

Perciò gli AC affermano che la “nuova missione” esige rapporti improntati al dialogo e alla conoscenza approfondita degli interlocutori (II, 10) - di cui lo studio della lingua locale è uno degli strumenti essenziali (II, 111). Ma impone anche che il rapporto con le altre forze nella Chiesa sia ispirato al servizio, allo spirito di convergenza, collaborazione e dialogo (II, 17). Come il dialogo diventa l’atteggiamento fondamentale del missionario in relazione con le culture e le religioni, così esso è la qualità imprescindibile nei rapporti con altri responsabili dell’attività missionaria per cui “non è più pensabile lavorare in compartimenti stagni. […] Bisogna lavorare in sintonia e sinergia […] nello sforzo di costruire il Regno di Dio nel mondo” (II, 17).

In linea con il decreto Ad Gentes l’attività missionaria viene scandita da varie fasi che, dalla testimonianza e l’annuncio del kerygma, porta alla formazione della comunità cristiana con le sue strutture organizzative e giuridiche (II, 26-35). Nella fase della testimonianza - o pre-evangelizazione come è chiamata in un’altra circostanza (II, 61b) - le opere sociali (di cui le scuole sono tra le più importanti) “pur non essendo un pretesto per realizzare conversioni, devono essere finalizzate all’attività apostolica” (II, 24); così come nella fase di annuncio e di costruzione della comunità cristiana i mezzi di comunicazione sociale diventano strumentali a tali scopi  (II, 29). Ciò che gli AC sembrano far intendere è il valore strumentale delle opere sociali e dei mezzi di comunicazione, essenzialmente ordinati all’attività apostolica il cui fine è la plantatio ecclesiae. Una certa ambiguità tra l’affermazione circa il valore delle culture e religioni non-cristiane in relazione alla salvezza e la promozione dello sviluppo integrale dell’uomo da una parte, la necessità della Chiesa e una comprensione circoscritta di evangelizzazione dall’altra, sembrano sussistere senza soluzione di continuità. Questa apparente ambiguità potrà essere risolta, negli anni a venire, dall’assunzione della categoria del Regno di Dio.

È comunque evidente che una nuova sensibilità storica irrompa nell’Istituto – così come, per merito del Vaticano II, un nuovo intendimento della missione e del nostro patrimonio ideale. Questa si esprime nella comprensione più articolata dei processi storici (e, quindi, del valore delle culture e delle religioni) manifestata nei termini ‘lettura dei segni dei tempi’, incarnazione, adattamento, dialogo, che diventano atteggiamenti essenziali del missionario. 

1.5 I responsabili

La natura missionaria e comunionale della Chiesa, come afferma il Vaticano II, e la riscoperta dell’importanza della Chiesa locale ha fatto si che la Chiesa locale stessa fosse investita dell’impegno missionario (II, 15) per cui la missione “non è opera esclusivamente clericale: essa appartiene a tutto il Popolo di Dio […] (I, 90).

 Ma allora – si domandano gli AC – se il compito missionario è affidato alla Chiesa locale, dove va visto il ruolo degli Istituti missionari? Essenzialmente, si risponde, in due direzioni: in primo luogo ciascun missionario è espressione della missionarietà della sua Chiesa locale; come secondo punto, è l’Istituto come tale che diventa segno e strumento della missionarietà della Chiesa locale, stimolo a che la Chiesa locale stessa risponda al suo mandato missionario. Quindi gli Istituti missionari, fanno intendere gli AC, non sono corpi paralleli e tantomeno separati dalla Chiesa ma sono, anzi, realtà sacramentali – “segno e strumento” – e profetiche – “stimolo” – in seno alla stessa per ciò che riguarda un elemento essenziale della natura della Chiesa medesima che è la missione (II, 16). 

Gli AC affrontano anche il ruolo della vita religiosa e della comunità, ambedue rilette nella prospettiva dell’attività missionaria; la missione, infatti, non solo fa parte del carisma dell’Istituto ma ne è elemento fondante (in senso sia carismatico che cronologico): la missione, in Comboni, ha preceduto e ha determinato la tipologia della comunità. “[…] il Comboni […] prima scelse il campo di lavoro: l’Africa; poi, per questo stesso campo di lavoro, creò una famiglia di apostoli che garantisse la continuità dell’opera” (II, 50).

La dimensione comunitaria diventa essenziale all’opera missionaria, anzi è co-essenziale al carisma missionario (I, 74). Ha, prima di tutto, un valore sacramentale, perché essa “esprime il mistero che il nostro apostolato dovrà annunciare: ossia diventa il segno visibile e tangibile di quell’unità che Cristo ha lasciato, come distintivo, alla Chiesa, anticipazione di quella perfetta unità che regnerà nei cieli alla fine dei tempi. […] attraverso lo Spirito Santo […] essa diventa anche un efficace strumento di salvezza per gli uomini (I, 109). Per questo gli AC sostengono “l’internazionalità nel campo di lavoro” (II, art. II) che, oltre a ragioni strettamente pratiche e di convenienza, ha motivi eminentemente pastorali: “L’internazionalità dell’equipe missionaria, nella quale confluiscono apporti molteplici […] deve essere considerata efficace testimonianza della cattolicità della Chiesa e un valido strumento dell’apostolato” (II, 114).

Ma la vita comunitaria ha anche delle ricadute pratiche in quanto “l’attività missionaria è un’attività non scevra da difficoltà e insuccessi […] la vita in comune è allora valido aiuto: fornisce mezzi, procura continuità di intenti e di realizzazioni […] (I, 110).

La missione ad gentes e gli sviluppi della teologia sull’apostolato dei laici, dà un’identità più precisa alla figura del fratello per cui essa non si definisce più in relazione al sacerdote[8] ma in rapporto alla missione e all’apostolato laicale: “Padri e Fratelli, entrambi pienamente missionari, svolgono in maniera complementare, secondo le diverse funzioni, le varie fasi [della missione]” (II, 38, anche I, 94, 101).

Infine, la vita religiosa, nell’Istituto, ha una “fisionomia particolare”: ha origine dalle esigenze della missione, si esprime e si esplica nell’esercizio dell’attività missionaria per cui “il Comboniano sarà un autentico religioso nella misura in cui diventerà un vero missionario” (I, 6). “Tutto deve mirare a renderci sempre più profondamente Famiglia di Apostoli, allo scopo di farci diventare in maniera sempre più autentica Sacramento di Salvezza” (I, 7).

Affermazioni, quelle degli AC, profetiche, profonde, che aiutano l’Istituto a sganciarsi da una vita religiosa fatta di intimistiche pratiche di pietà e a ritornare a ciò che è essenziale e cioè alla missione da cui l’Istituto è nato e per cui vive.

1.6 Dimensioni spirituali

Naturalmente, anche “[…] la stessa spiritualità è strettamente legata al carisma della vocazione missionaria” (I, 65), spiritualità che ha nel cuore di Cristo il suo centro, in quanto simbolo di una vita donata e, allo stesso tempo, fonte di speranza e di amore totale, segno di vera umanità, di umiltà, pazienza e impegno (I, 79-86). 

Il Capitolo ricorda che la vocazione missionaria è irrevocabile e totale; i missionari devono “rendersi pienamente disponibili ai disegni di Dio a costo di sacrificare le proprie aspirazioni e progetti umani, pronti ad essere ripudiati dai propri cari; subordinare alla missione tutti i doni e forze fisiche e spirituali in modo che tutta la personalità venga quasi a polarizzarsi, unificarsi e maturarsi attorno ad un unico centro […] superare quegli inevitabili ostacoli che si frappongono al compimento della missione […] perseverare […] affrontando  con molta pazienza  i problemi e rinnovando con coraggio i propri metodi […] (I 71). Il martirio anche nella forma di personale abnegazione verso i propri stessi interessi personali e affetti familiari diventa il tratto essenziale del missionario. Parole forti, un ideale impossibile da attuare se non fosse sostenuto da una dimensione contemplativa della vita alimentata dalla preghiera per cui “[…] Il missionario trasforma in preghiera tutta la sua vita fino a diventare uomo di preghiera […] [la preghiera] è condotta secondo la linea comboniana […] di identificazione a Cristo missionario del Padre; come Cristo sarà aperto ai fratelli senza attaccamento ad una forma o altra di pietà; saprà assumere come proprie le forme del popolo presso cui svolge il suo ministero e con cui conduce una comunanza di vita”  (I 148). 

“Assumere le forme del popolo” indica la modalità di inserimento tra un popolo e una cultura differenti da quella del missionario, come norma paradigmatica l’incarnazione “con cui Cristo stesso […] si legò a quel certo ambiente socio-culturale degli uomini in mezzo ai quali visse”  (II, 20) e come processo l’adattamento, che si esplica nella dinamica discendente/ascendente dell’incarnazione di Cristo; perciò l’adattamento è scendere per cogliere gli autentici valori della cultura, assumerli e trascenderli vagliandoli alla luce del vangelo. È un processo che, concretamente, richiede uno sforzo di spogliazione da ogni atteggiamento paternalistico e revisione continua perché non ci si adatta “solo a diversi spazi socio-culturali ma anche alle diverse epoche della storia. Esse, infatti, si evolvono e mutano” (II,21). Gli AC ribadiscono che “la norma che deve reggere la vita del comboniano è: ‘farsi tutto a tutti’;  perciò lo studio della lingua, delle condizioni culturali e sociali, la storia, i costumi, le tradizioni, i valori religiosi e morali del popolo sono compiti ineludibili (II, 23).

1.7 Conclusione

Lo sforzo principale di questo Capitolo è di aver posto il Comboni e la missione al centro della vita dell’Istituto – grazie, indubbiamente, alle sollecitazioni che provenivano dalla Chiesa del Vaticano II e alle istanze che arrivavano dalle missioni. Tutto - la vita spirituale, il metodo di lavoro e l’ordinamento giuridico - viene passato al vaglio di questi due criteri di fondazione dell’essere comboniani.

La dimensione storica e comunitaria della salvezza diventa elemento essenziale dell’evangelizzazione che, ora, si esplicita in termini quali dialogo, incarnazione, adattamento, comunità e Chiesa locale, mentre si realizza nella realtà temporale attraverso il discernimento dei ‘segni dei tempi’.

Mi sembra, inoltre, che una delle intuizioni più originali di questo Capitolo è aver interpretato il carisma in un ottica essenzialmente missionaria (la missione è principalmente evangelizzazione ad gentes, tra i ‘più poveri e abbandonati in senso sociologico come in senso religioso’) liberandolo da orizzonti strettamente geografici. 

 

P. Massimo Ramundo,
missionario comboniano,
in Brasile (a destra nella foto).

 

2. Il Capitolo del 1975

2.1 Il Contesto 1970-1975

Gli anni che vanno dal 1970 al 1975 sono segnati da un importante evento che avrà delle ripercussioni globali sia economico-finanziarie che politiche, soprattutto per l’Africa: la crisi energetica del 1973. La politica estera e le strategie militari degli Stati Uniti negli anni futuri saranno condizionate dallo spettro della guerra del Vietnam che si conclude nel 1975. In Europa, tra i fatti salienti sono da segnalare la fine della dittatura in Portogallo (1974) e la morte di Franco in Spagna (1975) che aprirà la porta alla democratizzazione del Paese.  Nel Continente africano il periodo dopo le indipendenze è marcato da gravi conflitti sociali e politici. In Uganda il generale Idi Amin rovescia il presidente Milton Obote nel 1971 e si insedia al potere, così in Etiopia il governo del Negus Hailè Selassiè è scalzato da un colpo di mano militare nel 1974. Ma l’Africa è anche afflitta dalle guerriglie in Mozambico, Angola e Rodesia (l’attuale Zimbabwe), da scontri tra musulmani e cristiani in Nigeria e da conflitti interetnici in Burundi.  L’ideologia comunista si sta imponendo nel panorama politico africano e sarà adottata in diversi Paesi: l’Angola e il Mozambico (dopo la loro indipendenza dal Portogallo nel 1975), l’Etiopia e il Dahomei (l’attuale Benin). Nello Zaire di Mobutu il principio dell’autenticità e della laicità dello Stato sta creando attriti tra Stato e Chiesa. Sull’altra sponda dell’Atlantico, in America Latina, la situazione è parimenti difficile con colpi di stato e regimi militari, difficoltà economiche, disagio sociale e l’ingerenza degli Stati Uniti che, attraverso la CIA, forza cambi di regime in senso dittatoriale, come nel caso della Bolivia e del Cile. 

Nel panorama della Chiesa Cattolica si registrano diversi eventi. La creazioni dei sinodi generali contenuta nel Motu proprio ‘Apostolica Sollicitudo’ di Paolo VI aveva dato il via alla celebrazione dei primi sinodi: il primo nel 1967, su ‘Opinioni pericolose e sull’ateismo’, il secondo nel 1971, dal tema ‘Il sacerdozio ministeriale e la giustizia nel mondo’ e il terzo nel 1974, su ‘L’evangelizzazione nel mondo’ a cui farà seguito l’esortazione Apostolica di Paolo VI ‘Evangelii Nuntiandi’. Un’altra enciclica di Paolo VI degna di nota è l’ Octogesima Adveniens, uscita nel 1971 in occasione dell’ottantesimo di pubblicazione dell’enciclica Rerum Novarum. L’evangelizzazione in Africa è il tema dell’assemblea plenaria del SECAM (Symposium of the Episcopal Conferences of Africa and Madagascar) nel 1974, un argomento scelto in continuità con il terzo sinodo dei vescovi.  Da rilevare anche il documento della Congregazione Generale dei Gesuiti ‘Diaconia della Fede e Promozione della Giustizia’(1975) [9] che avrà una certa influenza sui documenti capitolari del 1975.

I primi anni settanta sono momenti difficili per i Comboniani in Africa. La guerra interetnica in Burundi porta ad un conflitto tra i Superiori di 7 Istituti missionari e la gerarchia ecclesiastica che, almeno in parte, è favorevole al governo; l’espulsione di alcuni Comboniani dal Paese è uno dei tristi epiloghi di questo conflitto[10]. Ma anche in altri Paesi i missionari Comboniani stanno vivendo momenti di passione: nel Sudan del Sud, in Mozambico a causa della guerriglia (alcuni Comboniani sono cacciati dal Paese nel 1974 per la loro presa di posizione contro il governo coloniale portoghese), nell’Uganda di Amin per le restrizioni ai missionari (15 Comboniani saranno espulsi proprio durante la celebrazione del Capitolo) o per il regime di apartheid in Sudafrica. In America Latina il fenomeno dei raggruppamenti urbani – con l’urbanizzazione selvaggia e la nascita dei ‘pueblos nuevos’ di Lima in Perù, nelle città del Brasile e del Messico – interroga i Comboniani la cui attività si era concentrata, fino a quel momento, nelle zone rurali[11].

Importante, in questi anni, la convocazione di due assemblee continentali: in Africa e in America Latina. L’assemblea panafricana di Gulu (Uganda) nel 1972 e quella panamericana di La Paz (Messico) nel 1974, sono un tentativo – come rileva il p. Generale, T. Agostoni, nell’introduzione all’assemblea di La Paz – di affrontare i problemi a livello continentale, vista l’impossibilità di esaminarli con competenza a livello di Congregazione e di far si che “l’esperienza di questi due avvenimenti porti la Congregazione ad un ripensamento delle competenze, dei soggetti da trattare dal Capitolo stesso […] nel senso che il Capitolo potrebbe delegare alcune competenze a queste conferenze come ha delegato competenze alle Regioni” […][12]. È già un’ammissione della complessità della missione che si sta ormai differenziando nei vari contesti e del bisogno, perciò, di altri organi a livello continentale che aiutino ad affrontare i problemi.

Il Capitolo Generale del 1975 – l’XI della storia dell’Istituto e settimo dopo la divisione – decise la riunione del ramo italiano e di quello tedesco, una decisione che rappresentava il traguardo di diverse esperienze di incontri, soprattutto in Spagna, e che venne sancito giuridicamente dai due Capitoli congiunti (FSCJ e MFSC) ad Ellwangen, nel settembre del 1975, con la formulazione dell’Ordinamento Giuridico Speciale[13]. Ma il Capitolo approvò anche un documento considerato tra i più significativi, quello su ‘La Missione Oggi’ che intendeva “dare una risposta ad alcuni interrogativi nuovi, sorti dalle situazioni che maggiormente ci toccano nel nostro lavoro missionario”[14].  Anche in questo Capitolo gli Italiani erano ancora la maggioranza: 50 su 57, cioè l’87,7% dei delegati capitolari.

2.2 Natura e Fini dell’evangelizzazione

Riprendendo le affermazioni del Capitolo precedente circa la salvezza integrale dell’uomo, anche questi AC dichiarano che la proclamazione del Vangelo è buona notizia che si rivolge alla persona umana in tutte le sue dimensioni e nella sua concretezza storica: è il Vangelo della “salvezza integrale di tutto l’uomo e di tutti gli uomini” (II, 8, 7) [15]. Ormai il concetto di salvezza – il cui orizzonte si gioca non solo in un mondo ultraterreno ma anche nelle contraddizioni della storia e che coinvolge l’uomo nell’integralità delle sue espressioni - è un dato acquisito nella riflessione comboniana, maturato attraverso gli stimoli del Vaticano II, le encicliche sociali e la II Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano a Medellin, nel 1968. Per questo, affermano gli AC, promuovere “quelle iniziative atte a liberare gli uomini dall’ignoranza, dalla fame dalla malattia e dal sottosviluppo” è dovere della Chiesa e dell’Istituto, proprio come Comboni che comprese la necessità di un’evangelizzazione integrale (II, 27)[16]. Riconoscendo che l’evangelizzazione è un processo in evoluzione in quanto ai metodi, gli AC dichiarano che la “coraggiosa proclamazione del Vangelo è vera promozione della giustizia perché colpisce il male alla radice” (II, 26); il primo passo richiede, perciò, una conversione profonda alla giustizia, cioè all’accettazione del mistero dell’uomo – nell’integralità della sua persona – che si rivela in Cristo; ma alla conversione deve seguire un efficace impegno per la giustizia che si esprime nel compito di costruire un mondo più giusto e umano (II, 26).

Così i termini ‘giustizia’ e ‘liberazione’ sono abbinati alla proclamazione del Vangelo in quanto costitutivi del Vangelo stesso e vengono apertamente assunti negli AC aggiungendo una nuova dimensione alla nozione di evangelizzazione. L’influenza dell’Enciclica Octogesima Adveniens, nonché del Sinodo del Vescovi sulla giustizia del 1971, è palese: “L’agire per la giustizia – così si esprime il documento finale del Sinodo – ed il partecipare alla trasformazione del mondo ci appaiono chiaramente come dimensione costitutiva della predicazione del Vangelo, cioè della missione della Chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione da ogni stato di cose oppressivo”[17].

Ma accanto ad obiettivi ideali, sussiste il fine pratico dell’azione missionaria che si esprime, ora, nel servizio alla Chiesa locale di cui si accettano le indicazioni: formare una comunità cristiana responsabile e vivace, rinnovare la catechesi come esperienza comunitaria, favorire la nascita dei ministeri laicali, formare il clero e i laici, favorire il sorgere delle varie forme di vita religiosa e, infine, la formazione dell’opinione pubblica attraverso i mass-media (II, 20). L’Istituto si pone fermamente al servizio delle giovani chiese e fa sue le loro priorità – e questa decisione si dovrà annoverare tra le novità di questo Capitolo.

2.3 Ambiti e Orizzonti

I segni dei tempi (II,3) – che si manifestano nei mutamenti sempre più accelerati dei paesi “in via di sviluppo” (II, 10) – sono l’ambito in cui si esplicita la volontà di Dio nella storia ed esigono un mutamento dei metodi di lavoro: per questo “l’evangelizzazione è un processo dinamico e multiforme” (II, 8 3). Dell’attività missionaria i poveri sono i referenti privilegiati.  Le parole dell’Episcopato Latinoamericano a Medellin appaiono sullo sfondo delle affermazioni degli AC circa la scelta preferenziale dei poveri e degli oppressi dalla parte dei quali “si abbia in coraggio di mettersi […] e favorirne la liberazione integrale”. Una citazione, questa, ripresa verbalmente dall’Assemblea Comboniana Latinoamericana (II, 26).

Dei poveri ed oppressi il Capitolo delinea un’identità specifica. Sono i popoli “di frontiera, cioè tribù, minoranze etniche o sociali o altri gruppi minori che non sono stati ancora evangelizzati e sono rimasti pure ai margini dell’attuale evoluzione del mondo” (II, 14). Ma gli AC prospettano nuovi orizzonti dell’azione missionaria verso due direzioni inedite. Riconoscendo che la missione si è svolta principalmente in ambienti rurali, il Capitolo rivolge ora l’attenzione alle grandi aree urbane in cui vede un chiaro segno dei nuovi tempi. In questi nuovi raggruppamenti umani, attenzione deve essere data a quei gruppi che hanno un peso determinante nella costruzione della società del futuro: gli operai, gli studenti e gli intellettuali; ma anche a “coloro che, abbandonato l’ambiente rurale, non si sono ancora inseriti nella vita urbana e vivono emarginati nelle periferie delle città” (II, 32). È chiaramente una scelta che chiamerei, in ambito comboniano, epocale in quanto prende atto delle mutate situazioni storiche e offre nuove soluzioni di azione missionaria. Ma la lettura della situazione non si ferma qui. La seconda novità altrettanto epocale è rappresentata da un’attenzione, sconosciuta fino a quel momento, “all’emergere dei popoli e delle culture dell’Asia” perché saranno i “protagonisti della storia di domani” e anche perché “costituiscono la grande maggioranza dei non-cristiani”. Nella scelta del campo di lavoro, ragioni di carattere socio-politico si intersecano a quelle religiose. Per questi motivi, concludono gli AC, “pensiamo sia giunto il momento per la Congregazione di studiare le possibilità di un futuro impegno in Asia” (II, 15). Prendiamo atto che l’orizzonte missionario comboniano si è, ormai, totalmente sganciato da una prospettiva geografica a favore di un’ottica missionaria, dove ciò che conta sono i popoli e le culture, ambiti che la Regola di Vita chiamerà “situazioni missionarie” (RdV 14.2).

Altri due ambiti di lavoro vengono messi in risalto come preferenziali; uno è la promozione della dignità della donna a cui il Capitolo invita a dare “maggiore responsabilità […] sia nell’edificazione della società come nel contesto della Chiesa con i ministeri laicali che le spettano” (II, 33). Un altro campo di lavoro, in verità sottolineato anche nel Capitolo precedente e che rappresenta un vero ‘continuum’ nell’azione missionaria dei comboniani, è l’attenzione data all’Islam “sia per fedeltà all’ambiente in cui Comboni iniziò la sua attività missionaria, sia perché i musulmani si trovano in quasi tutti i paesi dell’Africa in cui lavoriamo”. (II, 13). La scelta dell’Islam è dettata da motivazioni sia di ordine carismatico che pratiche. 

2.4 Le vie dell’evangelizzazione

Le modalità del lavoro missionario, gli atteggiamenti e le istituzioni delle missioni vanno rivisti e adattati alla nuova situazione della Chiesa post-conciliare e ai mutamenti che si susseguono anche nei paesi in via di sviluppo (II,2): un continuo rinnovamento e una formazione permanente sono, perciò, assolutamente necessari (II,10). Non solo. Le risposte ai problemi devono essere viste in relazione ad un contesto più vasto: è “l’interdipendenza che caratterizza il mondo di oggi” per cui l’efficacia di una risposta sarà “sempre più condizionata da criteri mondiali che danno la necessaria unità alla situazione particolare.” […] “Inoltre la comunione ecclesiale […] esige che confrontiamo i nostri orientamenti con la cattedra di Pietro […] e con le altre chiese del mondo” (II, 11)[18]

Gli AC riaffermano ciò che era stato espresso, a volte implicitamente, nel Capitolo precedente: riconoscimento del processo di indigenizzazione nella liturgia, spiritualità, teologia ed esercizio dei ministeri; (II, 19); importanza al dialogo con le culture e le religioni; apertura alla lingua, alla cultura, ai valori e alle tradizioni dei popoli dove si opera (II, 39); il peso delle scuole come modo più qualificato di presenza in un ambiente islamico (II, 12,13); l’impegno ecumenico (I, 20). Nel clima di attenzione alla giustizia e alla liberazione, gli AC insistono sulla promozione integrale dell’uomo, soprattutto dei più poveri, attraverso l’educazione alla giustizia, sull’impegno alla riconciliazione nella giustizia (II, 26) e sulla promozione di strutture liberatrici (II, 27).

La collaborazione e il lavoro in una pastorale d’insieme sono necessari nel rapporto con le giovani chiese perché, ormai, “non si tratta più di territori di missione affidati al nostro Istituto, ma di giovani chiese in processo di sviluppo, capaci di assumersi ogni responsabilità inclusa quella di evangelizzare altri popoli” (II, 18 cfr. anche II, 20). Queste dichiarazioni riconoscono implicitamente che l’epoca dello ‘jus commissionis’ è definitivamente chiusa e che si è aperta una situazione storica che ha delle notevoli conseguenze sia giuridiche che metodologiche[19]. Vi è pure la consapevolezza che la promozione umana dell’Istituto attraverso gli ospedali, le scuole, i dispensari sia semplicemente sussidiaria rispetto alla società civile se essa non può ancora addossarsi questi impegni (II, 27)[20].

Il richiamo ad una programmazione di lavoro a tempi corti, con le strutture proporzionate alle reali capacità delle chiese locali (II, 35) – per cui “non si devono creare opere grandiose che ci rendano insostituibili” [21] – è giustificato, indubbiamente, dal rispetto dovuto alle chiese locali ma anche dalla “provvisorietà insita nella nostra scelta di vita” (II, 35); ma la provvisorietà, nella difficile situazione politica di diversi Paesi in cui operano i missionari, è anche propria di coloro che si sentono vulnerabili di fronte all’instabilità politica. Provvisorietà che, però, non deve contraddire l’impegno di incarnazione nei luoghi dove si è presenti né dare l’idea di un impegno limitato (II, 35).

Le esperienze dei missionari nelle turbolenze politico-sociali dei vari Paesi (Burundi, Mozambico, Zaire, Uganda per citarne alcuni) e a contatto con gli sforzi di liberazione per l’indipendenza e l’uguaglianza, entrano nella discussione capitolare. Il problema che si pone è “qual è il dovere missionario di fronte alle ingiustizie?” (II; 28). La questione viene risolta a diversi livelli: che “l’azione non sia lasciata all’iniziativa personale ma sia soggetta al discernimento comunitario e venga assunta dalla Chiesa locale e dall’Istituto” (I, 28); che una pubblica presa di posizione sia frutto di riflessione e di preghiera con il gruppo comboniano e in comunione con gli altri agenti dell’evangelizzazione e che “se fosse necessario arrivare all’estrema decisione di abbandonare gli impegni assunti […] la decisione dovrà essere presa sempre in solidarietà con l’autorità competente della Congregazione e mai per iniziativa autonoma di un gruppo” (II, 22). Gli AC ammoniscono decisamente – probabilmente rivolti a chi mostrava una certa insofferenza e disagio e chiedeva scelte di gruppo orientate politicamente – che “non è nostro compito fare azioni politiche”, che il primo passo è di conoscere la realtà storica per non affrontare situazioni in maniera poco illuminata ed emotiva; che, in fin dei conti, siamo stranieri e ospiti, ma che anche nelle situazioni politiche più negative ci sono opportunità per l’evangelizzazione e la promozione della giustizia (II, 29). Mi sembra, quella proposta dal Capitolo, una soluzione equilibrata, un richiamo alla ragione e al dialogo che, probabilmente, cerca di tenere insieme diversi fili: il rispetto verso la Chiesa locale, la preoccupazione di non privare la gente di un sostegno in caso di un abbandono precipitoso e in massa dalle missioni e le esigenze della giustizia a cui, in molti casi, servono azioni profetiche, nette e decise.

Una delle novità di questi AC è l’apertura a nuove esperienze missionarie. Riconoscendo che “la nuova epoca missionaria esige coraggio e creatività pastorale” gli AC auspicano “nuove forme di vita e di inserimento più conformi alle esigenze degli uomini e all’ambiente”, per cui si incoraggiano “esperimenti verso nuove direzioni” verso “nuove forme di vita apostolica” diverse dal metodo tradizionale di missione – che pure rimane valido (II, 34). È la prima volta che l’Istituto riconosce la validità di esperienze nuove di vita apostolica, purché “in accordo con la Chiesa locale e con il gruppo comboniano” (II, 34). Esperienze che possono assumere le caratteristiche di “vivere nuove forme di povertà, condividendo con i poveri le angustie, le speranze e le conseguenze di ingiustizia” – un’apertura, quindi, a vivere la povertà in modo radicale, pur insistendo, anche in questo caso, sulla necessità della comunione con la Chiesa locale[22]. Una decisione, quella del Capitolo, che prende atto di nuovi fermenti ed esperienze in atto nell’Istituto[23].

2.5 I responsabili

Nella nuova situazione del mondo, la missione deve avere una dimensione comunitaria, di cui il ‘discernimento apostolico’ è una delle espressioni. È una missione pensata insieme e insieme portata avanti, “secondo le capacità e funzioni di ciascuno” (II, 5, 6): una comunità che si arricchisce dei carismi di ciascuno – sempre, però, che questi carismi siano in conformità con le scelte dell’Istituto e su cui l’autorità deve discernere[24].

Pertanto, riconoscendo un pluralismo della vocazione missionaria, si invitano i missionari a “dare la loro fiduciosa collaborazione a quei laici che accettano e vivono l’impegno missionario come espressione della loro fede” (II, 30). I ministeri laicali entrano così a far parte dell’orizzonte dell’Istituto perché, oltre che necessaria alla missione, “la collaborazione con le nuove forme di vocazione missionaria fa parte del carisma del nostro Istituto” (II, 30). Si stanno ponendo le premesse alla comprensione di un ministero laicale come parte ed elemento integrante del carisma stesso.   

In linea con il principio che la missione deve essere un impegno comunitario gli AC, seguendo le proposte delle Assemblee Comboniane panafricana e panamericana, auspicano la creazione di comunità apostoliche, definite come “la comunione di tutte le forze vive che lavorano nello stesso luogo per il regno di Dio” (II,31). La ragione di tali comunità apostoliche è duplice: un lavoro apostolico più efficace ma soprattutto il valore di testimonianza e coerenza tra ciò che si predica e la vita (II, 31). La proposta capitolare di creare tali comunità è una decisione che fa storia e che si deve annoverare – come afferma p. Fidel Gonzalez – tra le grandi novità nella storia comboniana dopo il Comboni[25].

2.6 Dimensioni spirituali

Essere per la missione, totalmente. È questa l’identità del missionario il cui “sforzo si dirigerà ad assumere gli atteggiamenti di Cristo, come servo di Jaweh”. (II, 4). La revisione dei metodi e degli atteggiamenti come risposta alla volontà di Dio rivelata attraverso i segni dei tempi, ha un fondamento essenzialmente spirituale: dovrà essere radicata, come lo fu in Comboni, in un’autentica esperienza di fede; essa sarà espressione della speranza cristiana anche nelle situazioni di sofferenza, anzi, tale speranza si rafforzerà attraverso di esse; questa risposta avrà una dimensione comunitaria e, infine, saprà adattarsi alle diverse situazioni (II, 5).

Gli AC rivolgono l’attenzione alla vita interiore che è il motore dell’attività missionaria e che esige conversione continua dei singoli e delle comunità (II, 7) per cui “l’unità dell’evangelizzazione non va ricercata in atteggiamenti, istituzioni e metodi immutabili, ma nella rinnovata amicizia e sequela di Cristo Signore” (II, 8).

Nella lotta per la giustizia, la povertà evangelica assume un senso particolare ed è vista come una delle dimensioni essenziali dell’evangelizzazione. L’autolimitazione dei mezzi materiali, nell’accettazione dei limiti della Chiesa locale e di un uso dei beni più evangelico – esplicitato attraverso la comunione dei beni, la costruzione di opere sociali proporzionate alla condizione della comunità locale e l’impegno di condivisione delle situazioni di privazione del popolo con cui si vive – sono le mete a cui, progressivamente, la povertà deve tendere. Essa ha una dimensione essenzialmente pastorale: permette un più profondo e autentico inserimento nel popolo aumentandone la capacità di annuncio e aiuta a dare la precedenza alla testimonianza sull’efficienza e la potenza organizzativa (II, 21).

La provvisorietà, a cui si è già accennato, ha anche una necessaria ispirazione spirituale in quanto implica tre dinamiche di spiritualità: accettazione della persecuzione, disposizione a ricominciare di nuovo – in quest’ottica povertà e provvisorietà hanno delle peculiarità molto simili – e fede nella promessa della presenza di Cristo e della crescita del Regno di Dio (II, 35). Attraverso le diverse esperienze dolorose di quegli anni, la provvisorietà viene accettata non solo come parte inevitabile del servizio missionario, che è necessariamente temporaneo, ma è assunta come elemento di spiritualità nella sua dimensione martiriale. In tale prospettiva il servo di Jaweh – richiamata in questi AC – diventa figura paradigmatica del missionario e del suo impegno a costruire comunione, a rendersi disponibile alla collaborazione a tutti i livelli, nel suo sforzo di adattamento e nella condivisione di vita con i più poveri.

2.7 Conclusione

“A distanza di anni – commenta p. Gonzalez nel suo libro sui Capitoli Generali – questo documento (‘I Comboniani nella missione oggi’ ndr) si dimostra di un’apertura ecclesiale ed ecumenica notevole. Uno, esaminando altri documenti comboniani posteriori, ha la sensazione di un ripiegamento dell’Istituto su se stesso, la perdita di quell’ampiezza di vedute e di passione che dominò i Capitoli del 1969 e del 1975 tra gli FSCJ”[26].

Non mi sentirei di sottoscrivere pienamente l’ultima frase ma è indubbio che, oltre al Capitolo del 1969, anche in quello del 1975 diverse decisioni innovative siano state prese.

Il Capitolo arricchisce di nuove dimensioni la natura dell’evangelizzazione, ne allarga gli orizzonti e apre a nuove modalità di lavoro. La giustizia – insieme al termine libertà – entra a far parte della finalità dell’evangelizzazione i cui ambiti non sono solo confinati agli ambienti rurali ma anche alle città e, in prospettiva futura, all’Asia. Il rinnovamento dei metodi del lavoro missionario porta il Capitolo ad accettare nuove esperienze missionarie attraverso un inserimento più radicale nella vita della gente.  Ma la modalità della missione si esprime anche in un’altra direzione che si può riassumere con la parola collaborazione: collaborazione di servizio e sincera con la Chiesa locale considerata, ora, come la responsabile ultima della missione; riconoscimento dei ministeri laicali e della necessaria collaborazione con i laici nel lavoro missionario che diventa sempre più articolato e bisognoso di apporti diversi. Il Capitolo mostra idee innovative anche nella proposta di creare di comunità apostoliche tra tutte le forze che lavorano in un luogo: manifestazione di un bisogno di comunità che ha nelle comunità ecclesiali di base, prospettate nel documento finale di Medellin, la loro tipologia[27].

 

P. John Converset,
durante il Forum Sociale Mondiale 2015,
a Tunisi, in Tunisia.

 

3. Il Capitolo del 1979

3.1 Il contesto 1976-1979

Gli ultimi anni settanta sono marcati da diversi eventi forieri di sviluppi successivi nel panorama internazionale. Ne elenco tre tra i principali: nel 1976, la tragica rivolta nella township di Soweto a Johannesburg rivela al mondo il dramma del regime di apartheid in Sudafrica; la visita del presidente Sadat in Israele nel 1978, il primo di un Paese arabo ed il primo che si esprime sul diritto di Israele ad esistere: questo aprirà ad un lungo processo di pace; infine, nel 1979, la rivoluzione islamica di Khomeini in Iran e l’introduzione della legge islamica, un evento le cui conseguenze per il mondo islamico e le relazioni internazionali con l’Occidente nonché per l’Islam come soggetto politico si riverbereranno negli anni seguenti.

Nella Chiesa Cattolica, due avvenimenti importanti contrassegnano il 1978: la morte di due papi (Paolo VI e Giovanni Paolo I, quest’ultimo a soli 33 giorni dalla sua elezione) e l’ascesa al soglio pontificio del primo non italiano dopo 455 anni, Giovanni Paolo II. La prima enciclica del nuovo papa, intitolata Redemptor hominis e pubblicata nel marzo del 1979, è da considerarsi il manifesto del suo pontificato; in essa il Pontefice apre lo sguardo verso il terzo millennio per sfidare i credenti all’impegno per l’evangelizzazione. Se Cristo – dichiara il papa –  il “salvatore dell’uomo è il centro del cosmo e della storia” (n. 8) e la via principale della Chiesa, ugualmente l’uomo “è la prima e fondamentale via della Chiesa” (n.14).

Durante il penultimo anno del pontificato di Paolo VI si era tenuta a Roma, tra il settembre e l’ottobre del 1977, la quarta Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, sulla catechesi nel nostro tempo. È Giovanni Paolo II che ne scrive l'Esortazione Apostolica, Catechesi Tradendae, pubblicata il 16 ottobre 1979. Nel 1978 due congregazioni vaticane, la Sacra Congregazione dei Religiosi e degli Istituti Secolari e la Sacra Congregazione dei Vescovi pubblicano il documento Mutuae Relationes che regola i rapporti tra i Vescovi e gli Istituti religiosi.

In America Latina, la terza conferenza dell’episcopato latinoamericano si riunisce a Puebla nel 1979 e affronta diverse problematiche proprie di quel Continente. Dal titolo “L’evangelizzazione oggi e nel futuro dell’America Latina” l’assemblea di Puebla vuole rilanciare l’evangelizzazione  del Continente a partire da tre fondamenti: la verità su Cristo, la verità sulla Chiesa e la verità sull’uomo. Inoltre, l’episcopato pone le basi di una riflessione teologica sulla comunione, la liberazione ed evangelizzazione[28].

Per quanto riguarda l’Africa, negli anni settanta si stanno facendo strada la teoria e la pratica del cosiddetto ‘moratorium’ che vuol chiudere le porte ai missionari esteri e ad altri ‘influssi esterni’ con la motivazione di voler raggiungere una vera identità e indipendenza. Così si esprime il Superiore Generale p. Agostoni nella relazione della Direzione Generale al Capitolo: “Negli anni precedenti il Capitolo del 1975 la Congregazione dovette lottare contro il prevalere di una mentalità disfattista rispetto alla missione. Basti ricordare lo slogan allora in voga: ‘la missione è finita’ e il problema del cosiddetto ‘moratorium’. La lotta fu svolta sia all’esterno per la rassegnazione di molti Istituti Missionari, sia all’interno per il disorientamento di alcuni dei nostri”[29]. La posizione dei Comboniani sarà quella di sostenere il bisogno della presenza missionaria e della validità degli Istituti missionari[30].

Nel periodo in questione il lavoro comboniano presenta due volti: in alcune zone l’attività aumenta con la nascita di nuovi impegni: in Kenya (1971), in Malawi (1974), nello stato di Rondonia in Brasile (1974), con l’apertura di alcune missioni tra gli Indios in Messico tra il 1972 e il 1974, in Costa Rica (1979) e in Sud Sudan (1979); gli impegni in altri Paesi, invece, si ridimensionano, come in Uganda. In Africa permane una situazione di instabilità con conseguenze tragiche per i missionari, come la guerra del 1979 in Uganda che rimuove il generale Amin Dada dal potere: durante la guerra e nei mesi successivi 5 comboniani perdono la vita. In Burundi 11 comboniani vengono espulsi nel 1977 decretando, di fatto, la fine della presenza comboniana in quel Paese[31].

Il XII Capitolo Generale speciale del 1979 si celebrò in due sessioni: dal 22 giugno al 3 agosto e dal 20 agosto al 5 ottobre. Ebbe essenzialmente tre compiti: sancire l’unione dei due rami della famiglia comboniana (FSCJ e MFSC) in un unico Istituto il cui nome ufficiale sarà Missionarii Comboniani Cordis Jesu (MCCJ). Il secondo compito fu di preparare i testi di Costituzioni e il Direttorio Generale; infatti, la Regola di Vita verrà ratificata in questo Capitolo e approvata ad experimentum per sette anni. Infine, il Capitolo preparò la programmazione del sessennio successivo[32].

Il totale dei delegati capitolari fu di 79 (58 FSCJ e 21 MFSC). Il numero dei capitolari Italiani tra gli FSCJ era di 46, il 79,3% del totale; il secondo gruppo nazionale più numeroso proveniva dalla Spagna con 5 membri, cioè l’8,6%.

Poiché uno dei compiti principali del Capitolo fu l’approvazione della Regola di Vita, farò rilevare alcune indicazioni programmatiche sull’evangelizzazione contenuti negli AC. Darò più spazio, invece, ai contenuti sull’evangelizzazione nella Regola di Vita nella sua versione finale[33].

3.2 Alcune indicazioni programmatiche degli Atti Capitolari

Gli AC invitano il Consiglio Generale, in dialogo con le provincie e le chiese locali,  ad avere “particolare attenzione alle situazioni nuove e complesse che esistono o possono esistere in campo ecclesiale e socio-politico” (A, 10.2).

Inoltre, il Capitolo ribadisce la possibilità - “come prospettiva”- di apertura in Asia, ma senza dare al CG “un impegno vincolante o scadenze fisse per una tale apertura”. Si pongono anche delle condizioni: che si affrontino e risolvano “situazioni precarie e difficili pendenti (comunità, impegni recenti ecc.)” (D, XIX)[34]. Il Capitolo, rispetto alla decisione del Capitolo precedente dettata da una grande dose di ottimismo e idealismo, si dimostra oltremodo prudente riguardo alla scelta dell’Asia perché ci si stava rendendo conto che una eventuale apertura in quel Continente avrebbe avuto delle conseguenze non indifferenti sulla capacità dell’Istituto di affrontare gli attuali impegni: avrebbe obbligato ad un ridimensionamento degli stessi attraverso la contrazione del numero di personale disponibile[35]. Del resto, viaggi esplorativi in Asia erano già stati affrontati dopo il Capitolo del 1975 dall’allora Superiore Generale p. Agostoni con il segretario generale dell’evangelizzazione p. Ravasio: le Filippine erano state indicate come possibile campo per un futuro impegno dell’Istituto[36]

Con i nuovi campi di lavoro e le forze disponibili in decrescita numerica, evidentemente si poneva lo spinoso problema di un criterio per l’assegnazione del personale da parte del CG. Gli AC insistono che il CG dia priorità ad assegnare confratelli che lavorano “alla formazione degli agenti di pastorale: clero locale, religiosi, catechisti e animatori di comunità” (A, 10.3). Non solo, ma che si promuova il rinnovamento dei missionari che lavorano nell’ambito della scuola e della necessità di coscientizzare i giovani in formazione sull’importanza della scuola (A. 10.3). Il richiamo del Capitolo sembra scaturire da un’opinione che si stava affermando con forza negli ambienti comboniani in quel periodo, cioè che l’impegno in campo scolastico non appartenesse all’attività specifica della missione comboniana, ma che vera missione consistesse nell’attività esclusiva in un ambiente di emarginazione sociale[37].

Infine, il Capitolo conferma ciò che è stato uno dei temi principali nell’attività missionaria dal Capitolo del 1969, cioè che “noi Comboniani evangelizziamo come comunità” (A, 37). Con questa affermazione gli AC ribadiscono che la comunità non è solo funzionale all’evangelizzazione ma è una dimensione propria di chi evangelizza e strumento della sua efficacia apostolica.

3.3 La Regola di Vita

3.3.1 Natura e fini dell’evangelizzazione

Come la Regola di Vita (RdV) intende la natura e i fini dell’evangelizzazione? Essendo un documento che contiene l’ordinamento dei Missionari Comboniani non vi si trova un’elaborazione teorica chiaramente articolata – del resto i Capitoli stessi, per la loro stessa natura, non hanno questa pretesa. Una definizione potrà essere desunta dagli accenni che la RdV fa circa l’identità del missionario comboniano e il suo campo di lavoro.

In linea con la dimensione pneumatologia dell’evangelizzazione nell’Evangelii Nuntiandi, anche nella RdV lo Spirito Santo ne è il soggetto principale[38]; esso agisce sia nell’evangelizzatore rivelandogli il mistero di Cristo e il suo insegnamento, sia in colui che è evangelizzato predisponendolo alla “notizia del Regno che viene proclamato” (56.2). Il comboniano, quindi, è essenzialmente un collaboratore all’opera dello Spirito Santo il quale conduce la persona ad incontrarsi con Cristo e con il suo messaggio e ad entrare nel nuovo Popolo di Dio (56). Evangelizzare è impegno per la liberazione integrale della persona[39]: “nella sua attività di evangelizzazione il missionario si impegna nella «liberazione dell'uomo dal peccato, dalla violenza, dall'ingiustizia, dall'egoismo», dal bisogno e dalle strutture oppressive”, una liberazione che ha il suo coronamento nella comunione con Dio e tra gli uomini (61). Infatti,  “[l’]'esigenza di una completa liberazione risponde al bisogno che l'uomo ha di Dio; è basata sulla realtà della creazione e del Regno e sulla fede in Gesù Cristo, l'Uomo nuovo; si estende a tutti i livelli della vita umana, religiosa, culturale, sociale, politica ed economica” (61.1).

Quindi evangelizzazione e promozione umana hanno un “legame” inscindibile. Nell’orizzonte della missione dei comboniani appare un tema che è il punto focale della teologia della missione nell’Esortazione Apostolica: il Regno di Dio in cui temi di “ordine antropologico” e temi “di ordine teologico”[40] trovano una loro sintesi; la liberazione integrale dell’uomo ne è il frutto.

3.3.2 Ambiti e Orizzonti

Memore del Comboni che scelse i popoli dell’Africa in “quel particolare momento storico” perché “i più necessitosi e derelitti” specialmente riguardo alla fede, l’Istituto vede ancora nell’Africa – oltre che un legame inscindibile con il carisma – un campo di lavoro finché continuano “situazioni di necessità di evangelizzazione” (5).  Rinnovando il suo impegno in Africa e America, l’Istituto però “rimane aperto ad altri campi” (14.1).

Il numero 13 della RdV ha fatto sorgere diverse polemiche in seno all’Istituto perché una parte vi vedeva una capitolazione della sua vocazione ad gentes. Se il fine dell’Istituto è, come dice il numero suaccennato della RdV, “di attuare la missione evangelizzatrice della Chiesa tra quei popoli o gruppi umani non ancora o non sufficientemente evangelizzati”, la parte finale della frase – il riferimento ai “non sufficientemente evangelizzati” – avrebbe potuto aprire le porte e, di fatto, giustificare ogni scelta e ogni campo di lavoro. Questa, l’opinione di alcuni. Ritengo, però, che la scelta della RdV sia dettata da criteri di ordine pratico, oltre che dalla difficoltà di definire le gentes: come precisare, infatti, l’identità dei “non ancora evangelizzati”? quando una persona può dirsi evangelizzata? Le discussioni in seno all’Istituto non sono finite ma riemergono di quando in quando, soprattutto in occasione di scelte qualificate o eventi importanti come un Capitolo generale. Ho anche il sospetto che il superamento del criterio geografico e il dilatarsi della nozione di evangelizzazione contenuta nell’Evangelii Nuntiandi non siano estranei all’evoluzione dei fini dell’istituto presentati nella RdV.

Ma fermo restando il fine suaccennato, la RdV elenca alcuni criteri nella scelta degli ambiti di impegno: dialogo con la Santa Sede e le Chiese locali, la lettura delle “situazioni missionarie” di oggi alla luce del carisma del Comboni e della storia dell’Istituto, sempre nel rispetto delle esigenze della vita religiosa e comunitaria. (14.2, vedi anche 6). In estrema sintesi, i criteri si riducono a due: dialogo a tutto campo e discernimento; due norme che non sempre – soprattutto a livello locale – sono state applicate con una buona dose di sano realismo. Come giustificare, del resto, l’espansione sproporzionata degli impegni di cui ogni direzione generale si lamenterà?

I rapidi mutamenti che si verificano nella Chiesa e nel mondo (16.1) obbligano l’Istituto ad una certa flessibilità nella scelta degli impegni in cui il criterio geografico non è più prioritario – come già il Capitolo del 1969 aveva sancito; per questo “l'Istituto rivede periodicamente i suoi impegni e le attività dei suoi membri, soprattutto in occasione dei capitoli generali” (14.3).

3.3.3 Le vie dell’evangelizzazione

L’evangelizzazione si svolge in maniera progressiva rispettando la gradualità di crescita della persona: è essenzialmente fedele alla persona nelle sue dinamiche interne e nella sua identità culturale ma è anche fedele al messaggio rivelato (56.3). Perciò l’evangelizzazione è un processo che accompagna la persona a credere in Gesù Cristo; non forza la sua libertà, non la obbliga per un’adesione semplicemente esteriore ma, in quanto processo, si dipana attraverso delle fasi che scandiscono anche le tappe di maturazione cristiana: la testimonianza personale e comunitaria fiduciosa e paziente – soprattutto là dove una proclamazione chiara non è possibile (58, 58.5); la predicazione esplicita del mistero di Gesù di Nazaret (59) e, per chi ha accolto la Parola ed aderisce ad una comunità, la catechesi e la ricezione dei sacramenti dell’iniziazione attraverso le varie fasi dell’iniziazione cristiana (63, 63.1); infine, la formazione di una comunità cristiana autosufficiente nei tre ambiti: ministeriale, missionario ed economico (70). Il missionario, inoltre, favorisce lo sviluppo delle piccole comunità ecclesiali che sono un’incarnazione locale della comunità cristiana in quanto facilitano la dimensione umana dei singoli e la corresponsabilità (62.3). È, quindi, alla persona concreta - nelle sue dimensioni psichiche e dinamiche di maturazione - e alla persona nel suo ambiente storico e culturale a cui si rivolge l’attività missionaria.

Le varie tappe dell’evangelizzazione sono accompagnate da dinamiche che favoriscono l’annuncio e la comprensione del messaggio: lo sforzo di inculturazione del mistero di Cristo sotto la guida della Chiesa locale (59.1, 69); la dinamica dell’incontro personale costruito sulle relazioni umane attraverso gli incontri del missionario e della comunità cristiana con coloro che sono evangelizzati (58.1, 59.5). Dinamica essenziale di evangelizzazione è il dialogo, il quale ha diversi ambiti di espressione: è dialogo con la Chiesa e le autorità competenti – anche in situazioni difficili quando il dialogo richiede una sofferta obbedienza; è dialogo che si esprime nell’ambito ecumenico e in quello con la cultura, la religione e la storia dei popoli, un dialogo, questo, che implica rispetto e sfocia nella capacità di discernere i valori e i segni della presenza di Dio (9.1, 57, 57.1, 57.3, 65, 66.2, 67); è dialogo nel vero senso della parola cioè scambio proficuo perché arricchisce la riflessione e la vita consacrata (57.3).

L’evangelizzazione, inoltre, ha una dimensione educativa perché aiuta la gente a formulare un giudizio sulle ideologie e discernere “ciò che vi è di vero e di liberante da ciò che vi è di falso e di oppressivo” (61.8); ha altresì una dimensione profetica perché è condanna di ogni abuso della giustizia (61.5, 61.6) ma anche ricerca faticosa della riconciliazione in situazioni di conflitto (61.9). La RdV è chiara sulle responsabilità delle scelte politiche e la denuncia delle oppressioni: le prime devono essere compito della gente del luogo – il missionario deve, anzi, educare “la gente ad assumere le proprie responsabilità politiche e sociali” (61,2) – la seconda, fatta in collaborazione con la Chiesa locale e la comunità.

Ma il lavoro missionario si esplicita pure nella promozione dei ministeri e la formazione dei leader: il clero locale, gli animatori delle comunità e i catechisti (64, 64.1, 65).

Se diverse sono le tappe dell’evangelizzazione e le sue dinamiche, vari sono i servizi e i mezzi per renderla operativa (56.4): lo studio della lingua e delle tradizioni del popolo (57), i mezzi di comunicazione sociale (59.3), le scuole e le varie opere di promozione umana (61.4) senza dimenticare, però, che i metodi devono essere adattati alle differenti situazioni (59.2).  

3.3.4 I responsabili

L’attività missionaria è, prima di tutto, compito della Chiesa locale; l’Istituto vi partecipa in due modi: perché presta servizio dentro una Chiesa locale di cui accetta le priorità e perché i suoi membri sono espressione di Chiese locali (17, 17.1, 65.1, 66.2). Lo jus commissionis è ormai un pallido ricordo del passato, come lo è la figura del missionario, l’eroe solitario di tante battaglie che converte i ‘pagani’ alla ‘vera fede’; ora l’azione evangelizzatrice non è compito del missionario singolo ma è un impegno della comunità – una comunità evangelizzata ed evangelizzatrice, per dirla con l’ EN  – che discerne, programma ed agisce, che vive e testimonia la fede in Cristo nella comunione con i fratelli provenienti da differenti paesi e culture, che è chiamata a convertirsi e a cambiare i contenuti e i metodi missionari  (18, 23, 68.1, 99).  

L’evangelizzazione come liberazione integrale della persona è un impegno che coinvolge tutte le forze della Chiesa e della società. Perciò il missionario “favorisce il sorgere e lo sviluppo di comunità apostoliche di preghiera e di lavoro fra tutte le forze che si dedicano all’evangelizzazione nello stesso luogo” (68).  Inoltre, compito del missionario è di essere fermento di unità tra vari agenti dell’evangelizzazione, cercando la collaborazione a tutti i livelli, cooperando con le altre Chiese cristiane, stimolando anzi “inquietando” la Chiesa al suo compito missionario ma mantenendo anche un atteggiamento affrancato da pregiudizi nazionalisti e libero verso i “poteri umani” che volessero usare il Vangelo per i loro scopi (7, 8, 9, 18, 67.1).  Comunione e collaborazione sono le due dimensioni essenziali per un efficace lavoro missionario.

La RdV sottolinea altri atteggiamenti e dimensioni irrinunciabili del missionario: la fiducia nella gente e nella sua capacità di costruire comunità autosufficienti (7.1, 60.2); la solidarietà libera da pregiudizi del missionario che partecipa “alle gioie, speranze, tristezze ed angosce di un popolo” con cui condivide la vita (60, 60.1); il discernimento personale e comunitario dei segni dei tempi, attraverso la fedeltà alla Parola di Dio e l’ascolto della Chiesa, un discernimento che rende i missionari aperti a nuove situazioni, capaci di agire localmente ma con una visione globale dei problemi e disponibili a rivedere gli atteggiamenti, le istituzioni e i metodi del loro operato (16, 33). 

3.3.5 Dimensioni spirituali

La RdV rimette al centro della vita spirituale le dimensioni proprie della spiritualità di Comboni: il Cuore di Gesù, il Buon Pastore e la Croce: “Il Fondatore ha trovato nel mistero del Cuore di Gesù lo slancio per il suo impegno missionario. L'amore incondizionato del Comboni per i popoli dell'Africa aveva la sua origine e il suo modello nell'amore salvifico del Buon Pastore, che offrì la sua vita sulla croce per l'umanità […]” (3) “Comboni visse la sua chiamata all'insegna della Croce, affrontando le sofferenze, gli ostacoli e le incomprensioni nella convinzione che «le opere di Dio devono nascere e crescere appiè del Calvario»” (4).

Le dimensioni spirituali proprie della vocazione missionaria comboniana sono edificate su questi elementi di fondazione spirituali e ne sono la conseguenza: fare dell’evangelizzazione la ragione della propria vita (56) accettando situazioni di persecuzione fino all’estremo sacrificio della propria vita (13.1, 58.3). È un impegno totale e totalizzante, senza mezze misure, di chi è disposto a sacrificare i propri progetti personali (36.4).

Elemento che caratterizza la vita missionaria e principio di spiritualità è la provvisorietà che è insita nella natura del lavoro missionario il cui scopo è la crescita di una Chiesa locale autosufficiente; ma essa è anche richiesta per altri motivi come il bene personale[41] e quello dell’Istituto, l’esigenza di lavoro in altri campi o dovuta a fattori esterni come l’instabilità socio-politica (71, 71.1). La RdV sembra privilegiare un’accezione pratico-giuridica della provvisorietà. Non sufficientemente messa in risalto, a me sembra, la dimensione martiriale rilevata dal Capitolo del 1975 dove provvisorietà era anche vista nell’ottica della persecuzione, elemento importante per la crescita della Chiesa. In questa prospettiva la figura del servo di Jaweh assumeva un valore emblematico.  

3.3.6 Conclusione

La RdV è il punto d’approdo dei Capitoli precedenti e della riflessione della Chiesa sull’evangelizzazione. Lo Spirito Santo come agente dell’evangelizzazione, il Regno di Dio come suo orizzonte, liberazione integrale, incarnazione, inculturazione, l’attività missionaria come evento di comunione e collaborazione, la realtà della Chiesa locale – nonché il Comboni e la missione come parte essenziale del carisma – fanno ormai parte del lessico comboniano sull’attività missionaria. Un cambio sostanziale rispetto alle Costituzioni del 1958 in cui prevaleva l’attenzione sulle norme di vita religiosa mentre la “vita missionaria” era descritta soprattutto in termini giuridici, in relazione all’autorità religiosa ed ecclesiastica[42].

Un importante appunto finale da rilevare è che nella RdV, come in tutti i Capitoli del resto, i “più necessitosi e derelitti” sono i poveri nella doppia dimensione, quella della fede e quella sociologica. È un criterio importante nella scelta dei campi di lavoro che evita una deriva solo sociale dell’impegno missionario; non basta, infatti, il parametro di ‘povero’ sotto l’aspetto sociologico per giustificare un impegno; anzi, i poveri come “gruppi umani non ancora o non sufficientemente evangelizzati” – per dirla con la RdV – sono un criterio di impegno preminente rispetto a quello sociale.


P. González Galarza Fernando,
missionario comboniano,
in Sud Sudan.

4. Il Capitolo del 1985

4.1 Il Contesto:1980-1985

Gli anni ’80 sono anni difficili per l’Africa perché vedono la crescita del livello di povertà e di crisi ambientali; le economie africane devono ricorrere sempre di più agli aiuti internazionali che vengono però legati ai Piani di aggiustamento Strutturale (PAS): i PAS colpiscono soprattutto le spese sociali. Cresce quindi il disagio sociale e l’instabilità politica che causa l’aumento dei flussi di profughi e rifugiati[43].

Altri eventi segnano il periodo in esame: il fallito attentato al Papa Giovanni Paolo II in Piazza S. Pietro (1981), la scoperta del virus dell’AIDS nel 1984, un flagello che devasterà intere popolazioni e la fame di proporzioni catastrofiche in Etiopia nel 1985. In Unione Sovietica il segretario generale del partito comunista, Mikhail Gorbachev, avvia un processo di cambiamento lanciando due parole-simbolo: perestrojka (ricostruzione) e glasnost (trasparenza); questo processo sancirà, di fatto, l’incapacità dell’Unione Sovietica di riformare il suo sistema economico e il suo apparato burocratico e ne segnerà la sua fine.

Tra gli avvenimenti nella Chiesa Cattolica in questo lasso di tempo, degna di nota è la promulgazione del Codice di Diritto Canonico da parte di Giovanni Paolo II nel gennaio del 1983. Inoltre il Papa pubblica le esortazioni apostoliche Familiaris consortio (1981) e Reconciliatio et penitentia (1984) a seguito delle assemblee ordinarie dei vescovi, e le encicliche Dives in Misericordia (1980) Laborem exercens (1981). Per quanto riguarda le riflessioni sul dialogo e la missione, è da notare la pubblicazione da parte del Segretariato per i non Cristiani del documento dal titolo L’atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci di altre religioni, stampato nel 1984. Ma gli anni ottanta registreranno anche la forte reazione della Santa Sede contro alcune tendenze della Teologia della Liberazione (TdL) espressa in due studi pubblicati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede: Libertatis Nuntio (1984) e Libertatis Conscientia (1986). In sostanza si metteva in guardia la TdL da accettare postulati marxisti e quelli provenienti da altre ideologie politiche in contrasto con la dottrina sociale della Chiesa; inoltre, si criticava l’assunto che identificava “il Regno di Dio e il suo divenire con il movimento della liberazione umana e a fare della storia stessa il soggetto del suo proprio sviluppo come processo di auto-redenzione dell'uomo mediante la lotta di classe”[44]. Settori conservatori della Chiesa, come l’Opus Dei, avrebbero formulato giudizi fortemente critici e fatto una forte pressione contro la TdL[45].

La situazione difficile in alcune aree del pianeta, in particolare in Africa, doveva riflettersi anche sulle missioni comboniane che registrarono la morte violenta di alcuni missionari: Sr. Liliana Rivetta e P. Osmundo Bilbao, uccisi in Uganda rispettivamente nel 1981 e nel 1982; Sr. Teresa Dalle Pezze, in Mozambico nel 1985 e P. Ezechiele Ramin in Brasile nello stesso anno. Le guerriglie e gli atti di banditismo stavano ancora devastando alcuni Paesi africani dove erano presenti le missioni comboniane, in particolare il Mozambico, l’Uganda e il Sud Sudan. La situazione del Continente dopo 20/30 anni di indipendenza veniva fotografata da un documento dal titolo ‘Giustizia ed evangelizzazione in Africa’ diffuso dall’Assemblea Generale del SECAM riunita a Yaoundé in Camerun nel 1981: l’Africa, rilevava il documento, era ancora travagliata da enormi problemi causati sia da fattori esterni che da cause interne, quali la corruzione, lo sperpero del patrimonio nazionale e la cattiva amministrazione dei fondi pubblici; chi ne subiva le conseguenze erano le classi più povere che vedevano il loro potere d’acquisto diminuire giorno dopo giorno[46].

Questo il contesto generale in cui si svolse il XIII Capitolo Generale dell’Istituto. Nei primi anni ’80 l’Istituto comboniano aveva celebrato il centenario della morte del Comboni (1981) mentre la rimozione dei due reponatur da parte della S. Sede (1982) aveva rinvigorito gli studi sul Fondatore e ripresa la causa di beatificazione.

Il Capitolo Generale era stato preparato dall’Assemblea intercapitolare nell’agosto-settembre del 1982 in cui si proponeva di approfondire “il nostro servizio missionario con riferimento al carisma del Fondatore e alla spiritualità e metodologia missionaria”[47]. A questo scopo si era organizzato a Roma nel 1983 un corso monografico su ‘Metodologia e Pastorale Missionaria’. Quanto la ricerca di una metodologia e pastorale missionaria fosse al centro delle preoccupazioni dell’Istituto lo documenta la relazione della Direzione Generale (DG) al Capitolo del 1985 in cui essa auspicava che il Capitolo potesse elaborare “un documento-base sulla missione. […] Esso potrebbe forse aprire la strada per una specie di ‘Ratio Evangelizationis’ per il nostro Istituto e aiutare fin d’ora a tradurre concretamente la RdV in vista del programma sull’evangelizzazione […]”[48]. Ma la DG, nella sua relazione, aveva pure constatato, tra altri problemi, la necessità di una revisione degli impegni nelle Provincie perché il personale era numericamente inadeguato a sostenerli, anche se si prospettava che la possibilità di un aumento del personale missionario, proveniente soprattutto dalle giovani Chiese, “ era buono”[49].

Il Capitolo Generale iniziò il 29 giugno del 1985. I delegati erano 69 di cui il 66.6% di nazionalità italiana mentre il 13% proveniente dalla DSP: i delegati dall’Europa erano ancora la maggioranza in Capitolo.

4.2 Natura e Fini dell’evangelizzazione

Il Capitolo, prendendo coscienza dell’evoluzione della missione, afferma che “far emergere i valori del regno di Dio in ordine alla liberazione integrale dell’uomo è prioritario nel nostro servizio missionario” (35). Il Regno – che non è identificabile con situazioni o ideologie ma con la persona di Gesù Cristo – diventa, perciò, il punto di riferimento e l’orizzonte della missione: far emergerne i valori significa “mettere in evidenza e favorire i segni di questa lenta, a volte sofferta, ma decisa e progressiva trasformazione di tutto in Cristo” (36).

Se il Regno di Dio è l’orizzonte della missione e la liberazione integrale il suo frutto, la crescita delle chiese locali, dei ministeri, del laicato e l’evangelizzazione delle culture sono, insieme ad altri, i nuovi elementi della missione (5) che ne trasformano la dinamica. Infatti, è nell’ottica dell’evoluzione della missione – unitamente alla fedeltà al carisma, alle sfide dei segni dei tempi, alla situazione dell’Istituto nel personale e nelle strutture oltre, ovviamente, ma non come preoccupazione primaria, allo squilibrio tra impegni e consistenza numerica – che il Capitolo parla della necessità di revisione e riqualificazione degli impegni come di una priorità (1-21). Un argomento, quello della revisione e riqualificazione, che, nel Capitolo del 2003, sarà associato soprattutto, se non esclusivamente, alla riduzione del personale[50].

4.3 Ambiti e orizzonti

Il Capitolo si sforza di fare una lettura della situazione indicando i segni della presenza del Regno, della sua assenza e delle sfide che questi segni pongono al nostro stile di vita e lavoro nei Continenti dove siamo presenti. Prendiamo atto come la storia sia ormai considerata l’ambito in cui si manifesta la volontà di Dio e la lettura dei segni dei tempi la modalità propria per interpretarla alla luce del Vangelo[51]. Il Capitolo si sforza di offrire dei punti programmatici in linea con la lettura della situazione, anche se questi hanno più un sapore di principi esortativi che di linee programmatiche: starà alle Provincie, quindi, dare spessore pratico a questi principi.

Si ribadiscono gli ambiti di lavoro esaminati nei Capitoli precedenti e nella Regola di Vita: “gruppi umani non ancora o non sufficientemente evangelizzati”che includono le masse non cristiane dell'Africa, l'Islam, l'Asia, gli Afro-americani, i gruppi di frontiera, le periferie urbane, le situazioni di ingiustizia ed oppressione, i giovani (3). La scelta degli ambiti è specificata nella scelta “dei più poveri e abbandonati in ordine al Regno[52] specialmente quelli in situazioni missionarie di prima evangelizzazione” (3). Si ribadisce la scelta tradizionale del campo di lavoro che è diretta sia da un criterio religioso (i non ancora o non sufficientemente evangelizzati) come socio economico.

Prendendo atto del lungo discernimento, iniziato nel Capitolo del 1979, di aprire una missione in Asia, il Capitolo ne decide l’apertura nel prossimo sessennio: lo scopo principale sarà la prima evangelizzazione (146).

4.4 Le vie dell’evangelizzazione

È nell’ambito delle nuove sfide che gli impegni e le modalità della missione devono cambiare e adattarsi ai tempi. L’interlocutore privilegiato è la Chiesa locale la cui autosufficienza ministeriale, apostolica ed economica esige che si cedano strutture di supplenza che la Chiesa può gestire e che si creino nuove strutture secondo due criteri: semplicità e collaborazione con la gente (11, 15). Sottolineato è il dialogo con la Chiesa a cui si mette a disposizione personale specializzato (11). L’idea sembra essere quella di muoversi da un lavoro a gestione prettamente parrocchiale privilegiando altri impegni che la Chiesa locale necessiterebbe[53].

Ciò che mi sembra una novità è che il Capitolo prenda in considerazione le diverse ‘situazioni missionarie’ che richiedono priorità diverse e interventi differenziati, cioè ogni metodo missionario deve essere adattato al contesto: in Europa, la sensibilizzazione delle chiese locali alla missione ‘ad gentes’ e alla ‘missione che viene a noi’ – cioè i ‘terzomondiali’ (42, 58-59); in Africa, la conoscenza e il dialogo con le religioni tradizionali e l’Islam, l’ attenzione al processo di urbanizzazione, la cooperazione con la Chiesa locale sulla promozione umana e l’ attenzione a coinvolgere la Chiesa nella denuncia di situazioni e strutture opposte al Regno di Dio (34, 60-65); in America, il coinvolgimento con il popolo per le lotte circa la giustizia e la pace, la priorità ai popoli emarginati (indigeni, afroamericani, abitanti delle periferie urbane…) che richiede una verifica dei campi di lavoro e di metodologia missionaria, la sensibilizzazione della Chiesa locale – in particolar modo nella provincia del Nord America – sui problemi dei poveri, immigrati e afro-americani (48, 66-68). Ormai non è più possibile parlare di una situazione uniforme di ambiti e modalità di evangelizzazione. Il CG lo aveva ribadito nella sua relazione al Capitolo: “C’è una tendenza […] alla Continentalità […]. Si stanno delineando, forse […] 4 blocchi: Africa nera, Africa del nord (mondo Arabo), Americhe, Europa […]. Si tratta di visioni proprie della missione, che esprimono anche particolari richieste […]. Richieste e punti di vista che sono complementari, ci pare, e che quindi non devono creare contrapposizioni ma arricchire la visione globale della missione, e conseguentemente della nostra attività”[54]

4.5 I responsabili

A parte l’affermazione di principio che il povero “da semplice destinatario della missione, passa ad avere un ruolo determinante nell'evangelizzazione stessa” (5) che non trova risvolti programmatici pratici negli Atti Capitolari, il Capitolo ribadisce il ruolo della Chiesa locale, soggetto principale di evangelizzazione per la cui crescita e autonomia la revisione degli impegni e delle strutture provinciali deve essere pianificata (17). La centralità della “comunità evangelizzatrice” nel lavoro missionario è riaffermata: l’inserimento della comunità nella realtà locale ha nella conoscenza della lingua locale un mezzo indispensabile (27) e un segno di rispetto tra i membri della comunità stessa. Si riconferma la proposta già emersa nel Capitolo del 1975, cioè la possibilità di esperienze di vita comunitaria che esplorino nuove modalità di “evangelizzazione, di contemplazione e inserimento nell’ambiente” (32).

Una delle novità in questo Capitolo – oltre a reiterare l’importanza dei laici missionari che “mettono a servizio il loro competenza, come segno di solidarietà ecclesiale con i popoli tra cui lavoriamo” (112) – consiste nell’approvazione dell’esperienza di ‘comboniani associati’ nata in seno alla Provincia di lingua tedesca e che ora il Capitolo ufficializza facendola diventare patrimonio dell’Istituto (129). Sarà questa l’esperienza embrionale che porterà alla nascita dei Laici Missionari Comboniani, ma sarà pure la dimostrazione di un proficuo scambio di esperienze che, se opportunamente vagliate e assunte dall’autorità, possono diventare comune arricchimento per l’Istituto.

4.6 Dimensioni spirituali

Se l’evangelizzazione non è un compito di un individuo solitario ma della comunità, allora è la vita comunitaria stessa che deve essere “segno del Regno e dei suoi valori” (34).

È una comunità che, per diventare segno profetico, deve lasciarsi evangelizzare dai valori della realtà in cui è inserita attraverso un atteggiamento di permanente conversione (23). La realtà è vista come luogo teologico, intrisa di valori positivi e della presenza di Dio.

Essere “segno del Regno” si esplicita attraverso varie modalità: una sana vita comunitaria che bandisce l’individualismo e la mancanza di valorizzazione dei membri della comunità, una vita comunitaria aperta all’internazionalità (25-30) e all’accoglienza (51), che si esprime nella necessaria armonia tra vita consacrata e vita apostolica, nella comunione e collaborazione con la Chiesa locale, nell’impegno per la pace e la riconciliazione (32-34), nella collaborazione con coloro che si impegnano a favore dell’uomo (54). È, quindi, la comunità “evangelizzata ed evangelizzatrice” – per dirla con l’Evangelii Nuntiandi n. 20 – che si pone al centro dell’impegno di evangelizzazione.

4.7 Conclusione

“Il Capitolo del 1985 – scrive p. F. Gonzalez riportando una lettera del CG del 1984 – entrava […] nella linea dei capitoli ordinari […] che hanno come compito ‘l’approfondimento pratico di temi emergenti nel cammino storico dell’Istituto, alla luce dei nuovi segni dei tempi e della Regola di Vita, e la programmazione delle attività specifiche alla luce del carisma. Non si tratta, quindi, di elaborare documenti dottrinali, ma di applicarli nella vita, conciliando insieme zelo e realismo’”[55].

Tra i temi emergenti, il Regno, i suoi valori e la liberazione integrale; essi sono al centro della discussione in aula capitolare e – assieme alla revisione e riqualificazione degli impegni e alla comunità missionaria – tra le priorità degli Atti Capitolari. La categoria Regno di Dio, attraverso le sollecitazioni dei documenti di Puebla e Medellin, dell’enciclica Evangelii Nuntiandi e della Regola di Vita che ne aveva adottato la relazione intrinseca con l’ evangelizzazione, entra a far parte dell’orizzonte della missione. La decisione di aprire delle missioni in Asia rappresenta il punto d’arrivo del percorso iniziato nel Capitolo del 1975 come proposta e proseguito nel Capitolo del 1979 come possibilità concreta, ma anche la conclusione di una riflessione che staccava la missione comboniana dai limitati orizzonti geografici tradizionali verso ‘situazioni missionarie’ il cui centro erano i popoli e le loro culture. Di notevole importanza e motivo di novità mi sembra pure la constatazione che le modalità della missione vanno differenziandosi nei vari contesti e nelle multiformi situazioni missionarie.

Inoltre, l’apertura ai ‘comboniani associati’ – nella prospettiva che la missione deve essere un compito che richiede collaborazione a tutti i livelli – è una delle decisioni innovative del Capitolo.

Lascia un po’ perplessi la quasi mancanza di riferimenti ai documenti della Chiesa o di altre Istituzioni che avevano invece arricchito gli Atti Capitolari precedenti.

5. Il Capitolo del 1991

5.1 Il Contesto: 1986-1991

Questo periodo, che a ragione può considerarsi epocale, è segnato dalla caduta del muro di Berlino, la fine dell’Unione Sovietica e la nascita della Federazione Russa. Il regime comunista, in Europa, si sta sgretolando e, con esso, la fine del periodo di separazione del mondo in due blocchi e della Guerra Fredda; ciò rimetterà in questione gli assetti politici di molte Nazioni: e avrà delle ricadute anche sui Paesi del Sud del mondo, come l’Etiopia che vedrà la fine della dittatura comunista di Menghistu nel 1991, così come la Somalia con la fine di Siad Barre nello stesso anno. L’altro gigante comunista, la Cina, reprime violentemente le proteste in piazza Tienanmen, all’inizio di giugno del 1989, facendo migliaia di vittime tra gli studenti scesi in piazza. La fine dell’occupazione sovietica in Afghanistan nel 1988 e quella della guerra tra Iran e Iraq nel 1989 non mettono fine alle guerre in Medio Oriente: all’inizio del 1990 forze delle Nazioni Unite, capeggiate dagli USA, lanciano l’operazione Desert Storm per ricacciare l’Iraq dal Kuwait invaso un anno prima. Questa guerra ripropone il rapporto tra mondo musulmano e occidente che negli anni a venire diventerà drammatico. Altri due fatti gravi incupiscono la seconda metà degli anni ‘80: il disastro della centrale nucleare di Chernobyl, in aprile del 1986, e il crollo della borsa di New York che perde più del 22% del suo valore in un giorno che sarà chiamato ‘lunedì nero’ (19/10/1987); questo terremoto finanziario provocò una reazione a catena contagiando tutte le altre borse mondiali; la convinzione che il denaro si producesse mediante altro denaro fu messa in discussione[56]. Purtroppo questo sisma finanziario, letto con il senno del poi, non decretò la fine dei facili guadagni e dell’‘economia di carta’ su quella reale. Ma in questo periodo di tempo si ricordano anche fatti positivi come l’elezione di Corazon Aquino nelle Filippine (1986), che sanziona la fine del lungo periodo del regime corrotto di Marcos, il rilascio di Nelson Mandela (1990) e l’abrogazione di tutte leggi sull’apartheid in Sudafrica (1991).

Nel periodo tra il 1986 e il 1991 il papa Giovanni Paolo II pubblica diversi documenti tra cui l’enciclica Dominum et Vivificantem sullo Spirito Santo nella vita della Chiesa (1986), la lettera apostolica Mulieris Dignitatem (1988) e due encicliche sociali: Sollicitudo Rei Socialis, (1987) in occasione del ventesimo anniversario della Populorum Progressio e Centesimus Annus (1991) nel centenario della Rerum Novarum. A seguito del VII sinodo dei vescovi sulla vocazione e missione dei laici organizzato a Roma dal 1 al 30 ottobre 1987, il papa da alle stampe l’esortazione apostolica Christifideles Laici (1988). Importanti per il mondo missionario altri due documenti: l’enciclica Redemptoris Missio (1990) e il documento emanato dal Consiglio Pontificio per il Dialogo interreligioso e dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli Dialogo e Annuncio del 1991.

Nell’Istituto comboniano il periodo in questione fu caratterizzato dalla ricerca di un metodo missionario comboniano. Il progetto di una Ratio Evangelizationis, desiderato dal Consiglio Generale uscente durante il Capitolo del 1985 e iniziato con le migliori intenzioni nel 1986, non fu mai portato a termine. Nonostante ciò la ricerca di una ‘metodologia missionaria di evangelizzazione’ proseguiva il suo cammino, tanto che il Consiglio Generale nella sua relazione al XIV Capitolo ebbe a dire che “È maturata notevolmente […] l’attenzione alla metodologia missionaria, anche se resta ancora del cammino da fare”[57]. Nel 1989 si organizzò un’assemblea dell’evangelizzazione in Africa, a Nairobi (Kenya), dal titolo: Evangelizzazione in Africa. Per una metodologia comboniana, seguita, nel 1991, dall’assemblea panamericana a Lima in Perù sul tema: L’impegno comboniano di evangelizzazione nell’America oggi e la sua metodologia missionaria; questo convegno fu celebrato quasi in contemporaneità con il congresso missionario latinoamericano (COMLA IV) tenutosi nella stessa Lima[58]. La visione e l’impostazione di quest’ultima assemblea ebbero un influsso sul Capitolo Generale del 1991, soprattutto nelle parti riguardanti i campi di lavoro e la metodologia missionaria – secondo il parere dell’allora segretario generale dell’evangelizzazione p. Uhl.

Importanti avvenimenti nel sessennio precedente al Capitolo furono: la revisione aggiornata della Regola di Vita e la sua approvazione da parte della S. Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli e la pubblicazione della Ratio Fundamentalis Institutionis et Studiorum, che presentava le norme e i principi sulla promozione vocazionale, la formazione di base e la formazione permanente (marzo 1991); da ricordare, inoltre, l’apertura in Asia (Filippine 1988, Macau 1990), l’erezione delle delegazioni del Centro America e del Ciad (1988), e il territorio speciale di Torit, in Sudan (1990). Alcune delle Nazioni africane, soprattutto l’Uganda, erano ancora travagliate da insicurezza e guerriglia: le uccisioni di p. E. Ferracin (1987), p. E. Biscaro ( (1990) e p. W. Nyadru (1991) – quest’ultimo subito dopo la chiusura del Capitolo generale – avvenute in Uganda[59] ne fanno da triste corollario.

Il XIV Capitolo Generale si aprì a Roma il 26 agosto del 1991 alla presenza di 69 capitolari. I gruppi maggioritari erano Italiani (il 55%), l’11,5% dalla provincia tedesca e il 10,1% dalla Spagna. La scelta del tema ebbe una lunga gestazione: i provinciali presenti all’assemblea capitolare del 1989 avevano proposto una serie di argomenti da trattare. Alle provincie nel 1990 era stato sottoposto un questionario fra i cui punti figuravano anche domande sulla scelta di possibili temi per il prossimo XIV Capitolo Generale. Inoltre, il superiore generale, p. Pierli, nella lettera di convocazione del Capitolo, invitava i confratelli stessi a proporre delle tematiche che avrebbero potuto essere prese in considerazione[60].

I delegati al Capitolo, riportando le parole di Introduzione agli Atti Capitolari, ne mettevano in risalto la tematica: “Alla luce del carisma comboniano e dell'Enciclica Redemptoris Missio abbiamo preso più viva coscienza delle situazioni missionarie nell'oggi del mondo e della Chiesa alla vigilia del 2000” (1)[61], specificando che nelle loro analisi si sarebbero limitati “a sottolineare alcuni problemi o aspetti ritenuti più urgenti per la vita e l'attività missionaria dell'Istituto e a proporre delle piste di azione e degli orientamenti” (1.3). Nei lavori capitolari i partecipanti seguirono cinque ‘piste[62] focalizzandone i problemi, facendone delle valutazioni e offrendo degli orientamenti programmatici. Si sottolineava, inoltre, che il rinnovamento dello stile di vita e della presenza missionaria si trovava nel proficuo incontro tra carisma e situazioni missionarie, il cosiddetto “punto focale”, espresso nella relazione “Missione-Carisma/Carisma- Missione” (5.1)[63].

5.2 Fini, ambiti e orizzonti dell’evangelizzazione

Fondamentalmente questo Capitolo non aggiunge novità di rilievo sui fini dell’evangelizzazione e sugli ambiti specifici rispetto ai Capitoli precedenti. Si riafferma l’impegno per la liberazione integrale dell’uomo “anche al di là dei confini della Chiesa visibile” (45.1). Nell’ottica del continuo sforzo di revisione e riqualificazione degli impegni, si specificano, nella quarta pista, i campi di lavoro propri di un impegno comboniano già menzionati nel Capitolo del 1985 e qui ripresi (41).

5.3 Le vie dell’evangelizzazione

Anche in questo ambito si reiterano le decisioni dei Capitoli precedenti auspicando la nascita di comunità inserite attraverso un fecondo dialogo con la comunità, il consiglio provinciale e la Chiesa locale (45.2f).. Ma ‘inserzione’ è il modo proprio di una comunità locale di abitare tra la gente assumendone lo “stile di vita, le attitudini, la sofferenza, parlando la sua lingua e adeguandosi al suo ritmo” (31.5); ‘Inserzione’ significa “restare con la gente, come segno di profonda fedeltà al carisma comboniano, nell’ora della necessità in paesi dove imperversa la guerra civile, il terrorismo o dove ci sono situazioni di emergenza” (40.4).

La quinta pista degli AC è dedicata alla metodologia missionaria comboniana con cui “si vuole intendere non solo i mezzi e le tecniche, ma anche e soprattutto gli atteggiamenti di fondo, lo stile di vita e la spiritualità” (42). Tre sono gli sono gli elementi fondamentali di metodologia indicati dagli AC: salvare l’Africa con l’Africa, fare causa comune con la gente, evangelizzare come comunità. Ad ognuno di essi si offrono degli orientamenti pratici, tra cui sviluppare iniziative di formazione di leaders e coinvolgere la gente nella programmazione e valutazione degli impegni pastorali; favorire esperienze di inserzione più radicale; assecondare la costituzione di comunità internazionali (42-46). Ecco, quindi, che ‘metodologia missionaria comboniana’ diventa uno dei concetti-chiave di questo Capitolo, punto d’arrivo delle esperienze del sessennio precedente e sforzo di ridefinire la missione nella fedeltà alla storia e al retaggio comboniano.

5.4 I responsabili

Evangelizzare come comunità è uno degli elementi di metodologia comboniana di evangelizzazione perché la missione, come affermano gli AC, “non è opera di singoli individui ma di Chiesa” (46.1). In un Istituto che si sta internazionalizzando le comunità formate da persone di diversa estrazione etnica e culturale diventano strumenti di evangelizzazione.

È la Chiesa locale il vero soggetto di evangelizzazione (3.3). Il principio di metodologia ‘salvare l’africa con l’Africa’ trova nella collaborazione con la Chiesa locale e nella sua crescita una delle conseguenze pratiche, una crescita sia ministeriale che apostolica ed economica. Ma sono soggetto di evangelizzazione anche i poveri in quanto aiutano a vivere la fedeltà radicale al Vangelo e al carisma missionario (4.5). Ovviamente la modalità dell’essere soggetto di evangelizzazione è diversa per la Chiesa locale e i poveri: nel primo caso si tratta di programmazioni, piani pastorali e decisioni giuridiche che investono la vita della Chiesa locale; nel secondo caso ‘esser soggetti’ è vista nell’ottica spirituale e profetica, di stimolo ai missionari a vivere più profondamente il Vangelo e la loro chiamata.

Se la missione è un’opera essenzialmente di Chiesa, i laici diventano uno dei punti di forza della missione. Il Capitolo rilancia i ‘comboniani associati’ (63.3) ma prende atto anche di nuove proposte che stanno nascendo nelle provincie d’Italia, nella London Province e NAP, circa la possibilità di Laici missionari comboniani che “vogliono condividere con noi non solo la spiritualità e una metodologia missionaria, ma anche un progetto di vita e di missione(63.5)[64].  I Laici comboniani sono ancora un gruppo in fase embrionale per cui si domanda ai consigli provinciali uno studio approfondito su tale realtà su cui, poi, il Consiglio Generale darà una valutazione. Ma è indubbio che con i Laici Comboniani la comunità apostolica - che, diceva il Capitolo del 1975, è “la comunione di tutte le forze vive che lavorano nello stesso luogo per il regno di Dio”[65]- si arricchisca; si approfondisce così il senso del carisma comboniano, visto come retaggio non solo dei due Istituti che il Comboni ha fondato[66].

5.5 Dimensioni spirituali

Di fronte a sintomi come la “mancanza di motivazioni e chiarezza interiore” (11.4) che favoriscono “situazioni di rigetto nei confronti della gente” (11.4)[67], p. F. Gonzalez rileva nel Capitolo il “bisogno di un esame profondo della propria realtà [di Istituto], di fermarsi […] di rivivere la memoria dell’avvenimento comboniano”. Il metodo che il Capitolo propone è “quello di ‘contemplare’ quell’Avvenimento di grazia ed entrare in comunione con esso […]. L’avvenimento carismatico fondamentale nella vita di Daniele Comboni è la grazia ricevuta il 15settembre 1864. […]. Afferrato totalmente dall’amore di Cristo in favore dei più poveri della Nigrizia”[68]. Riappropriarsi della spiritualità del Comboni diventa, perciò, fonte di una vibrante vita comunitaria e di passione per la missione (12.1-3).

È nell’ottica dell’avvenimento carismatico di Comboni e della sua conseguente esperienza che viene valutata la storia passata e presente dell’Istituto perché “il legame tra il carisma e la missione configura la nostra identità e ne alimenta il dinamismo di servizio e di donazione ai fratelli” (14.2). Due parole, riferite all’esperienza del Comboni e di tanti Comboniani, sono costantemente usate nella ‘pista’ dedicata alla spiritualità: la dimensione sponsale e quella martiriale: il Comboni è stato “afferrato totalmente dall’amore e dal dinamismo del Cuore di Cristo crocifisso” (12.1) che lo hanno reso “missionariamente forte per superare ogni difficoltà e disponibile ad accettare anche il martirio” (12.2)  Il Capitolo riconosce che l’esperienza sponsale e martiriale del Comboni è vissuta da molti confratelli ed è viva anche oggi” (13). Negli AC il ‘piccolo cenacolo di apostoli’ riferito all’ Istituto è così interpretato in senso missionario, come ‘comunità evangelizzatrice’ che si dona incondizionatamente al Regno e alla Chiesa, ai “più poveri e abbandonati” perché essi stessi diventino soggetti e protagonisti della propria storia” (13,1; 13,2; 14.1). La dimensione sponsale e martiriale è altresì ciò che rende il missionario comboniano unito indissolubilmente ai più poveri e abbandonati ed è fonte di “gioia ed entusiasmo anche in situazioni di fallimento, di persecuzione e di anzianità” (14.1).

Il ‘punto focale’ Missione-Carisma/Carisma-Missione rileva questo legame indissolubile tra spiritualità e missione che “integra le esigenze di preghiera, di studio e lavoro” e rende capaci di discernere alla luce del Vangelo “gli avvenimenti sociali politici ed economici, l’ingiustizia e la miseria di cui sono vittime i poveri” (11.2). È probabilmente per il ruolo fondamentale della contemplazione del Cuore trafitto nell’esperienza di Comboni che il Capitolo appoggia iniziative di confratelli che “optano per uno stile di vita più contemplativo a servizio della missione” (27).

5.6 Conclusione

Uno dei meriti di questo Capitolo è di aver portato in primo piano l’ argomento della metodologia comboniana di evangelizzazione, un tema iniziato nei due sessenni precedenti. Esso si inquadrava nell’ottica della ricerca di uno stile di apostolato come parte integrante di uno ‘specifico comboniano’; la domanda sottostante era se esistessero delle linee comuni di evangelizzazione oltre un retaggio carismatico e spirituale condiviso.

Un secondo tema importante è di aver accolto la proposta dei Laici missionari comboniani. Un argomento ancora in fase di studio ma che avrà degli sviluppi successivi anche per ciò che riguarda l’approfondimento del carisma del Comboni.

Ma il Capitolo esamina il legame inscindibile tra spiritualità e missione, tra contemplazione e azione la cui sintesi consiste nella memoria attualizzata dell’esperienza sponsale e martiriale del Comboni. È dalla memoria del Comboni e, quindi, dalla spiritualità, che l’Istituto deve trovare le fonti del suo rinnovamento. L’espressione ‘piccolo cenacolo di apostoli’ – adottata per la prima volta in questo Capitolo – in quanto ‘comunità evangelizzatrice’, è la sintesi tra carisma e missione, tra vita consacrata e apostolato.

Invece, non sembra ci sia ancora la percezione piena del cambio epocale e degli sconvolgimenti politici che il crollo del muro di Berlino e la fine della fine della guerra fredda avrebbero provocato nelle zone del Sud del mondo, soprattutto in Africa; sarebbe chiedere troppo ad un Capitolo in termini di preveggenza e di analisi sapienziale della realtà? Inoltre, il Capitolo non ha ancora recepito il documento Dialogo e Annuncio, ma probabilmente era troppo presto visto che il documento era stato pubblicato nel maggio del 1991,qualche mese prima dell’apertura dell’assise capitolare.

 

P. Raimundo N. Rocha dos Santos,
missionário comboniano,
in Brasile.

 

6. Il Capitolo del 1997

6.1 Il Contesto: 1992-1997

Nell’ottobre del 1992 i due movimenti mozambicani, il FRELIMO e la RENAMO, che avevano gettato il Mozambico in una disastrosa guerra civile, firmano a Roma degli accordi di pace che diventano operativi il 15 ottobre 1992.

In dicembre dello stesso anno, gli USA guidano una forza multinazionale in Somalia, la cosiddetta missione Restore Hope, per dare aiuto alle popolazioni ridotte alla fame dopo anni di guerra civile. La missione si concluderà in un fiasco l’anno successivo. Il 24 maggio del 1993 sancisce la nascita di un nuovo stato in Africa: l’Eritrea vota l’indipendenza dall’Etiopia dopo anni di guerra.

Il 1994 segna un momento carico di speranza ma anche estremamente tragico per l’Africa: in aprile Nelson Mandela è eletto presidente nelle prime elezioni libere del Sudafrica post-apartheid; ma il mese di aprile è anche l’inizio del genocidio in Ruanda dopo l’abbattimento dell’aereo su cui viaggiavano il presidente ruandese Juvenal Habyarimana e quello del Burundi Cyprien Ntaryamira. Il genocidio, in cui persero la vita quasi un milione di persone di etnia Tutsi e i ‘moderati’ di etnia Hutu, termina in luglio con la presa di potere del Fronte Patriottico Ruandese diretto da Paul Kagame.

Uno dei problemi che si sta affacciando con prepotenza sul proscenio mondiale nella metà degli anni ’90 è il fondamentalismo di ogni credo politico o veste religiosa; lo riconosce anche il Consiglio Generale che, nella sua relazione al Capitolo del 1997, indica nel fondamentalismo uno dei lati oscuri del ‘mondo in cui viviamo’: “La risposta fondamentalista, facilmente associata oggi all’atteggiamento di importanti settori dell’Islam, ha anche altre manifestazioni con importanti implicazioni per la nostra missione: il sorgere e/o lo sviluppo di intransigenti movimenti nazionalistici e separatisti, il ricorso a atteggiamenti e iniziative razziste di fronte all’immigrazione, l’esplosione e l’attrattiva della sette nelle confessioni cristiane”[69].

Inizia nel dicembre del 1996 una guerra in Congo - Zaire intesa a spodestare il presidente Mobutu. L’Alleanza delle Forze Democratiche per le Liberazione dello Zaire sono guidate nominalmente da Laurent D. Kabila, ma di fatto sostenute con armi e personale da Ruanda, Uganda, Burundi e Angola e appoggiate dagli Stati Uniti; le conclamate ragioni della guerra sono di tipo difensivo, contro i ribelli Hutu che minacciano i confini del Ruanda e un governo che li foraggia, ma i veri motivi si ‘nascondono’ nel ricchissimo sottosuolo del Congo - Zaire con le sue le cospicue ricchezze[70]. Congiunture di instabilità sono presenti in diverse parti dell’Africa. La relazione del Continente africano al Capitolo riconosce “situazioni critiche nella regione dei Grandi Laghi (Rwanda, Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Uganda, Sudan, Congo Brazzaville) l’espansione del fondamentalismo islamico e l’incertezza politica ancora presente in Liberia, Sierra Leone, R:C:A: Somalia Algeria, Angola, Kenya”[71].

Per quanto riguarda la Chiesa Cattolica, elencare tutti gli scritti di papa Giovani Paolo II sarebbe oltremodo prolisso. Limitiamoci a quelli a cui gli Atti Capitolari attingono, come l’esortazione apostolica Ecclesia in Africa (1995) a seguito dell’assemblea speciale per l’Africa che dura dal 10 aprile all’8 maggio 1994; un’assemblea avvenuta quasi in contemporanea a due ‘estremi’ eventi per l’Africa, cioè le prime elezioni libere in Sudafrica e il genocidio in Ruanda. Dopo questa assemblea, il papa convoca la IX assemblea generale ordinaria sulla vita consacrata (2-9 ottobre) a cui seguirà l’esortazione Vita Consecrata (1996); quindi, un'altra esortazione apostolica, Tertio Millennio Adveniente (1994), scritta in preparazione del giubileo dell'anno 2000, e il documento della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e società di Vita Apostolica. La Vita Fraterna in Comunità (1994) saranno tra i documenti citati negli AC.

Intanto la Chiesa in America Latina celebrava nel 1995 in Brasile il V Congresso Missionario (COMLA V)[72] e la IV Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano a Santo Domingo nel 1992[73]. Convocata nel contesto dei 500 anni della prima evangelizzazione dell’America, la conferenza aveva come tema: “Nuova Evangelizzazione, Promozione Umana, Cultura Cristiana”. La Chiesa latinoamericana si impegnava in un progetto di nuova evangelizzazione dei popoli latinoamericani con i laici in un ruolo centrale, nella promozione integrale del popolo latinoamericano e caraibico attraverso una rinnovata opzione preferenziale per i poveri e, infine, in un’evangelizzazione inculturata il cui scopo era di inserirsi negli ambienti segnati dalla cultura urbana e di incarnarsi nei popoli indigeni e afroamericani[74].

L’avvenimento principale per l’Istituto comboniano in questo sessennio fu la beatificazione di Daniele Comboni avvenuta il 17 marzo 1996, un evento vissuto intensamente dalla famiglia comboniana, soprattutto in Egitto e in Sudan luoghi speciali alla memoria del Comboni. Ma altri eventi marcarono questo periodo; limitandoci alle più importanti attività nel campo dell’evangelizzazione: l’inchiesta condotta tra 12 Circoscrizioni d’Africa e 6 dell’America Latina da parte del segretario generale dell’evangelizzazione su come le Circoscrizioni avessero messo in pratica la metodologia missionaria proposta dal Capitolo del 1991 – un’inchiesta basata sulla quinta pista degli Atti Capitolari; quindi, le assemblee continentali sull’evangelizzazione e il carisma comboniano: in Europa (Palencia –Spagna, 1994), America (Rio de Janeiro, 1995) e Africa (Entebbe – Uganda,1996).

Prima del Capitolo del 1997 a tutti i confratelli fu mandato un questionario incentrato sulla verifica della programmazione capitolare e l’ analisi delle problematiche emergenti. Il questionario, preparato dall’Istituto di Sociologia dell’Università Salesiana, ebbe un discreto successo perché le risposte pervenute assommarono a più del 60% dei confratelli. Tra i problemi più urgenti a livello di Istituto, ai primi tre posti figuravano la preparazione dei formatori, l’impegno per la prima evangelizzazione e la cura e programmazione della formazione iniziale; mentre si individuavano nel protagonismo e l’individualismo, nella mancanza di impegno a formare leaders, nella carenza nell’animazione missionaria della Chiesa locale e nell’apprendimento della lingua e della cultura locale gli aspetti più carenti di metodologia missionaria[75]. Commentando sui tre pilastri della metodologia comboniana[76] anche il segretario generale dell’evangelizzazione lamentava la difficoltà di imparare le lingue e le culture facendo notare, inoltre, la “persistente tentazione all’individualismo, come la strada apparentemente più facile e ragionevole, in particolare quando ci sono urgenti progetti o impegni – la tentazione, cioè, di rinunciare la comunità o ridurla”[77].

Il XV Capitolo Generale iniziò il 1° settembre 1997 nella casa generalizia di Roma. I delegati al Capitolo erano 66. Tra i gruppi maggioritari: gli Italiani erano il 50%, i Portoghesi il 13% e gli Spagnoli il 10,6%. Anche il sessennio appena trascorso aveva registrato la morte violenta di un missionario comboniano: Fr. Alfredo Fiorini, ucciso in Mozambico nell’agosto del 1992, pochi mesi prima che gli accordi di pace in Mozambico diventassero operativi.

6.2 Natura e Fini dell’evangelizzazione

La tematica del Capitolo è incentrata sulla missione[78] un termine complesso che si riferisce sia alle sfide che provengono dalla realtà, le varie ‘situazioni di Nigrizia’ (8) che interpellano l’Istituto, sia all’attività missionaria il cui protagonista è lo Spirito Santo, la priorità la proclamazione del Vangelo di Gesù Cristo e lo scopo l’ incontro con la persona vivente di Cristo[79]; il frutto di questo incontro è l’edificazione della Chiesa come Famiglia di Dio[80] (10,12,15), ossia la crescita di comunità cristiane vive, luoghi di comunione, di ascolto della Parola e di impegno per la trasformazione del mondo (17). Sotteso al tema della missione c’è la necessità – che, invero, continuamente si ripresenta alla Chiesa e all’Istituto quando i contesti socio-politici, il clima culturale e le situazioni cambiano – di ridefinire il concetto di missione. Ed è interessante che questa urgenza provenga dall’Europa dove stanno emergendo nuove sfide per la presenza missionaria[81], urgenza riconosciuta, poi, dal Capitolo come “bisogno di un nuovo stile di essere missionari” (119) .  Sarà probabilmente per questo motivo che l’animazione missionaria avrà una grande rilevanza sia come tema di un gruppo di riflessione specifico nel Capitolo sia nel documento finale. Ma è anche per la costatazione di un certo pessimismo, di una certa rassegnazione e impotenza di fronte alle sfide dell’evangelizzazione per cui alcuni “sembrano andare avanti a forza di inerzia, altri sono perfino tentati dall’abbandono” (9), che è necessario ritrovare il senso della missione e far rivivere la vocazione missionaria.

Nello sforzo di ridefinire il concetto di missione, il titolo di ogni capitolo degli AC è introdotto dalle parole ‘missione è’ a cui fanno seguito le specificazioni: inculturazione, collaborazione, animazione missionaria ecc. Con questo si vogliono affermare due nessi importanti: che la missione è un’attività composita a cui fanno parte integrante diverse dimensioni (inculturazione e dialogo, collaborazione, giustizia e pace); ma si ribadisce pure che è a partire dalla missione che tutte le altre dimensioni della vita dell’Istituto sono valutate: dalla formazione all’attenzione alla persona, dal servizio dell’autorità all’organizzazione dell’Istituto e l’economia[82].(31).

6.3 Ambiti e orizzonti

L’Africa e i popoli non ancora evangelizzati rappresentano tuttora una priorità, ma in questo contesto si considerano altri areopaghi, già menzionati nei Capitolo precedenti, come le periferie delle metropoli, i giovani, i rifugiati, le emergenze, il mondo della comunicazione, la formazione dei leaders e l’Islam, una delle grandi sfide dell’attività missionaria, la cui importanza e influenza richiede una scelta preferenziale per i Paesi a “forte pressione islamica” (7, 60, 69). Ma se l’impegno per l’Africa è sempre presente nell’Istituto si considerano altre sfide, altre ‘situazioni di Nigrizia’ presenti in altri Continenti, come gli afroamericani, gli indios, gli abitanti delle grandi periferie della città nel continente americano; i popoli non ancora evangelizzati in Asia e gli immigrati in Europa e Nordamerica (8, 58).

6.4 Le vie dell’evangelizzazione

Motivati dal nuovo clima culturale – la globalizzazione, i conflitti etnici, l’invadente economia neo-liberale, l’imporsi di una cultura di massa ma anche la nascita di una nuova coscienza aperta alla mondialità e all’interculturalità (33-35) – e dagli stimoli che provengono dall’enciclica Redemptoris Missio e dal documento Dialogo e Annuncio gli AC si aprono con la presentazione di due attitudini urgenti per il missionario: l’inculturazione e il dialogo. È la prima volta che in un Capitolo Generale queste due esigenze hanno una trattazione così articolata e prioritaria. La prima esigenza, l’inculturazione – che dalla Redemptoris Missio è dichiarata “particolarmente acuta e urgente”[83] – è un processo a due direzioni: è la novità del Vangelo che penetra e positivamente influenza una cultura, ma è anche l’apporto costruttivo di un popolo che rinnova e crea nuove espressioni di vita ecclesiale (45). Riconoscendo onestamente che “alcuni fattori hanno affievolito la nostra attenzione alle culture” (38)[84], gli AC sottolineano come sia la Chiesa locale il primo soggetto di inculturazione (45-47) – e con questa affermazione il Capitolo, oltre a dare alla Chiesa locale la dovuta responsabilità, vuole ovviare a due tarli dell’attività missionaria presenti anche nel processo di inculturazione: il protagonismo e il paternalismo (47). L’inculturazione del carisma è una delle esigenze dell’Istituto, nel contesto della nuova “geografia umana comboniana” (22) cioè di confratelli provenienti dal Sud del mondo; ciò investe ambiti come la formazione, le strutture, lo stile di vita comunitaria e missionaria e si esplicita attraverso l’interculturalità e l’internazionalità, cioè il riconoscimento e l’accoglienza di valori quali l’ospitalità, il legame con la famiglia, l’affettività, l’uso dei beni, la preghiera ecc. i quali, illuminati dal Vangelo, possono essere vissuti in modo differente e con i quali ognuno deve imparare a convivere (48-50).

Ma in un mondo “sempre più marcato dal pluralismo culturale e religioso” (53) il dialogo ecumenico e interreligioso è un’esigenza impellente, riconoscendo, molto sinceramente, che sono ancora “pochi i comboniani che assumono atteggiamenti ecumenici, che approfondiscono lo studio o dedicano la loro attività al dialogo interreligioso” (54). Un banco di prova di questo dialogo è l’Islam, più volte indicato nei Capitoli Generali come prioritario per l’Istituto, ma soprattutto urgente perché è “una delle grandi sfide che dobbiamo affrontare nell’attività missionaria” (60).  Diverse sono le modalità di presenza in ambiente islamico: testimonianza di vita, dialogo interreligioso, annuncio diretto del vangelo “dove possibile”, ma anche opere di promozione umana come la scuola, opere sociali e iniziative di promozione della donna.  (60-70).

Gli AC sottolineano altri atteggiamenti/vie dell’evangelizzazione. Un atteggiamento più volte sottolineato è la collaborazione richiesta sia dalle esigenze della missione e del momento storico, sia come testimonianza della presenza del Regno. Essa deve essere fatta a diversi livelli: con la Chiesa locale, le istituzioni missionarie e la famiglia comboniana (le Missionarie Comboniane, le Missionarie Secolari Comboniane e i Laici Missionari Comboniani) (71-81). Ma la missione è anche lotta per la giustizia e la liberazione integrale; questo non è un impegno ingenuo e acritico ma si basa sull’analisi delle cause del sistema di oppressione e si esplicita in tre atteggiamenti di fondo: annuncio e denuncia profetica, formazione delle coscienze e collaborazione a tutto campo con la gente del posto e altre associazioni e organismi internazionali (107-118).

6.5 I responsabili

La collaborazione, come si diceva poc’anzi, così come l’apertura alla pluralità di apporti differenti, è la necessaria modalità dell’attività missionaria; una collaborazione richiesta dalle esigenze della missione e del momento storico, una collaborazione che diventa testimonianza della presenza del Regno (71, 7). Per contro, la pluralità spaventa per cui si fanno notare atteggiamenti di chiusura e ripiegamento su se stessi (73). Se l’individualismo e la frammentazione che sembrano marcare il mondo moderno non trovano posto nel compito missionario, parimenti il paternalismo che considera il povero come ‘oggetto’ – pur privilegiato – della nostra attività non è più giustificabile perché ormai i poveri “da oggetto diventano soggetto di storia” (19).

Il Capitolo riafferma l’importanza dei vari agenti della missione menzionati nei Capitoli precedenti, a cominciare dalla Chiesa locale e dalla comunità apostolica. La novità di questo Capitolo è data dal riconoscimento pieno dei Laici Missionari Comboniani (LMC). Una realtà, lo ricordiamo, che prima di essere codificata è stata vissuta da alcune Provincie dell’Istituto. I LMC, affermano gli AC, si distinguono per tre caratteristiche importanti: la laicità, cioè il lavoro nelle realtà secolari per trasformarle dal di dentro; la missionarietà, quindi la disponibilità a lasciare il proprio Paese e cultura; e, infine, la combonianità, la conoscenza del fondatore e l’identificazione con il suo carisma e la sua spiritualità (87-94).

Ma la realtà e le sfide della missione hanno messo in rilievo alcuni fenomeni preoccupanti: “confratelli provati dallo stress, dai rischi e dai pericoli in missione; confratelli demotivati, disadattati, chiusi in un pericoloso immobilismo o incapaci di accogliere l’età che avanza; giovani missionari che dopo pochi anni di consacrazione perdono l’entusiasmo per la missione, incapaci di resistere alla solitudine e alle difficoltà, ecc.” (123). Ecco, quindi, la necessità del “cammino formativo” considerato nel suo insieme, reso ancor più indispensabile dalla nuova fisionomia dell’Istituto, dalla necessità di un nuovo stile di missione, dall’influsso che la società moderna esercita sulle persone e la comunità e dal rischio sempre presente dell’attivismo e di una mentalità efficientista (119-120 122). Il missionario del futuro, sottolineano gli AC, deve essere centrato sui valori e radicato in una forte identità comboniana, sensibile alla dimensione comunitaria e all’internazionalità (119).  La missione, quindi, non può esistere senza un’attenzione dell’Istituto alla persona concreta, come la persona del comboniano “deve essere in continuo processo di rinnovamento e di crescita” (122) per affrontare le provocazioni del nuovo che avanza. Persona/missione è un binomio inscindibile e la comunità è l’ambito privilegiato di formazione permanente per “acculturare” la persona alla missione e svilupparne la dimensione comunitaria (125.1-2).

6.6 Dimensioni spirituali

Ripartire dalla missione significa guardare la realtà con gli occhi dei poveri adottando uno stile di vita più evangelico e consono alla realtà della Chiesa locale e della gente; implica farsi interpellare dai segni dei tempi e mettere in questione il proprio stile di vita; significa, in poche parole, costruire comunità centrate sulla missione e non sulle strutture (19-23). Ecco, quindi, che al protagonismo deve subentrare la capacità di fermarsi e discernere la realtà con gli occhi della fede (24); all’attivismo inconcludente e al paternalismo, l’atteggiamento di chi cammina con la gente e fa ‘causa comune’ con le popolazione “in situazioni drammatiche, di sofferenza e di grave rischio”  (25-26); all’individualismo, essere segni di comunione (27-29).

Quindi, discernimento, solidarietà e comunione sono gli atteggiamenti spirituali che caratterizzano il missionario oggi. Ma la missione, molte volte vissuta in situazioni di miseria, violenza e debolezza, nonché la coscienza dei propri limiti e quelli della propria cultura, mettono il missionario comboniano di fronte alla fragilità e all’impotenza. Sono proprio queste situazioni che richiedono al missionario un cambio di prospettiva, una conversione che lo rende capace di leggere queste circostanze non come prove di fallimento ma, paradossalmente, come segni di forza e di vicinanza del Signore (42). È attraverso questo profondo cambiamento spirituale che il comboniano può rinunciare al potere, farsi piccolo, essere la manifestazione della presenza di Dio e riconoscerne le tracce nella storia e nella cultura dei popoli (42). Dimensioni spirituali che sono semplicemente la riedizione dei tre elementi di metodologia comboniana espressi dal Capitolo precedente: salvare l’Africa con l’Africa, fare causa comune con la gente ed evangelizzare come comunità.

6.7 Conclusione

Avere posto la missione al centro della vita dell’Istituto sia come appello ad un nuovo stile di essere missionari sia come principio che valuta le altre dimensioni della sua vita, è una delle novità del Capitolo. Inoltre, l’aver sottolineato l’attenzione alla persona del missionario considerato nella sua realtà concreta (con le sue difficoltà, problemi, fragilità, esigenze spirituali e psicologiche) e la necessità di un cammino formativo (di base e permanente) pensato come un continuum per la sua crescita umana, psicologica e spirituale, è, parimenti, un fatto nuovo nella panoramica dei Capitoli precedenti.

Da sottolineare anche il pieno riconoscimento dei Laici Missionari Comboniani ormai considerati parte della famiglia comboniana in quanto “nascono anch’essi come vocazione missionaria specifica dal carisma del Comboni”[85].

È da notare infine – più come curiosità che come tema attinente al presente studio – che in questo Capitolo si comincia a trattare il problema della decentralizzazione del governo dell’Istituto esaminata secondo i principi della sussidiarietà e della corresponsabilità, attraverso il rafforzamento delle sue strutture continentali[86]. Un tema che sarà al centro del dibattito negli anni successivi e avrà varie proposte di soluzione – con contorni polemici – e progetti parziali ma senza (ancora) una soddisfacente risoluzione.



Membri della Famiglia Comboniana,
durante un incontro europeo:
Missionarie Comboniane,
Missionari Comboniani,
Secolari Comboniane,
e Laici Missionari Comboniani.

 

7. Il Capitolo del 2003

7.1 Il contesto 1998-2003

Dare anche solo un breve sommario dei fatti rilevanti di questi anni è un’impresa titanica. Mi limiterò, quindi, ad alcuni eventi salienti, descritti in modo telegrafico, che possono avere relazione diretta o indiretta con le missioni comboniane.
Il panorama socio-politico africano è segnato da luci ed ombre. Le ambasciate degli Stati Uniti a Nairobi (Kenya) e Dar es Salaam (Tanzania) subiscono un attentato ad opera di estremisti legati all’organizzazione terroristica islamica al-Qaeda nell’agosto del 1998: il terrorismo dei gruppi jihadisti entra in scena nel panorama africano. Il gruppo di al-Qaeda, fondato da Osama Bin Laden, avrà il momento di massima notorietà quando alcuni terroristi dirotteranno quattro aerei di linea, tre dei quali si schianteranno contro il Pentagono a Washington e le Torri Gemelle di New York: la data dell’11 settembre 2001 rimarrà una data storica per gli Stati Uniti che subiranno il primo attacco in terra americana. A seguito di questo atto di terrorismo, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna lanceranno, nell’ottobre dello stesso anno, l’operazione ‘Enduring Freedom’ per rovesciare il governo Talebano in Afghanistan; nel marzo del 2003 una coalizione di Stati, guidati dagli Stati Uniti, invaderà l’Iraq, con il pretesto di trovare armi di distruzione di massa, destituendone il presidente, Saddam Hussein.

Nel 1998 inizia la seconda guerra nella Repubblica Democratica del Congo: gli eserciti del Rwanda e dell’Uganda invadono il territorio congolese con l’intenzione di spodestare il presidente Laurent D. Kabila; alcuni stati confinanti come l’Angola, la Namibia e lo Zimbabwe vengono in aiuto a Kabila e riescono a fermare l’avanzata degli eserciti invasori; la guerra si concluderà cinque anni dopo con gli accordi di Pretoria (Sudafrica) firmati dal nuovo presidente della R.D. del Congo, Joseph Kabila, succeduto al padre assassinato nel 2001. In Africa ci sono altri epicentri di instabilità: la guerra di confine tra Etiopia ed Eritrea, iniziata nel 1998, si concluderà nel 2000 con cambiamenti di frontiera insignificanti; la guerra civile in Ciad tra il 1998 e il 2002; conflitti di matrice religiosa in Nigeria: nel 2001, nella città di Jos, oltre 500 persone restano uccise in cinque giorni di scontri tra cristiani e musulmani. Ma l’Africa può anche celebrare dei successi: le prime vere elezioni democratiche in Kenya, nel 2002, che danno la vittoria a M. Kibaki, del partito NARC, sul suo antagonista, il presidente uscente D. A. Moi e la fine della guerra civile in Sierra Leone, nello stesso anno. In Angola, dopo la morte di Savimbi nel 2002, l’UNITA si dichiara ufficialmente un partito politico e smobilita il suo braccio armato, segnando la fine della guerra civile che aveva insanguinato il paese dopo l’indipendenza dal Portogallo nel 1975. Nel 2001 nasce l’Unione Africana in sostituzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA).

Da ricordare, ancora, la creazione della Corte Penale Internazionale nel luglio del 1998 a Roma: questa istituzione, nata dall’accordo di 121 stati, ha lo scopo di processare individui responsabili di crimini di guerra, genocidio, crimini contro l’umanità e il crimine di aggressione. Le decisioni e gli atti di accusa della Corte avranno di mira diversi ex capi di stato africani negli anni successivi: molti africani accuseranno la Corte di parzialità nella scelta degli imputati.

Diversi sono gli scritti di Giovanni Paolo II in questo periodo. Alcuni tra i più importanti: le encicliche Fides et Ratio (1998) e Ecclesia de Eucharistia (2003), l’esortazione Apostolica Ecclesia in America (1999) a seguito dell’assemblea speciale per l’America nel 1997 e la lettera apostolica Novo Millennio Ineunte (2001): scritta in occasione del Giubileo dell’anno 2000 il pontefice vi delinea le priorità della Chiesa cattolica per il terzo millennio. Oltre agli scritti del papa, altri rilevanti avvenimenti esprimono la vivacità della Chiesa cattolica nel mondo. Nel 1999 si celebra in Argentina il primo Congresso Missionario Americano – CAM 1 – (Sesto Congresso Missionario Latinoamericano – COMLA VI). Il Congresso Missionario Americano era stato voluto da papa Giovanni Paolo II perché si includessero gli episcopati del Canada e degli Stati Uniti nel COMLA: il Congresso Missionario Latinoamericano si trasforma così in Congresso Missionario Americano. In questo convegno si ribadisce l’urgenza di un’evangelizzazione inculturata, la promozione dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso. Il secondo Congresso Missionario Americano (settimo Congresso Missionario Latinoamericano) ha luogo in Guatemala nel 2002 sul tema ‘La Chiesa in America. La tua vita è missione’; l’obiettivo è di animare le Chiese particolari del continente perché si assumano la responsabilità della missione Ad Gentes. Nel continente africano, degna di nota è la XII Assemblea generale delle Conferenze episcopali dell’Africa e del Madagascar (SECAM), nell’ottobre del 2003: i vescovi, in visita all’isola di Gorée in Senegal, durante l’assemblea, chiedono perdono per la tratta degli schiavi: “questo crimine contro l’umanità – dichiarano i vescovi – non sarebbe durato cinque secoli se non vi fosse stato il silenzio troppo lungo della nostra Chiesa”[87]; parole che fanno eco a quelle del papa in una solenne celebrazione in Vaticano nel 2000: il pontefice aveva chiesto perdono per i peccati commessi in ogni epoca dai cattolici che violarono “i diritti di gruppi etnici e intere popolazioni, e dimostrarono disprezzo per le loro culture e tradizioni religiose”[88]. Sembra un paradosso che dopo questa invocazione di perdono si aprisse una stagione di tormento per la Chiesa cattolica: nel 2002 scoppia lo scandalo degli abusi sessuali sui minori da parte di sacerdoti cattolici e membri di congregazioni religiose negli Stati Uniti; lo scandalo si allargherà poi ad altre parti del mondo, in particolare in Europa[89].

L’Istituto comboniano, allo scadere del XX secolo, sembra sostanzialmente stabile nel numero, come ebbe a sottolineare il Superiore Generale nella sua relazione all’Assemblea Intercapitolare del 2000 ma, aggiungeva il Generale, era anche vero che la fascia d’età più numerosa era quella compresa tra i 60 e i 70 anni, il che indicava un progressivo invecchiamento dell’Istituto che avrebbe avuto un impatto negli anni a venire[90]. La relazione del Consiglio Generale al XV Capitolo Generale però, ammetteva il fenomeno delle crisi e degli abbandoni e il Consiglio confessava che non si era “riusciti a fermare una constante e silenziosa emorragia che ci ha accompagnato negli ultimi tempi come pure nei sei anni del nostro mandato”[91]; deplorava anche alcuni aspetti negativi circa il modo di fare missione, tra i quali “l’immobilismo del metodo” […] “in contrasto con le note di itineranza e provvisorietà che dovrebbero caratterizzare il metodo missionario” e la diminuzione del senso di appartenenza che si manifestava in un individualismo esasperato dove “le persone seguono i loro progetti e hanno difficoltà nell’identificarsi con il progetto dell’Istituto o delle Province/Delegazioni”[92].

La relazione del CG metteva il dito su alcune piaghe di un Istituto che si stava evolvendo, soprattutto diversificandosi nella sua geografia vocazionale e nella coscienza delle diversità locali[93]: quest’ultimo aspetto implicava che ogni continente e realtà locale, inserita in un contesto specifico, elaborasse priorità e modalità di lavoro proprie nel campo della pastorale tanto che da molte parti si pensava che un organo centrale come il segretariato dell’evangelizzazione fosse ormai obsoleto. Il contestato questionario del 1998, inviato ai segretariati provinciali dell’evangelizzazione – che, nelle intenzioni dichiarate, voleva aiutare le Provincie e Delegazioni a riflettere e rivedere i loro programmi di evangelizzazione – e le successive assemblee continentali in Europa (Pesaro), America (Quito, Ecuador) e Africa (Sagana, Kenya) erano in realtà, secondo l’allora segretario generale P. Manuel Alves Pinheiro de Carvalho, un modo per allacciare i ponti con le Provincie, capire quello che si stava facendo e come il segretariato generale avrebbe potuto essere d’aiuto.

Pertanto l’Istituto, alle soglie del terzo millennio, si percepiva in un momento di transizione, il che obbligava a dei cambiamenti. Infatti, le modalità di coordinamento nell’Istituto e la continentalità furono alcune delle tematiche dell’assemblea intercapitolare introdotte dalla relazione della Commissione Costituzionale creata dopo il Capitolo Generale del 1997. Il tema della continentalità diventerà uno degli argomenti rilevanti nelle discussioni e decisioni del Capitolo Generale del 2003. Un altro argomento discusso al Capitolo, e che occuperà le provincie nei sei anni successivi, sarà il progetto di una Ratio Missionis per tutto l’Istituto. Tematiche che, in fin dei conti, proponevano la dialettica tra unità e diversità cercando di trovarne l’equilibrio. Ma appunto perché l’Istituto stava transitando verso il nuovo millennio sollecitato da enormi sfide, il Capitolo deciderà che la Formazione Permanente sarebbe stata la priorità per il prossimo sessennio.

La missione dei Comboniani nel terzo millennio’ fu il tema scelto per il Capitolo Generale del 2003. La preparazione al Capitolo, in cui collaborarono confratelli dalle diverse provincie dell’Istituto, si condensò nei Lineamenta e, poi, nell’Instrumentum Laboris che servì, appunto, da strumento di lavoro nelle sessioni capitolari[94].

Il XVI Capitolo Generale fu inaugurato a Roma il 1° settembre 2003. Pochi giorni prima dell’apertura del Capitolo due comboniani furono uccisi in Uganda: P. Mario Mantovani e Fr. Godfrey Kiryowa: “testimonianza di grazia evangelica” qualifica questo martirio la lettera di presentazione degli Atti Capitolari del nuovo Consiglio Generale[95]. Nel 2000 un altro missionario comboniano era stato assassinato, sempre in Uganda: P. Raffaele Di Bari.

Fu, quindi, in un contesto di martirio e nella ricerca di nuove forme istituzionali per meglio servire la missione che avvenne la canonizzazione di Daniele Comboni quasi a testimoniare che, come in Comboni, missione e martirio sono due dimensioni che “spesso marciano unite” quando si fa “causa comune” con i fratelli più poveri[96]. “La canonizzazione di S. Daniele Comboni – sottolinea P. Tarcisio Agostoni nel suo libro sulla storia dell’Istituto comboniano – è l’evento più importante di questo periodo […]. La cerimonia ufficiale fu fatta durante il Capitolo Generale del 2003 dopo l’elezione del nuovo Consiglio Generale (2003-2009), però il Consiglio Generale precedente (1997-2003) aveva gestito tutta la preparazione”[97].

I confratelli presenti al Capitolo furono 70 di cui solo il 45% era italiano. L’Istituto stava sempre più assumendo un volto internazionale per cui l’interculturalità e la ricerca dell’inculturazione del carisma diventavano problematiche centrali nell’identità comboniana[98].

7.2 Natura, fini e ambiti dell’evangelizzazione

Il Capitolo non apporta sostanzialmente nulla di nuovo su questo tema. Riafferma il fondamento trinitario della missione (74.4) e la vocazione dell’Istituto per la prima evangelizzazione che è “portare la Parola nel cuore della vita delle persone, delle società, delle culture e tradizioni religiose” allo scopo di favorire l’incontro con Cristo e dare la possibilità di “incorporarsi” nella Chiesa, segno privilegiato del Regno (40.1). L’evangelizzazione è, quindi, intesa come portare la Parola e promozione umana il cui scopo è raggiungere la pienezza della dignità e la liberazione integrale (40.1). Affermazioni molto generali, poco impegnative e nette cui ognuno avrebbe potuto dare una propria interpretazione e un proprio contenuto.

Sarà questo, infatti, uno dei problemi del Capitolo. Consapevoli che il “contesto della realtà globale, ecclesiale e comboniana” sia una sfida che impegna a rivedere la visione di missione (30, 30.1), ci si accorge, al medesimo tempo, che definire “cosa si intenda per missione comboniana oggi”[99] sia un compito oltremodo arduo. Nei giorni precedenti, oltretutto, si era sentita la necessità di proporre una mozione che chiedeva di redigere una Ratio Missionis dell’Istituto[100] la cui bozza sarebbe stata presentata all’intercapitolare. Questa mozione sarebbe stata ripresa con la medesima formulazione negli stessi Atti Capitolari (49). La proposta di una Ratio Missionis e la difficoltà di dare una formulazione su cosa fosse ‘la missione comboniana oggi’, denotava l’esigenza di chiarezza in un mondo in evoluzione in cui la missione stessa stava cambiando[101].

Non solo. Si aveva l’impressione che i campi di lavoro si fossero così diversificati e moltiplicati rispetto agli scarsi mezzi dell’Istituto da esigere “un profondo discernimento per sapere come investire le nostre limitate risorse nel prossimo futuro”. Il Capitolo, riprendendo le parole dell’Esortazione apostolica Vita Consecrata, sottolineava che “È giunto il tempo di fare scelte coraggiose coerenti sia col carisma che con le esigenze della situazione storica concreta e tradotte in nuovi progetti di evangelizzazione” (28.1).

Ribadendo l’opzione per i poveri e gli emarginati (12, 35, 38) e il legame “carismatico e storico” con l’Africa (37), i comboniani si sentivano interpellati da diverse sfide che emergevano nei vari continenti (43) proponendo alcuni criteri di scelta quali le urgenze dell’evangelizzazione, le situazioni di estrema povertà sociale, in particolare le città, la realtà della Chiesa locale ancora agli inizi e il necessario equilibrio tra le diverse aree del nostro carisma comboniano come l’animazione missionaria e la formazione di base (44.1-4); ma di fronte all’enormità delle sfide era necessario “darci chiare priorità, secondo le nostre reali possibilità” (44) perché “lo squilibrio tra impegni assunti e personale disponibile” (22) era preoccupante. Il problema non era nuovo ma si avvertiva con più urgenza.

Il nodo della questione si configurava, quindi, in questi termini: da una parte la difficoltà di definire la ‘missione comboniana oggi’, dall’altra l’esigenza di discernere i campi di lavoro per non disperdere le forze già esigue di un Istituto che veniva provocato da diverse sfide la cui complessità e numero erano decisamente superiori alle sue forze. Sullo sfondo l’idea (o l’illusione?) che, una volta che si fosse trovata la formula della ‘missione comboniana oggi’, essa sarebbe diventata la cartina al tornasole per la scelta dei campi di lavoro.

7.3 Le vie dell’evangelizzazione

Le sfide – ossia la pluralità dei campi di lavoro, le culture, i contesti religiosi e le situazioni in costante cambiamento – obbligano a rinnovare la ‘metodologia comboniana’ (97, cfr. anche 30.4). Quale essa sia, però, resta nelle nebbie dell’indefinito. Il Capitolo, infatti, la suppone ma non ne dà una chiara formulazione[102].

Le modalità dell’attività missionaria seguono le indicazioni dei Capitoli Generali precedenti, quindi: servizio e collaborazione con la Chiesa locale e le altre forze presenti sul territorio (26.5, 42.3, 120), la formazione di leader (42.4), il dialogo interreligioso – in questa prospettiva si auspica la creazione di un gruppo di riflessione sull’Islam (45) – e l’inculturazione del Vangelo (42.1, 111,114), la realizzazione di progetti di evangelizzazione in grado di essere portati avanti dalla gente (108). Il Capitolo ribadisce anche l’importanza delle scuole là dove la Chiesa è in minoranza (116), la denuncia profetica e l’importanza della Giustizia, Pace e Integrità del Creato “come parte costitutiva dell’azione missionaria” (42,6 cfr. anche 46) a cui si aggiungono attività di lobbying e networking a favore degli emarginati promuovendone i diritti fondamentali (29). Riformulando le proposte dei Capitoli del 1985 e del 1991, si riafferma l’importanza di comunità “che cercano vie nuove di evangelizzazione, contemplazione e inserimento nell’ambiente”(96).

Niente di assolutamente nuovo, quindi, nelle modalità di evangelizzazione sopra menzionate, le quali sono semplici riedizioni di ciò che era già stato affermato negli anni precedenti. E come sempre nei Capitoli, queste dichiarazioni di principio avranno bisogno di essere contestualizzate in proposte praticabili a livello locale.

Ciò che a me sembra una novità è, invece, la definizione più precisa di provvisorietà, intesa, negli Atti Capitolari, come “frutto di una programmazione con obiettivi concreti, tempi e mete precise” (117). È una formulazione che si arricchisce di nuovi elementi rispetto a quella trattata nei Capitoli precedenti o anche nella Regola di Vita. La provvisorietà esplicitata dal Capitolo entra nell’ambito della pianificazione ed è programmata, per così dire, agli inizi del servizio offerto ad una Chiesa locale cosicché il ‘quando’ una Chiesa locale possa essere giudicata in grado di autogestirsi non sia semplicemente lasciato a considerazioni il più delle volte soggettive.  In sottofondo, la tematica di dare regole più precise sulla scelta e la continuazione degli impegni pastorali. Quanto, poi, questo punto sia stato o sia onorato nelle programmazioni provinciali è tutto da vedere.

7.4 I responsabili

Collaborazione, interculturalità, internazionalità, ministerialità e, poi, sussidiarietà, corresponsabilità e partecipazione sono le caratteristiche che qualificano il soggetto principale della missione che è la comunità nelle sue varie espressioni: la comunità comboniana, la comunità apostolica nella varietà dei suoi ministeri (fratelli, presbiteri, laici missionari comboniani e suore) e i diversi soggetti che sono parte della Chiesa locale (clero, gli istituti religiosi, i laici, gli organismi e movimenti).

Innovativi non sono i principi ma due decisioni contenute nella sezione riservata agli ‘elementi di programmazione’[103]: una è la creazione di équipe di fratelli “impegnati in progetti di promozione umana” (50)[104] – in linea con il ministero dei fratelli che è orientato al sociale, alla trasformazione della società e all’animazione della comunità cristiana (99.1)[105]. L’altra decisione asseconda la proposta del comitato centrale dei Laici Missionari Comboniani di realizzare due progetti pilota, uno in Africa e l’altro in America[106].

7.5 Dimensioni spirituali

Se la comunità, com’è già stato sottolineato, è il soggetto principale della missione – e per diversi motivi: in quanto “la chiamata alla missione è, sì, una chiamata individuale, ma vissuta ed espressa come comunità” (83), perché essa è segno di “quel villaggio globale che si vuole costruire” (82) e, infine, perché la vita comune è “già di per sé proclamazione e una traduzione del Vangelo” (84) – la comunità, appunto, ne è anche l’oggetto in quanto “la gente è dono di Dio, fonte di conversione e stimolo per una vita più evangelica” (87). La comunità è il “luogo dell’esperienza di Dio e dell’incontro con l’altro” (55).

Il Capitolo sottolinea altri atteggiamenti personali, fondamento dell’identità comboniana, quali la santità, riconoscere la consacrazione missionaria come dono di Dio, la conversione che si manifesta in nuovi stili di vita, lo stare con i poveri imparando a leggere la Parola di Dio con loro, l’atteggiamento contemplativo che scopre la presenza di Cristo negli avvenimenti e lo sforzo di incarnarsi nella realtà camminando assieme alla gente (54-55). Atteggiamenti, questi, che non alimentano una spiritualità di stampo individualistico ma, al contrario, sono necessari per una testimonianza credibile e sostengono la passione missionaria. La spiritualità che alimenta l’identità comboniana è essenzialmente missionaria (98).

7.6 Conclusione

La grande questione irrisolta in questo Capitolo è stata quella di definire cosa fosse la missione comboniana oggi, una questione stimolata non solamente dal cambio di paradigma missionario ma anche (e, forse, soprattutto) perché si volevano trovare dei criteri risolutivi di lavoro missionario. In sostanza la domanda era: “in che cosa consiste il proprium della “missione comboniana oggi” che faciliterebbe la scelta dei campi di lavoro in un mondo le cui sfide sembrano moltiplicarsi?”. Si sentiva l’esigenza di darsi linee più precise per l’assunzione degli impegni nelle Chiese locali o la loro consegna.

Il problema non era di teoria. Dopotutto i Capitoli e varie assemblee, nonché la Regola di Vita, avevano dato sufficienti criteri di scelta. Naturalmente c’erano spazi per una riflessione più approfondita, ma non poteva essere questa una scusa per non fare delle scelte decisive; la questione, in altre parole, non era di affinare i concetti ma di saper prendere delle decisioni.

Proprio perché l’ambito dei criteri per una pianificazione degli impegni è prioritario in questo Capitolo, la parola provvisorietà assume delle precise caratteristiche legate non solo a dimensioni spirituali o all’identità del lavoro missionario, che è temporaneo per definizione, ma ad una programmazione che ha obbiettivi e mete definiti nonché tempi determinati.

Un termine che era stato accennato nel Capitolo precedente ma che viene ulteriormente elaborato in questo è la parola ‘interculturalità’[107] come processo positivo di incontro e mutuo arricchimento tra le culture in un mondo marcato dalla globalizzazione e, quindi, dal rischio dell’omogeneizzazione culturale. L’interculturalità qualifica la comunità comboniana ponendola come segno di un mondo che sempre più si vuole costruire come villaggio globale. Però il Capitolo non spiega che cosa l’interculturalità implichi per la pratica missionaria.

 

Fr. Artur Fernandes Pinto,
missionario comboniano,
in Sudafrica.

 

8. Il Capitolo del 2009

8.1 Il contesto 2004-2009

Le guerre in Afghanistan e Iraq, innescate dall’attacco al Pentagono e alle Torri Gemelle e giustificate dalla lotta al terrorismo, non sono state sufficienti a debellarlo o a ridurne le basi logicistiche, al contrario, gli atti terroristici sembrano intensificarsi con gli attentati alla metropolitana di Madrid (2004) e di Londra (2005). La recrudescenza del terrorismo di matrice jihadista in varie parti del globo sarà uno dei fattori che caratterizzerà questo periodo. Ma non è solo il terrorismo a influenzare negativamente la vita di milioni di cittadini e le politiche dei governi. Nel 2007 esplode una crisi economica globale – di origine finanziaria e innescata dalla crisi dei mutui subprime, creatasi negli Stati Uniti – con pesanti recessioni e vertiginosi crolli di PIL in numerosi paesi del mondo e in special modo nel mondo occidentale[108].

Dopo più di venti anni di guerra tra il nord Sudan, prevalentemente musulmano e arabo, e il sud, cristiano o di religioni tradizionali, viene firmato l’accordo di pace globale (Comprehensive Peace Agreement) nel 2005: i protagonisti dello storico evento sono i rappresentanti del Sudan People’s Liberation Army e del governo di Khartoum; l’accordo prevede libere elezioni politiche nel 2009 – di fatto, poi, indette un anno dopo; qualche mese dopo l’accordo di pace l’elicottero su cui viaggia il leader dell’SPLA John Garang, nominato vice-presidente del Sudan, si schianta sulle montagne al confine tra Sudan e Uganda uccidendo tutti i passeggeri a bordo: un incidente misterioso al quale non si sono mai date spiegazioni convincenti; inoltre, il governo di Khartoum deve subire l’onta di vedere il presiedente Omar Hassan al-Bashir incriminato dalla Corte Penale Internazionale nel 2008: sarà il primo leader nazionale ad essere accusato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. In Congo la situazione politica continua ad essere instabile, nonostante l’elezione alla presidenza di Joseph Kabila nel 2006: nell’autunno del 2008 riesplodono gli scontri tra l’esercito regolare (FARDC) e le milizie del CNDP (Congrès National pour la Défense du Peuple) del generale Laurent Nkunda (tutsi filo-ruandese), scontri che provocano oltre 250.000 sfollati nel Nord Kivu[109]. Instabilità si registrano in Uganda, con i massacri perpetrati dal movimento anti-governativo Lord’s Resistance Army, in Ciad, nella Repubblica Centrafricana, in Nigeria, dove riesplode il conflitto tra cristiani e musulmani, indotto anche da ragioni politiche ed economiche, e in Etiopia dove, nel 2007, la rielezione di Meles Zenawi provoca contestazioni e scontri tra manifestanti e polizia. Le elezioni del 2007 in Kenya, che danno la vittoria a Mwai Kibaki, sono aspramente contestate dall’opposizione che accusa il partito del presidente di frode: i tumulti del dopo-elezioni provocano circa 1500 morti; nel 2008 Mwai Kibaki e il leader dell’opposizione Raila Odinga si accordano per un governo di coalizione, sotto gli auspici dell’ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan[110].

Il primo decennio del XXI secolo vede l’emergere di nuove potenze economiche, con il loro conseguente maggior peso politico a livello mondiale: i cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) domineranno l’economia mondiale del prossimo mezzo secolo, secondo la banca di investimenti Goldman Sachs[111].

Giovanni Paolo II muore il 2 aprile del 2005 e gli succede il card. Joseph Ratzinger che prende il nome di Benedetto XVI. Al centro della riflessione del Papa teologo vi è la questione della pretesa autosufficienza della modernità, espressa dalla formula, che egli continuamente riprende, della “dittatura del relativismo”. Il progetto teologico e pastorale di Benedetto XVI comprende una trilogia di encicliche dedicate alle tre virtù teologali: fede, speranza e carità; ma il Papa inverte l’ordine scegliendo come punto di partenza la carità per arrivare, quindi, alla fede[112] (un’enciclica, quella dedicata alla fede, che porterà a termine il suo successore, dopo le dimissioni di Benedetto XVI). Tra il 2004 e il 2007 il Pontefice scrive le prime due: Deus caritas est (2005) e Spe salvi (2007) e, nel 2007, un’enciclica sociale, Caritas in veritate, che ha per tema lo sviluppo umano integrale che si deve costruire, secondo le parole del pontefice, nella verità e nella carità. Inoltre, da rilevare, l’esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis (2007), scritta dopo il Sinodo ordinario dei vescovi sull’Eucarestia, celebrato nel 2005. Il Sinodo su “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa” viene convocato dal 5 al 26 ottobre del 2008: ad esso seguirà l’esortazione apostolica Verbum Domini (2010).

Nel 2009 la Chiesa africana celebra a Roma, dal 4 al 25 ottobre, la seconda assemblea speciale; il tema dell’assemblea è quanto mai attuale in un continente di grandi potenzialità umane ed economiche ma tormentato da conflitti e stridenti disuguaglianze sociali: “La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. Il Capitolo Generale non potrà beneficiare dei risultati del Sinodo che chiuse le sue sedute qualche giorno dopo l’assise capitolare. L’Instrumentum Laboris dell’assemblea sinodale era stato ufficialmente consegnato da Benedetto XVI in occasione della solenne celebrazione a Yaoundé, capitale del Camerun, durante un viaggio apostolico che, nel marzo del 2009, lo aveva portato anche in Angola.

Dal 12 al 17 agosto del 2008 viene convocato a Quito (Ecuador)il 3° Congresso Missionario Americano (COMLA 8) dal titolo: “L’America con Cristo, ascolta, impara ed annuncia[113]; il congresso vorrebbe dare nuovo impulso all’evangelizzazione del continente che ha visto un’eccezionale crescita numerica delle chiese pentecostali a danno della Chiesa cattolica, nonché una preoccupante diminuzione nel numero di religiosi e sacerdoti.

Il malessere nell’Istituto, emerso nel Capitolo del 2003 – malessere, lo ricordiamo, che coinvolgeva l’identità della missione comboniana in un mondo in transizione oltre alla necessità di prendere decisioni sofferte – era particolarmente sentito e il cambiamento, nelle strutture di governo come nelle modalità di presenza missionaria, necessario. Il processo della Ratio Missionis avrebbe dovuto favorire, secondo le parole dell’allora segretario generale dell’evangelizzazione, P. Fernando Zolli, all’Assemblea Intercapitolare di Città del Messico nel 2006, “un processo di conversione e di messa a fuoco dei parametri missiologici, delle scelte di campo e della qualità della vita di comboniani”[114]. La prima fase del processo, quella del vedere, aveva coinvolto le Province e le Delegazioni dell’Istituto attraverso assemblee provinciali e continentali cui avevano partecipato la maggioranza dei confratelli.

In realtà il problema non era solo una questione di chiarezza concettuale e di esplicitazione dei criteri. Il problema, com’è già stato rilevato, riguardava il governo e l’autorità come anche una spiritualità fragile che minava le basi della vita missionaria. Lo sottolineava, ancora una volta, la lettera finale del CG dopo l’AI del Messico; in essa si denunciavano una crisi di leadership a tutti i livelli, un certo provincialismo cioè l’incapacità di sentire e pensare comune come Istituto e un’obbedienza diventata “virtù debole”; onestamente si rilevava che alcuni superiori “chiudevano gli occhi” di fronte a situazioni gravi ma anche come gli individualismi e i personalismi rendessero pesante il compito del superiore[115]. La relazione dello stesso Consiglio all’AI ribadiva la necessità della riqualificazione degli impegni e del personale richiamando un’esigenza che i Superiori Generali precedenti avevano continuamente evidenziato[116] – e ciò significa che, nonostante i reiterati richiami dei Capitoli e dei Superiori Generali, si era lungi da una reale riqualificazione e tutti gli appelli degli anni precedenti erano rimasti lettera morta. Le parole finali della lettera del CG riassumono il bisogno di un cambiamento di rotta: “Forse è arrivato il tempo di un Capitolo Generale Speciale con un’agenda dettata dalla situazione attuale della vita dell’Istituto e dalle sfide della missione. Un’agenda sentita e voluta, soprattutto, dalla base […] è venuto il tempo di rivedere la nostra Regola di Vita e il nostro sistema di governo […] il nostro sistema formativo […] è tempo di ridisegnare le nostre presenze e riprogrammare la vita dell’Istituto”[117]. Il tema del Capitolo, qualificato come ordinario e speciale, sarebbe stato “Dal Piano del Comboni al piano dei comboniani: riqualificare la missione, la formazione ed il governo[118].

Intanto l’elaborazione della RM stava facendo il suo corso – pur con alterne vicende non scevre da polemiche; si stava entrando, secondo la lettera del CG Con occhi vigilanti e cuore aperto (8 aprile 2007), nella tappa del discernimento in cui si sarebbero studiati tre ambiti: spiritualità, identità/carisma, missione/evangelizzazione; lo scopo di questa fase sarebbe stata quella di arrivare ad un “sentire comune nell’Istituto, rinnovare noi stessi per rinnovare il nostro concetto e la nostra prassi di missione, trovare criteri per ridisegnare le nostre presenze e scegliere i campi di lavoro secondo le nostre specificità” (n. 13)[119]. Nello stesso anno di pubblicazione della lettera, e dando seguito all’approvazione dell’Assemblea Intercapitolare, erano state date delle indicazioni concrete circa il servizio missionario dopo lo scolasticato ed era stato promulgato il Codice di Condotta

La nomina delle Commissioni Tematiche e della Commissione Preparatoria indicava che il Capitolo era ormai alle porte. La Commissione Preparatoria compilò i testi base (sulla Ratio Missionis[120], la Formazione e il Governo) che erano stati elaborati dalle Commissioni Tematiche, aiutandone la lettura con un’introduzione. Questi documenti sarebbero stati adottati come “strumenti di discernimento”[121] al Capitolo: ad essi si sarebbero aggiunte altre tematiche di discussione, poi confluite nel testo degli Atti Capitolari: sull’economia, la formazione permanente e, successivamente, l’animazione missionaria e i confratelli anziani e ammalati. La fase di preparazione immediata al Capitolo era stata organizzata attraverso assemblee provinciali e continentali, queste ultime formate dai Delegati Capitolari.

Il XVII Capitolo Generale ebbe inizio a Roma nella casa generalizia il 6 settembre del 2009. I delegati al Capitolo erano 72, di cui solo il 36,1% era italiano mentre il 37,5% proveniva da nazioni non europee. Decisamente, l’Istituto, come gli AC riconoscono, “sta cambiando volto, diventando una realtà multiculturale sempre più ricca e diversificata” (3.4).

Anche nel periodo precedente il Capitolo si era registrata la morte violenta di un missionario comboniano: P. Luciano Fulvi ucciso a Layibi (Uganda) il 30 marzo del 2004.

8.2 Natura e fini e ambiti dell’evangelizzazione[122]

Al Capitolo, il gruppo di lavoro che avrebbe dovuto studiare il documento sulla Ratio Missionis era stato diviso in tre sottogruppi secondo i criteri di divisione della Ratio: identità, spiritualità, missione [123]. Questi sottogruppi elaborarono ciascuno un proprio documento. Questi tre documenti furono inglobati negli Atti Capitolari divenendone i primi tre capitoli[124].

Il Capitolo riconosce che il significato di missione, nelle sua modalità di impegno, si è ampliato; la missione è vissuta come compassione di Dio verso un mondo diviso (56.3), proclamazione del Vangelo della riconciliazione e della liberazione (5.1) e si articola attraverso una pluralità di attività come la prima evangelizzazione, l’animazione missionaria, la formazione di nuovi missionari e di leader, la promozione umana, l’impegno per la riconciliazione e la GPIC, l’inculturazione, la presenza e solidarietà in difficili situazioni umane (56.3). L’origine fontale della missione è il Dio trinitario che, in Gesù, condivide la Sua vita con l’umanità (56.7).

Niente di assolutamente nuovo, quindi, in queste dichiarazioni che, con formulazioni diverse, riaffermano ciò che i Capitoli precedenti avevano detto.

La novità, anche se appena abbozzata, è rappresentata dagli ambiti della missione la quale, in un’epoca di globalizzazione, è chiamata a precisare il significato di quell’“andare ad gentes” che rappresentava l’orizzonte del suo impegno. La missione è vista in termini di missione globale (worldwide mission), dove il “mondo” stesso, e non un’area geografica specifica o un popolo[125], diventa ambito di missione (56.4). Detto in altri termini, non esiste un centro da cui partono i missionari e una periferia che li accoglie e in cui il Vangelo viene predicato: la missione si “de-territorializza” e l’areopago o la “situazione di frontiera” sono il “luogo” dove il Vangelo viene predicato. Un cambio di paradigma, questo, che non solo obbliga a ripensare la missione dei Comboniani ma anche a ricomprenderne il carisma[126].

Insistendo sull’opzione fondamentale per “popoli o gruppi più bisognosi a livello di fede e di condizioni di esistenza” (5.4a), gli AC sottolineano che i segni dei tempi indicano nei nuovi areopaghi (promozione dei diritti umani, periferie urbane, situazioni di emergenza) e nelle situazioni di frontiera (slums, nomadi, immigrati…) i nuovi settori di impegno missionario. Infatti, l’apertura di una presenza in situazioni di frontiera nelle varie circoscrizioni sarà una delle priorità per il prossimo sessennio (5.7, 70.1). Il Capitolo riafferma gli impegni per una missione contestualizzata nei vari Continenti (62) ribadendo ciò che i precedenti Capitoli avevano sottolineato.

Naturalmente, l’ampliamento dei confini della missione, intesa come missione globale, implicava che ora, più che in passato, si dovesse esercitare un ruolo di leadership e di decisione per identificare in che modo e in quali ambiti i Missionari Comboniani avrebbero potuto, con sano realismo, esprimere il loro carisma ma il problema era pregiudicato da due fattori. La frammentarietà e la mancanza di unitarietà della riflessione sulla missione, nella parte degli AC che la riguardava, indicava che la riflessione sulla missione globale non era ancora giunta a maturazione; piuttosto si aveva l’impressione che i vecchi schemi coesistessero con le nuove realtà le quali avrebbero avuto difficoltà ad esprimersi in impegni definiti e condivisi; oltretutto, sembrava proprio che il Capitolo, prigioniero di troppi “provincialismi” di cui molte volte ci si era lamentati, non avesse potuto o voluto esercitare l’autorità che era di sua competenza e fatto delle decisioni sofferte ma necessarie[127].

8.3 Le vie dell’evangelizzazione

L’apertura ai segni dei tempi, ai nuovi areopaghi, alle situazioni di frontiera e alla pluralità dei ministeri di cui le Opere Comboniane di Promozione Umana sono espressioni (5.7, 63.1, 70.1), è una necessità che evidenzia che la missione è una realtà in divenire che impegna ad un “discernimento permanente per cogliere le sollecitazioni dello Spirito” (5.7a) e obbliga alla riflessione “per meglio definirla e viverla in pienezza” (7.1). Discernimento e riflessione, dunque: vie necessarie per una missione che sta cambiando (56.1).

Fedeltà al contesto e alle sollecitazioni dello Spirito implicano anche il bisogno di attualizzare e rinnovare il carisma per essere fedeli alla “ragione di vita” del missionario comboniano, cioè l’evangelizzazione (56, 56.6): si impongono, perciò, “scelte radicali” che, da una parte, privilegino i popoli marginalizzati e non ancora evangelizzati, dall’altra diano priorità all’annuncio della Parola di Dio, alla giustizia e pace – “elemento costitutivo dell’annuncio evangelico” (185) – e aiutino le Chiese locali ad “guardare agli orizzonti più vasti della missione” superando interessi locali e acquisendo “vera sensibilità e spirito missionario ad gentes” (56.6, 185). Discernimento, riflessione, fedeltà al carisma, scelte radicali: principi che non sempre hanno distinto l’operare dell’Istituto.

Negli AC si auspica una “metodologia missionaria rinnovata” descritta in termini di collaborazione, essere vicini alla gente e coinvolti nella loro vita (attraverso lo studio della lingua, della cultura e delle tradizioni), dialogo interreligioso ed ecumenico, ascolto, inculturazione, capacità di scelte profetiche e coraggiose fatte nel discernimento comune; una metodologia che si esprime nel servizio alla Chiesa locale che viene aiutata a “continuare la sua missione anche dopo il nostro ritiro” e che, perciò, fa della provvisorietà la dimensione dell’attività missionaria (58.1-8). Il Capitolo conferma l’importanza della formazione dei leader, come già accennato, e delle comunità affinché si trasformino in agenti di evangelizzazione, seguendo il Piano del Comboni di ‘salvare l’Africa con l’Africa’, e delle attività di lobbying e advocacy verso gli immigrati e i rifugiati (7.4, 58.6, 67, 185).

Insomma, vengono ribaditi i principi e le modalità di missione già espressi negli anni precedenti con qualche elemento nuovo (l’accenno alla ‘missione globale’), ma sembrano disattesi i desideri iniziali, e forse troppo ambiziosi di questo Capitolo, di “ridisegnare le nostre presenze e riprogrammare la vita dell’Istituto” e di “rifondare l’Istituto”. A questo scopo, come già detto, scelte ben più radicali sarebbero state necessarie, che probabilmente nessuno era in grado di accettare[128].

8.4 I responsabili

La Chiesa locale è la protagonista della missione per cui il ruolo dell’Istituto, in rapporto ad essa, deve essere ripensato (3.2). È quindi la collaborazione con la Chiesa locale e i suoi agenti pastorali, ma anche con la società civile e la Famiglia Comboniana (Comboniane, Secolari, Laici Missionari Comboniani), la dimensione essenziale del lavoro missionario (9.3, 58.5).

La comunità evangelizzatrice, in quanto “cenacolo di apostoli”, è agente di evangelizzazione perché segno visibile del regno: “le nostre comunità internazionali e interculturali, che cercano di vivere sinceramente la fraternità […] [diventano] promotrici di comunione e partecipazione” (57.2); il discernimento comunitario è assunto a “metodo di lavoro e stile di vita” nonché a dimensione spirituale che favorisce “l’unione tra la Parola di Dio e la realtà” (7.2, 36, 58.4); la povertà, anche nella scelta di esperienze comunitarie di inserzione radicali[129], indicata come modalità propria di presenza tra la gente (7.4, 11.3).

Se tutto ciò che si è detto sopra non rappresenta una novità, nuova è, invece, l’apertura del Capitolo a nuove forme di vita comunitaria che includano religiosi/e e agenti pastorali. Comunità che rispondano alle sfide della missione cui “l’attuale struttura di vita religiosa non sempre riesce a rispondere in modo adeguato” (63.3). Una proposta che avrà bisogno di tempo e di attuazioni concrete per sedimentarsi e diventare patrimonio accettato.

Non solo. Le sfide della missione (tra cui il bisogno di corresponsabilità e sussidiarietà necessarie in una missione contestualizzata), della vita comunitaria (internazionalità ed esigenze di interculturalità) e la nuova geografia vocazionale (l’aumento di confratelli del Sud e la diminuzione di quelli del Nord) obbligano a rivedere i criteri per definire le Circoscrizioni o il loro eventuale accorpamento, nonché a chiarire forme e funzionalità delle realtà continentali (126-127.2, 132-133) – un argomento, quest’ultimo, già affrontato nel Capitolo precedente. Le esigenze della missione e della vita comunitaria nella sua dimensione missionaria diventano, quindi, ragioni per intervenire sulla struttura di governo dell’Istituto.

8.5 Dimensioni spirituali

Gli aspetti spirituali della vocazione missionaria comboniana sono ampiamente riportati negli AC e ribadiscono ciò che era stato affermato in tutti i Capitoli precedenti.

Mi sembra importante sottolineare, invece, alcuni problemi rilevati dal Capitolo sulla scia del lavoro sulla Ratio Missionis alla quale i primi tre capitoli degli AC sono debitori.

Una constatazione: le trasformazioni in atto nella società (in special modo la globalizzazione, il relativismo e il “pensiero debole”) nella Chiesa (sempre più protagonista della missione attraverso le Chiese locali che obbligano a ripensare il ruolo dell’Istituto come servizio di collaborazione) e nell’Istituto comboniano sfidano l’identità spirituale e missionaria (3.1-4); questo tempo di cambiamenti epocali necessariamente impegna l’Istituto a reinterpretare il carisma e a riposizionarsi nella società e nella Chiesa.

Un’identità, però, che non solo è sfidata dalle trasformazioni storiche e dai cambiamenti nell’Istituto, ma è ancor più minacciata da un senso di appartenenza superficiale e da una spiritualità fragile (2,9,17,120.3). Si privilegia il fare a scapito dell’essere, un’attitudine da cui derivano “una certa superficialità nell’assimilazione dei valori del nostro carisma; fenomeni d’individualismo e di disaffezione nei confronti dell’Istituto; fragilità nella nostra spiritualità e una certa genericità nel nostro modo di pensare e vivere la missione” (2); le conseguenze di una spiritualità debole sono “un modo di vivere individualista e borghese, che non favorisce la vita fraterna e toglie credibilità alla nostra testimonianza missionaria” […], una fede che “rimane spesso lontana dalla vita e dalla realtà della gente” […] “riduciamo la nostra spiritualità a un ritualismo religioso che non raggiunge il cuore della nostra vita missionaria” […] “senza una pratica concreta e costante, la fede finisce per spegnersi”(17).

Un’analisi onesta che dovrebbe far riflettere. Infatti, senso di appartenenza, identità e spiritualità – e, quindi, missione, vita comunitaria, pratica dei consigli evangelici – sono intimamente legati e si condizionano a vicenda. Il Capitolo sembra voler dire che la crisi in atto nell’Istituto non è solo fisiologica, dovuta, cioè, alle trasformazioni in atto che ne determinano la crescita, ma è anche originata da un vero e proprio deterioramento – se non generale, almeno ampiamente rilevato – del senso identitario e spirituale sul quale è costruito l’impegno missionario dell’Istituto. Se rifondazione dovrà essere, non potrà che partire da questa questione, oltre che da scelte radicali di programmazione.

8.6 Conclusione

Secondo le intenzioni iniziali, questo doveva essere il Capitolo delle decisioni, non semplicemente uno in cui i delegati avrebbero speso la maggior parte del tempo a stilare un documento. Lo schema degli AC, infatti, riflette questo indirizzo decisionale: analisi della situazione-elementi ispiratori e programmatici-scelte operative-valutazione. Nei fatti, però, molto tempo è stato dedicato alla stesura del documento. Le 14 priorità – forse troppe commentava, giustamente, qualcuno – scelte tra 153 suggerimenti pratici proposti in aula capitolare, evidenziavano i punti “cui occorre […] dare attenzione prioritaria affinché gli obiettivi enunciati siano totalmente raggiunti” (AC ’09, Nota esplicativa Post-Capitolare).

Non ci sono state decisioni di rilievo sulla missione; non sono stati scelti “campi di lavoro” e non si sono ridisegnate “le presenze”. Non che mancassero criteri che ne facilitassero il compito, anzi. Come si è detto nella sezione precedente, il problema non stava nei criteri risolutivi della missione ma nelle capacità di prendere decisioni, sofferte ma necessarie. Su questo il Capitolo ha deciso di non decidere.

C’è stato qualcosa di nuovo che questo Capitolo ha apportato nella riflessione sulla missione? Due questioni, direi. La prima è l’accenno, seppur timido, alla missione globale. Come dicevo, questa riflessione avrebbe avuto bisogno di tempo prima di sedimentarsi nella riflessione e diventare retaggio comune e condiviso che avrebbe portato ad impegni conseguenti.

La seconda questione è la possibilità di iniziare forme diverse di vita comunitaria in cui laici, religiose e religiosi potessero vivere in comune in un tipo di vita ispirata dal Comboni e dalla passione per la missione.

I cambiamenti prendono tempo, ma le intuizioni iniziali, per realizzarsi, hanno bisogno di leadership illuminata, visione e coraggio di scelte controcorrente; hanno bisogno, in poche parole, di qualcuno che inizi a metterle in pratica.

 

Sedici missionari comboniani
filippini, dopo 25 anni
di presenza comboniana in Asia.

 

Conclusioni generali

Iniziando questo percorso storico mi domandavo come i Capitoli Generali dal 1969 al 2009 avessero elaborato le tematiche legate all’evangelizzazione e se fosse possibile rilevare uno specifico metodo di lavoro missionario.

L’idea di missione, i suoi ambiti e le modalità si sono arricchiti di nuovi aspetti nel corso degli ultimi 44 anni. La comprensione del nucleo centrale del carisma, l’evangelizzazione ad gentes, si è approfondita sotto la spinta dei cambiamenti nella Chiesa, nel mondo e nell’Istituto.

Il Capitolo del 1969 è stato fondamentale nel riorientare l’identità dell’Istituto sul Comboni e sulla missione ad gentes, come pure interpretare il carisma in un’ottica essenzialmente missionaria sganciandolo da comprensioni strettamente geografiche. La scelta “dei popoli e delle culture dell’Asia” come possibile campo di lavoro del Capitolo del 1975 ne era una conseguenza. Ma il contesto (sia socio-economico – l’“urbanizzazione selvaggia” in America Latina, per esempio – sia ecclesiale – Medellin, l’ Evangelii nuntiandi e il documento dei Gesuiti sulla giustizia) aiutava ad approfondire la natura dell’evangelizzazione, ne allargava gli orizzonti aprendola a nuove possibilità di lavoro: ecco, quindi, lo stesso Capitolo includere la giustizia nelle finalità dell’evangelizzazione e ampliare gli ambiti di impegno alle città, a nuove esperienze di inserimento più radicali nella vita della gente e alla collaborazione con la Chiesa locale, considerata responsabile ultima della missione. La Regola di Vita fissava il fine e gli ambiti della missione tra i “più necessitosi e derelitti” nella doppia accezione sociologica e di fede includendo, nella seconda, i gruppi umani non ancora o non sufficientemente evangelizzati. Un’aggiunta, quella dei ‘non sufficientemente evangelizzati’, che non fu scevra da strascichi polemici. Se il Regno di Dio, i suoi valori e la liberazione integrale erano al centro delle discussioni capitolari nel 1985, il Capitolo prendeva atto che le ‘situazioni missionarie’ di cui parlava la Regola di Vita – liberate, ormai, da ogni criterio rigorosamente geografico – comportavano anche modalità proprie di lavoro missionario adattate ai contesti. Si riconosceva che la missione si stava differenziando, conseguenza di quell’attenzione ai popoli e alle culture di cui avevano parlato i Capitoli precedenti.


Fr. Mario Camporese,
missionario comboniano,
in Etiopia (1991).

Il Capitolo del 1991 portava in primo piano l’argomento della ‘metodologia comboniana di evangelizzazione’ enucleandola in tre principi: salvare l’Africa con l’Africa, fare causa comune con la gente, evangelizzare come comunità. Inoltre, accoglieva la proposta circa la possibilità di Laici Missionari Comboniani, rendendo effettivo ciò che era stato affermato nelle riunioni capitolari del passato circa il riconoscimento dei ministeri laicali e della necessaria collaborazione con i laici nel lavoro missionario.

L’impegno dell’Istituto per la missione significava che la missione stessa doveva essere al centro della sua vita e principio per valutare tutte le altre dimensioni istituzionali (dalla formazione all’economia e al governo) ma significava pure dare attenzione alla persona del missionario e alle sue problematiche, quindi la necessità di un cammino formativo che favorisse la sua crescita umana, psicologica e spirituale: questi erano i temi principali del Capitolo del 1997. Intanto l’Istituto si avviava ad entrare nel XXI secolo. L’oggi della missione implicava una rilettura e una ridefinizione della missione comboniana alle soglie del duemila. Ma la vera questione del Capitolo del 2003 – nonostante non ne fosse il tema principale ma che era tuttavia presente sullo sfondo dei dibattiti capitolari – fu la relazione tra missione e autorità, tra la necessaria definizione di cosa fosse la missione comboniana e l’esigenza di discernere e decidere i campi di lavoro. Il seguente processo di definire una Ratio Missionis avrebbe dovuto chiarire i “parametri missiologici e le scelte di campo”. Nonostante le buone intenzioni iniziali, anche il Capitolo del 2009 preferì lasciare le cose come stavano senza scelte significative sul tipo e numero degli impegni di missione. Il dibattito sulla missione fu uno dei più accesi di tutto il Capitolo, ma in realtà altri argomenti si celavano dietro l’emotività delle discussioni: confratelli di altri Continenti, soprattutto africani, rappresentavano una fetta importante dei delegati capitolari e chiedevano più spazio di ascolto e di responsabilità nell’Istituto; questa fu, a mio parere, la questione vera dietro il dibattito.

L’evoluzione delle tematiche sulla missione nell’Istituto ha fatto risaltare l’intreccio tra la primigenia inspiratio e il contesto, tra lo spirito e la storia e, perciò, lo sforzo di arricchire la comprensione del carisma cercando un dialogo con le nuove sfide della missione. Tutto ciò che i Capitoli hanno elaborato sulla missione è stato, in un certo senso, un processo di Ratio Missionis se, per tali parole, intendiamo che i Comboniani, nel corso delle trasformazioni storiche, hanno “dato ragione” – motivandolo – di chi erano e di ciò che facevano, hanno definito, cioè, che cosa fosse la missione e cosa comportasse in termini di atteggiamenti, criteri e scelte in determinati momenti storici.

In che cosa consiste, quindi, il metodo specifico di lavoro dei Missionari Comboniani? Non mi sembra errato affermare che, in linea di massima, una certa novità e originalità di riflessione che, di fatto, hanno cambiato le nostre prospettive e il nostro modo di fare missione, si trovino soprattutto, se non esclusivamente, nei Capitoli Generali del 1969 e del 1975. Per il resto, non mi sorprenderei di trovare le stesse tematiche e dinamiche missionarie e le stesse conclusioni operative negli altri Istituti missionari. È ragionevole pensarlo: non è sulla strada della riflessione che si trova l’originalità dei Missionari Comboniani. E non penso nemmeno che la nostra diversità si debba ricercare in qualcosa di specifico che riguarda il nostro lavoro, quasi un sigillo della nostra identità – come, per esempio, l’organizzazione del catecumenato per i Padri Bianchi o le università per i Gesuiti. Diversi confratelli vorrebbero credere ad una nostra originalità di lavoro che ci distingue dagli altri: un po’ di delusione dopo la pubblicazione della Ratio Missionis riguardava proprio questo desiderio di identità frustrato. Desiderio comprensibile, ma il buon senso mi dice, invece, che, se dopo quasi 150 anni dal Piano del Comboni ne stiamo ancora discutendo, questa originalità probabilmente non c’è , almeno cercandola in questa direzione. Ad essere sinceri, tutta la ricerca sulla “metodologia comboniana di evangelizzazione” dal 1986 in poi non ha prodotto grandi risultati. Dopotutto, secondo P. J. Uhl che ha scritto riguardo alla metodologia missionaria in Comboni, il Fondatore stesso ebbe, sì, un metodo missionario, nella sua pur breve esperienza africana, ma “mancarono al Comboni la continuità e la tranquillità necessarie per sistemare in modo completo la pastorale o per codificarla”[130]. È ciò che riconosceva anche P. Antonio Vignato che dovette ricorrere al contributo dei Padri Bianchi per elaborare un progetto articolato di missione.

L’originalità non sta nella modalità di lavoro e neanche in qualche elaborazione teorica sulla missione.

Quindi, dobbiamo rassegnarci a vivere nel generico e nel dubbio identitario?

Al contrario. A costo di sembrare banale e scontato, a me sembra che la vera originalità dei Comboniani sia proprio il Comboni, un uomo che ha incarnato un sogno e che, con la sua determinazione e fede, lo ha reso possibile nella missione dell’Africa Centrale, lottando fino allo sfinimento totale perché quel sogno non morisse. E, con Comboni, ci appartiene e ci dà identità la nostra storia la quale, più che di eventi o di particolari metodi di evangelizzazione, è fatta di persone concrete, quelle “figure esemplari” che hanno impersonato la passione di Comboni facendo della missione e del dono di sé ai più “poveri e abbandonati” la loro ragione di vita.
P. Mariano Tibaldo mccj

 

[1] A. Vignato, Note storiche sulla missione del Bahr-el-Gazal, in <<Bollettino della congregazione>>, (1959) 33, pag. 1252-1253.

[2] Documenti Capitolari 1969, Parte Prima, no. 65.

[3] Le parole del Superiore Generale al Capitolo del 1969 danno l’idea delle angherie subite dai missionari e della tragedia dell’espulsione: “Nel Sudan meridionale la bufera araba ha devastato tutte quelle fiorenti missioni. Dal 1955 […] fino al 1964, eccettuato il breve periodo dell’insurrezione delle provincie meridionali, i nostri Confratelli furono oggetto di sospetti, calunnie ricatti e trascinati in tribunale […]; messi in carcere, espulsi. Il calvario finì con l’espulsione di tutti i missionari stranieri […]; il campo, florido di messi mature, rimase senza operai, eccettuati i Prelati e i pochi sacerdoti confinati nei centri. […] Il doloroso fatto dell’espulsione dei nostri Confratelli dal Sudan ha permesso di accettare nuovi campi di apostolato”. Relazione del Superiore Generale P. Gaetano Briani al X Capitolo Generale della Congregazione, Archivio Centrale Roma, C/322, 01, p. 5-6.

[4] Fidel Gonzalez Fernández MCCJ, I Capitoli Generali dell’Istituto Missionario Comboniano (1899-1997), Supplemento di Archivio Comboniano, XXX (1998) 1-2. Studium Combonianum, Roma 1998, p.146-166. Vedi anche: Relazione del Superiore Generale…, p. 5-7.

[5] Commentando sulle defezioni nel decennio trascorso ( 318 tra Padri, Fratelli e Scolastici di cui 65 con voti perpetui) p. Briani scrive: “È un numero piuttosto elevato di quelli che ci hanno lasciato e fa impressione. […] Se questo può essere di conforto, dobbiamo constatare che non siamo la sola Congregazione a subire tali perdite. Tutti i Superiori Generali lamentano questo fatto e, forse, noi non siamo i più disgraziati”. Relazione del Superiore Generale…, p. 10.

[6] Gonzalez, I Capitoli…, p.149-150.

[7] Le citazioni dai vari Capitoli saranno semplicemente riportate tra parentesi con riferimenti indicanti la parte e/o il numero a cui si riferisce la citazione.

[8] Così si esprimono le Costituzioni del 1958: “I Fratelli, come coadiutori e operatori del sacerdote, riconoscano di dover dipendere in ogni cosa dai Padri, come a loro Superiori” (n. 411).

[9] Gonzalez, I Capitoli…p. 156.

[10] Per una presenza dei Comboniani in Burundi, Relazione al XI Capitolo Generale, Archivio Centrale Roma, C/323, b.5, p.2.

[11] Gonzalez, I Capitoli Generali…p. 334-337.

[12] Assemblea Panamericana Comboniana, Evangelizzazione, La Paz, Messico, gennaio 1974. Archivio Centrale Roma, 438/17/2, p. 5.

[13] Gonzalez, I Capitoli Generali…p.314.

[14] Documenti Capitolari 1975, Lettera si presentazione, p. 3.

[15] Il numero romano ‘II’ nei Documenti Capitolari del 1975 si riferisce al documento: I Comboniani nella Missione oggi’.

[16] Non mancavano tensioni con chi optava per un impegno socio-politico come fase iniziale dell’evangelizzazione. Così si esprimeva la relazione del Consiglio Generale al Capitolo: “C’è una corrente di pensiero che, appellandosi alla ‘missione nuova’, sostiene che la Chiesa nel terzo mondo deve dare priorità alla soluzione dei problemi socio-politici ed alla promozione umana come pre-evangelizzazione. I D.C. (del 1969 ndr) non sono su questa linea, né vi sono posti i Consigli di circoscrizione, e neppure il Consiglio Generale. […] Quindi la nostra opzione prioritaria deve rimanere l’evangelizzazione nel senso integrale di testimonianza di vita, di opere e di annuncio. […]”. E proseguiva: “Questo nostro atteggiamento ha portato a risolvere praticamente quello che può sembrare ambiguo nei nostri D.C., quando parlano della scelta dei ‘più poveri e più abbandonati’. Per noi l’area specifica è quella dei più poveri e più abbandonati ‘riguardo alla fede’ nei territori di missione ‘ad Gentes’”. Quindi concludeva: “Ci auguriamo che tale concetto continui a rimanere la base delle nostre scelte per evitare deviazioni che possono portare a crisi individuali, comunitarie e di Congregazione”. Relazione del Consiglio Generale al Capitolo Generale, giugno 1975, Roma, Archivio Centrale Roma D/569, 6. allegato 69, p. 20-21.

[17] Sinodo de Vescovi 1971, La giustizia nel mondo, n. 6.

[18] Commentando sull’interdipendenza che caratterizza il mondo di oggi, il Superiore Generale, p. Agostoni, nella relazione al Capitolo del 1979, affermava polemicamente: “[…] il documento del Capitolo del 1975 sulla Missione domanda comunicazione tra le varie Regioni e la Chiesa universale. In alcune Regioni si afferma che ‘i problemi sono locali’, incomprensibili da chi vive fuori. Questa mentalità, anche se in parte vera, è nello stesso tempo frutto di inesperienza e immaturità missionaria.” Relazione del Consiglio Generale FSCJ per il Capitolo Speciale della Congregazione riunita. Giugno 1979, D/592, 9. allegato 44, p. 32.

[19] Gonzalez, I Capitoli Generali…p. 330.

[20] È interessato che il Capitolo usi il termine ‘società civile’ preferendolo a quello di ‘stato’, quasi a prenderne le distanze.

[21] Documenti Capitolari 1975, La vita comunitaria nell’Istituto comboniano, n. 39.

[22] Documenti Capitolari 1975, La vita comunitaria…, n. 40.

[23] Secondo p. P. Ravasio – a quel tempo segretario generale dell’evangelizzazione nonché delegato capitolare – gli AC si riferiscono all’esperienza missionaria di p. Pazzi in Togo, nonché al fatto che alcuni confratelli si stavano impegnando con movimenti ecclesiali in particolare con il movimento neocatecumenale. Le parole del Capitolo sembrano quasi dare validità giuridica all’impegno con i movimenti, purché questo impegno sia sottoposto “a giudizio del carisma dell’autorità” (II, 34). I Capitoli successivi, quelli del 1979 e del 1985, faranno chiarezza sulla partecipazione dei confratelli ai movimenti e soprattutto al movimento neocatecumenale, richiamando la Regola di Vita ai nn. 41.2, 82.3. Nelle successive versioni della RdV il n. 82.3 sarà omesso. Il numero 41.2 della RdV dichiara senza mezzi termini: “Un missionario che si sente chiamato ad un ministero non consono alla natura dell'Istituto, viene invitato a seguire un'altra strada”.  

[24] Documenti Capitolari 1975, La vita comunitaria…, n. 33.

[25] Gonzalez, I Capitoli Generali…p. 336.

[26] Gonzalez, I Capitoli Generali…p. 339.

[27] Quanto la comunità e le piccole comunità cristiane fossero al centro delle preoccupazioni delle Chiese locali a quel tempo, lo conferma la conferenza dell’AMECEA (Association of Member Episcopal Conferences in Eastern Africa) a Nairobi nel 1973 che aveva promosso uno studio sulle comunità cristiane di base. Costruire comunità di base nelle zone sia urbane che rurali doveva essere la priorità per la Chiesa dell’Africa Orientale negli anni ’80. 

[28] Gonzalez, I Capitoli Generali…, p. 410.

[29] Relazione del Consiglio Generale FSCJ… p. 32.

[30] Gonzalez, I Capitoli Generali…, p. 407-408.

[31] Tarcisio Agostoni, The Comboni Missionaries. An Outline History 1867-1997, Comboni Missionaries, Rome – 2003, p. 425-431.

[32] Gonzalez, I Capitoli Generali…, p.357-358.

[33] Nella versione del 1988 della RdV, altre fonti ecclesiastiche sono state impiegate che non appaiono ancora nel contesto del 1979, quali il Codice di Diritto Canonico (1983) e la lettera enciclica di Giovanni Paolo II Dominum et Vivificantem (1986).

[34] A ribadire la prudenza del Capitolo, ciò che riguarda l’ apertura all’Asia non fa parte della sezione sulla programmazione, ma quella sugli orientamenti.

[35] I motivi contrari per l’apertura in Asia nell’immediato futuro erano i seguenti: le esigenze di consolidare le nostre comunità; le esigenze di consolidare alcuni impegni in zone di recente apertura e che esigono l’inserimento di nuovo personale; lo scarso incremento numerico dell’Istituto; la crescita dell’invecchiamento medio. Inoltre, si ribadiva che ritirarsi da qualche impegno attuale non era facilmente realizzabile perché, in alcune zone, si lavorava in ambienti di prima evangelizzazione. Il sondaggio orientativo per l’apertura in Asia dava questi risultati: votanti 73, favorevoli 28, contrari 39, astenuti 6. Apertura in Asia, Archivio Centrale Roma, D/595, 4. allegato 152.

[36] Agostoni, The Comboni…p. 433-434.

[37] Gonzalez, I Capitoli Generali…, p.363.

[38] La presenza dello Spirito Santo come agente dell’evangelizzazione è uno dei temi principali dell’Evangelii Nuntiandi. Vedi n. 75.

[39] La RdV mutua dal decreto Ad Gentes e dall’esortazione Apostolica Evangelii Nuntiandi – annoverate tra le  fonti della RdV – il significato e il fine dell’ evangelizzazione nonché la relazione – “il legame profondo” secondo EN n. 31 – tra evangelizzazione e promozione umana. In AG evangelizzazione è proclamare il Vangelo a coloro che ancora non conoscono Cristo e fondare la chiesa; in EN evangelizzare è processo più composito, integrato da diversi elementi: è “annuncio del Cristo a coloro che lo ignorano, […] predicazione, […]catechesi, […]Battesimo e […] altri Sacramenti da conferire” (17); e ancora “[l’] Evangelizzazione […] è un processo complesso e dagli elementi vari: rinnovamento dell'umanità, testimonianza, annuncio esplicito, adesione del cuore, ingresso nella comunità, accoglimento dei segni, iniziative di apostolato” (24). 

[40] Evangelii Nuntiandi no. 31.

[41] Il ‘bene personale’ della RdV si riferisce alla necessità di formazione permanente o in caso di malattia.

[42] Costituzioni della Congregazione dei Figli del sacro Cuore di Gesù, 1958, Parte IV Vita Missionaria, p. 80.

[44] S. Congregazione per la Dottrina delle Fede, Libertatis Nuntio. Istruzione su alcuni aspetti della teologia della liberazione, Roma, 6 agosto 1984, n. IX 3.

[46] Tarcisio Agostoni, The Comboni Missionaries. An Outline History 1867-1997, Comboni Missionaries, Rome – 2003, p. 450-455.

[47] Supplemento al Bollettino no. 138, p.25.

[48] Relazione della Direzione Generale al XIII Capitolo Generale, Roma 1985, Archivio Centrale Roma, D/616/1, no. 3.7, p. 22.

[49] Ibid. no. 2.3, 2.4, p. 3-4.

[50] Atti Capitolari ‘03, n. 21, 133.1.

[51] Regola di Vita n. 16.

[52] È difficile capire cosa si voglia dire con ‘poveri in ordine al Regno’; letteralmente potrebbe dire ‘poveri secondo il Regno’ o ‘poveri secondo i criteri del Regno’; allora ci si domanda quali siano i criteri del Regno oppure chi siano i poveri secondo il Regno. Nel Vangelo i poveri sono i destinatari prediletti del messaggio evangelico in quanto il povero – l’indigente e l’escluso dalla vita sociale e religiosa – è colui a cui va l’attenzione privilegiata di Gesù; ma la povertà non è solo una categoria socio-economica ma anche spirituale perché il povero è colui che è aperto all’annuncio evangelico e umilmente riconosce la propria radicale incapacità a raggiungere la salvezza con le proprie forze; la povertà, in questo senso, ha una valenza positiva. Nell’Evangelii Nuntiandi i poveri sono “spesso i più disposti” a ricevere l’annuncio evangelico (n.6). Il Regno è un dono ma viene anche “conquistato” attraverso un “cambiamento profondo della mente e del cuore” (EN n. 10). I poveri sono privilegiati non in quanto poveri ma perché più pronti ad accogliere la salvezza operando nella loro vita una trasformazione radicale secondo i valori del Vangelo.  L’espressione “poveri in ordine al Regno” potrebbe, allora, voler dire gli indigenti e gli esclusi che si aprono al messaggio evangelico; ma è veramente cosi? Nei documenti comboniani “poveri e abbandonati” sono i diseredati dal punto di vista socio-economico e coloro che non conoscono il Vangelo o lo conoscono in modo insufficiente e non, quindi, coloro che hanno già fatto una scelta a favore del Vangelo e “a cui il Regno appartiene”, per dirla con il Vangelo. In breve, non mi sembra ci possa essere un’interpretazione convincente su cosa significhi “poveri in ordine al Regno”. Anzi, l’impressione è di uno slogan piuttosto appiccicaticcio e ambiguo.

[53] Di fatto, però, l’autosufficienza ministeriale della chiesa locale – oltre che economica e missionaria – era più teorica che basata sui fatti: chiese locali dove i comboniani erano presenti, soprattutto quelle con un’alta percentuale di non battezzati, necessitavano ancora di lavori di supplenza e di impegno parrocchiale. È forse per questo motivo che la formula ‘riqualificazione del personale’ è stata via-via abbinata alla riduzione del personale.

[54] Relazione della Direzione Generale al XIII Capitolo Generale, Roma 1985, Archivio Centrale Roma, D/616/1, 3.4, p. 5.

[55] Fidel Gonzalez Fernández MCCJ, I Capitoli Generali dell’Istituto Missionario Comboniano (1899-1997), Supplemento di Archivio Comboniano, XXX (1998) 1-2. Studium Combonianum, Roma 1998, p.419.

[57] Relazione del Consiglio Generale al XIV Capitolo Generale, Roma 1985, Archivio Centrale Roma, 482/10/3, p. 4.

[58] Il Congresso ebbe come tema: America Latina, dalla tua fede invia missionari.

[59] Ibid…p. 9; Gonzalez, I Capitoli Generali…, p. 431-435; Agostoni, The Comboni…p. 455, 469-476.

[60] F. Pierli e Consiglio, Convocazione del XIV Capitolo, MCCJ Bulletin n. 169 (1991), p.2.

[61] I numeri tra parentesi si riferiranno agli Atti Capitolari 1991.

[62] Le cinque ‘piste’ furono le seguenti: 1. spiritualità missionaria; 2. comunità missionaria comboniana; 3. formazione di base e permanente; 4. campi di lavoro; 5. metodologia missionaria comboniana.

[63] Gli Atti Capitolari avranno un pronunciamento-chiave “Con Daniele Comboni Oggi”. “In esso si trova – afferma il Consiglio generale nella lettera di presentazione – la risposta alla domanda: qual’ è il punto focale per un rinnovamento dell'Istituto nei prossimi sei anni, un rinnovamento capace di sprigionare le nostre energie latenti e di instaurare un modo di fare missione caratterizzato dalla convincente testimonianza del nostro stile di vita e presenza tra le nazioni. Quanto il Capitolo afferma su questo punto costituisce la chiave di interpretazione di tutto il resto e indica la via da seguire per attuare la nostra Regola di Vita nel momento presente” (n. 2).

[64] La parte dedicata ai laici è inserita nella sezione ‘Altre Decisioni Capitolari’.

[65] L’aggancio costituzionale dei laici con la Regola di Vita poggiava, infatti, sul n. 68 concernente le ‘comunità apostoliche’ (63.5).

[66] Il Consiglio Generale nella lettera Laicato Missionario Comboniano del 1994 dirà che il carisma del Comboni “va al di là degli attuali Istituti Comboniani che da esso nascono” (n. 11.3).

[67] Il Superiore Generale, p. F. Pierli, in una lettera indirizzata all’Istituto, era ancor più drastico nel giudizio e chiaro circa il compito del prossimo Capitolo Generale: “Il capitolo generale nei prossimi 10 anni dovrebbe avere le caratteristiche di denunciare con libertà […] evangelica i mali della congregazione” […]. “Un capitolo generale non può oggi eludere la lotta contro l’imborghesimento (consumismo, edonismo, individualismo) delle persone e delle comunità in favore di uno stile di vita molto più evangelico e di solidarietà con i poveri” […],  in: XIV Capitolo Generale: un Capitolo alle porte del 2000, MCCJ Bulletin, n. 168 (1990), p. 4.

[68] Gonzalez, I Capitoli Generali…, p. 464.

[69] Relazione del Superiore Generale e del suo Consiglio al XV Capitolo Generale, luglio 1997, n. 81.

[70] Questa una delle tesi di P. Péan nel suo libro: Carnages. Le guerres secrete del grandes puissances en Afrique, Fayard, 2010.

[71] Relazione del Continente africano al XV Capitolo Generale, Roma, Segreteria Generale, p. 2. 

[72] Il tema del Congresso fu: Il Vangelo nelle culture. Cammino di vita e di speranza.

[73] Report of the American-Asian Provinces and Delegations to the XV General Chapter, Roma, Segreteria Generale, p. 2.

[74] IV CONFERENCIA EPISCOPAL DEL EPISCOPADO LATINOAMERICANO, Republica Dominicana 12-28 de Octubre de 1992, SANTO DOMINGO, Nueva Evangelizacion, Promocion Humana, Cultura Cristiana; Jesucristo Ayer, Hoy, Siempre,  nn. 287-302.

[75] Gonzalez, I Capitoli Generali…, p. 530-531, 539. Stranamente il Capitolo non volle tener conto di questa inchiesta.

[76] I tre pilastri della metodologia comboniana espressi dal Capitolo del 1991: Salvare l’Africa con l’Africa, Fare causa comune con la gente ed Evangelizzare come comunità

[77] Relazione del Segretario Generale per l’evangelizzazione al Capitolo Generale 1997, Roma, Segreteria Generale, p. 1,3.

[78] Il titolo degli Atti Capitolari sarà: Ripartire dalla missione con l’audacia del Beato Daniele Comboni

[79] Gonzalez, I Capitoli Generali…, p. 496.

[80] Un tema mutuato dall’esortazione apostolica Ecclesia in Africa.

[81] Gonzalez, I Capitoli Generali…, p.483.

[82] La prima parte degli AC si intitola A partire dalla missione, la seconda, Nella luce della missione.

[83] n. 52.

[84] I fattori che gli AC enumerano sono i seguenti: la rotazione frequente, la precedenza data al lavoro pastorale, la scarsa identificazione con la propria cultura, la ricerca di risultati immediati e uno stile di vita comunitaria troppo lontano dalla gente (38).

[85] Queste parole, invero, sono riportate dalla lettera del 1994 del Consiglio Generale, Laicato Missionario Comboniano, n. 11.3.

[86] Gonzalez, I Capitoli Generali…, p. 489, 498.

[87] Maria Elisabetta Gandolfi, Domandare perdono, in <<Il Regno-Attualità>> 18/2003, p. 595.

[89] La crisi degli abusi sessuali sui minori che aveva investito con violenza la Chiesa Cattolica, esigeva l’elaborazione di un codice di condotta da parte della Chiesa stessa (AC ’03 n. 26.6). Ma la questione degli abusi richiedeva prudenza da parte dell’Istituto comboniano e che eventuali problemi su questo campo fossero fronteggiati con strumenti adeguati. La stesura di un codice di condotta sarà completata nel sessennio successivo al Capitolo: al codice dovrà corrispondere la contestualizzazioni del testo con le legislazioni locali in materia di abusi da parte delle circoscrizioni.

[90] Intercapitolare 2000. 14 settembre-4 ottobre in <<MCCJ Bulletin>> (208) Ottobre 2000, p. 26.

[91] Con Daniele Comboni. Tra memoria e profezia. Relazione del Superiore Generale e suo Consiglio, 1997-2003, Roma Pentecoste 2003, Segreteria Generale, Archivio corrente, n. 95.

[92] Ibid. n. 85-86.

[93] AC ’03 n. 17, 97.

[94] Il Capitolo Informa, 10-11 settembre 2003, Segreteria Generale, Archivio corrente.

[95] Atti Capitolari 2003, p. 8.

[96] Ibid. p. 8

[97] P. Tarcisio Agostoni, Traccia della storia dei Missionari Comboniani. 1867-2003, Missionari Comboniani Roma, p. 381.

[98] L’interculturalità fu il tema elaborato nella lettera del Consiglio Generale intitolata L’interculturalità nella comunità comboniana, del gennaio 1999, mentre l’inculturazione del carisma sarà proposto dal Capitolo come oggetto di studio dei gruppi continentali di riflessione (AC ’03 n. 61.2).

[99] Così annotava l’estensore del diario “Il Capitolo Informa”: “E siamo ai… dolori del parto! Terminate le osservazioni, si approva una mozione che propone di dividersi in gruppi per rispondere alla domanda fondamentale, da cui dipenderà il successo o meno del Capitolo, rimasta in sospeso e su cui il 1° gruppo che trattava della missione comboniana non era giunto ad un accordo: che cosa intendiamo per Missione comboniana oggi. Ci dividiamo in 11 gruppi, […] e si comincia a lavorare. Nel pomeriggio i gruppi presentano la risposta al quesito posto. Non segue alcuna discussione. Si preferisce passare all’approvazione di una mozione presentata da un gruppo di capitolari e che modifica anche lo Statuto: - Si mandino i testi alla Commissione speciale perché li riveda, eliminando doppioni, includendo le osservazioni dell’assemblea. Il testo rivisto dalla Commissione sarà presentato in aula per la prima lettura”. Il Capitolo Informa, 18-19 settembre, Segreteria Generale, Archivio corrente.

[100] Il Capitolo Informa, 6 settembre 2003, Segreteria Generale, Archivio corrente.

[101] L’Instrumentum Laboris al n. 47 affermava che “Tutti, dal Papa (cfr. RM 32) ai missionari e ai teologi, parlano oggi di evoluzione del concetto di missione, di cambio paradigmatico della sua teologia e metodologia. I missionari non solo lo percepiscono a livello universale, ma intuiscono anche le connotazioni che la missione assume in ogni continente a seconda delle particolari circostanze storiche. Si sta perciò sperimentando un certo pluralismo della missione: in Asia, si ripensa la missione dal punto di vista del dialogo interreligioso; in Africa, dal punto di vista dell’inculturazione; in America, della liberazione; in Europa, dal punto di vista della ri-evangelizzazione, della giustizia e pace e integrità del creato”.

[102] Ancor più problematica – perché, appunto, il soggetto manca di precisazione – è l’affermazione, contenuta nello stesso numero, che “la metodologia comboniana determina come e con quali mezzi compiere il servizio missionario”. Il Capitolo del 1991 aveva enucleato tre elementi di “metodologia missionaria comboniana”: salvare l’Africa con l’Africa, fare causa comune con la gente, evangelizzare come comunità. Che questi principi determinino “come e con quali mezzi” compiere la missione è decisamente un compito che va al di là del loro enunciato.

[103] Rispettivamente nei capitoli II e V: la missione comboniana oggi e rinnovarci nella metodologia comboniana.

[104] Attualmente a Guayaquil (Ecuador) e Lunzu (Malawi).

[105] Gli Atti Capitolari suggeriscono anche che la direzione del Social Ministry Institute del Tangaza College a Nairobi sia affidata “preferibilmente” ai fratelli (123).

[106] I “progetti pilota” saranno realizzati soprattutto in Africa: a Carapira (Mozambico) e a Mongoumba (Centrafrica). Si stanno, però, consolidando altri progetti: in Perù e Uganda (per l’Africa anglofona).

[107] Nel gennaio del 1999 il Consiglio Generale aveva scritto una lettera sull’interculturalità intitolata L’interculturalità nella comunità comboniana. In essa si offrivano alcuni principi tratti dalla Bibbia e dalla tradizione comboniana e si proponevano alcune indicazioni pratiche.

[112] Gianfranco Brunelli, Il pontificato e la rinuncia: vox clamantis in deserto, supplemento a <<Il Regno Documenti>> 3 (2013), p. 6.

[114] Assemblea Intercapitolare 2006, Ciudad de Mexico, 3-24 settembre in <<MCCJ Bulletin>> (232), numero speciale, ottobre 2006, p. 127.

[115] Ibid. p. 9, 12.

[116] Ibid. p. 83.

[117] Ibid. n. p. 86.

[118] Le intenzioni iniziali di questo Capitolo, di elaborare un piano per “rifondare l’Istituto” (così si esprime il CG nella relazione al Capitolo Generale Senza mettere ostacoli a Dio. Relazione e Messaggio del CG al XVII Capitolo Generale, n. 24-27) avevano fatto sorgere delle aspettative esagerate che i modesti risultati del Capitolo avrebbero, in parte, smorzato.

[119] Il Capitolo, per quanto riguarda la scelta dei campi di lavoro, avrebbe ampiamente disatteso queste speranze decidendo di non decidere.

[120] Il documento di sintesi dei lavori delle assemblee provinciali e continentali portava il titolo: “Rivedere la Missione rinnovando noi stessi”. Questo documento, assieme al sussidio preparato dalla Commissione Preparatoria, sarebbe stato il testo base sulla missione su cui avrebbero riflettuto i gruppi di lavoro al Capitolo.

[121] La qualifica “strumenti di discernimento”, giudicata più “morbida” e meno vincolante per i lavori in aula, fu preferita a quella di Instrumenta Laboris: in questo modo, secondo alcuni Delegati, i documenti della Commissione Tematica sarebbero stati più facilmente approvati dall’assemblea.

[122] Nelle lettere “News from the Chapter” che regolarmente mandavo ai confratelli della Provincia del Kenya, avevo annotato alcune impressioni che, nel prosieguo del Capitolo, erano diventate certezze: i delegati non avevano la stessa comprensione di cosa significasse annunciare il Vangelo e cosa comportasse. Ci si scontrava sui diversi modi di intendere la missione, sulle sue priorità e sui contenuti: se per alcuni l’annuncio e la liturgia erano prioritari, per altri l’impegno sociale aveva la preminenza rispetto ad altre modalità di presenza missionaria; l’identità comboniana come missione ad gentes sembrava un concetto piuttosto fluido dove non esisteva un nucleo in cui tutti potevano riconoscersi. In questo modo, non avremmo potuto parlare di identità comune ma di molte identità; per alcuni, anzi, l’identità sembrava doversi modellare in riferimento al contesto e ai bisogni che vi si trovavano. Atteggiamento rischioso, questo, se frutto di una spiritualità debole che comprometteva le dimensioni spirituali della presenza missionaria. Sarebbe interessante capire anche se questi diversi atteggiamenti e comprensioni fossero semplicemente il risultato dello sforzo di contestualizzazione della missione oppure (anche o soprattutto) di mancanza di politiche e di criteri comuni e condivisi.

[123] Il documento sulla missione avrebbe innescato accesi dibattiti in aula capitolare e l’emotività dimostrata nel dibattere le questioni rivelava delle ragioni che andavano ben al di là delle tematiche sul tappeto e ne impedivano un pacato esame.

[124] La descrizione dell’evangelizzazione, soprattutto nel capitolo sulla missione, appare frammentaria, manca di unitarietà e coerenza, segno di contributi di varia provenienza cui non si è data una sistemazione articolata.

[125] R. Schreiter afferma che, in un’era di globalizzazione, la missione ad gentes deve ridefinirsi: prima di tutto la distanza fisica non è più un criterio per definire le gentes: la missione deve guardare piuttosto alle distanze sociali; in secondo luogo, ad gentes non può riferirsi ad un territorio dove vivrebbe un popolo con limitate influenze esterne: il territorio è sostituito, invece, dall’areopago, punto di incontro e occasione di comunicazione; infine, le gentes, in questa epoca in cui i tempi e le distanze si sono ridotti, sono “tutte intorno noi, virtualmente nei mass media e fisicamente attraverso le migrazioni”. Robert J. Schreiter, La missione globale, in F. Zolli, Essere missione oggi, EMI, Bologna 2012, p. 131-132.

[126] Nel gruppo dell’identità si era sottolineato che le parole ad gentes, ad pauperes, ad vitam e ad extra avrebbero avuto bisogno di nuove formulazioni perché riflettevano una teologia della missione del passato.

[127] È veramente un Capitolo il luogo per cambiare un Istituto e fare delle scelte radicali? Nelle “News from the Chapter” scrivevo: “Tutti noi siamo stati attenti ad usare un linguaggio ‘politicamente corretto’, a non toccare la sensibilità delle persone. Ci siamo ben guardati dal ‘rimestare la superficie’ e lasciare che le questioni dolorose emergessero. Raramente difficoltà e problemi sono stati evidenziati”. […] “Il quadro generale è deprimente: siamo lontani dall’affrontare adeguatamente le sfide delle società in cui viviamo; ci perdiamo in piccole questioni – come il profeta Giona che, perdendo di vista il disegno e le prospettive di Dio, divenne eccessivamente preoccupato per l’ombra di un albero”. E ancora: “C’è un tacito patto tra i delegati del Capitolo: se tu non mi disturbi, io non ti disturbo”. […] “Il fatto è, come sta chiaramente emergendo per ciò che riguarda il tema della ‘missione’, che possiamo essere d’accordo in teoria su ciò che è la missione del Comboniano – evangelizzazione ad gentes per i poveri – ma ciò che questo comporta, in pratica, è una questione spinosa. Dobbiamo accomodare differenti e particolari interessi di ogni Provincia/gruppo; la gente diventa suscettibile circa discussioni franche e, di conseguenza, decisioni chiare sono difficili se non impossibili da prendere”.

[128] Infatti nessuna decisione di rilievo venne presa riguardo alla riqualificazione degli impegni circa la missione, se si eccettua l’accenno alla necessità di una presenza in situazione di frontiera (variamente interpretata dai delegati al Capitolo per giustificare impegni già esistenti in Provincia).

[129] Presenza in situazioni di frontiera ed esperienze di inserzione radicali di cui parlano gli AC non sono necessariamente la stessa cosa: la prima parla di ambiti di missione, la seconda dello stile di vita. Infatti, tra le 14 priorità, la presenza in situazioni di frontiera fa parte della missione, mentre l’inserzione radicale è argomento dell’identità.

[130] J. Uhl, La metodologia missionaria in Comboni, in AAVV, Evangelizzazione in Africa. Per una metodologia comboniana, Bibliotheca Comboniana, Roma, 1990, p.18.