Una storia bellissima e drammatica, che Gesù racconta a un dottore della Legge, ma che, in realtà, è la storia dei nostri giorni: il viaggio dell’umanità, i feriti e gli scartati ai bordi della strada e della vita, l’indifferenza e la paura che ci impediscono di vedere, avvicinarci e fasciare le ferite.  [...]

Lc 10, 25-37

Non si può credere in Dio
restando ciechi al dolore del mondo

Una storia bellissima e drammatica, che Gesù racconta a un dottore della Legge, ma che, in realtà, è la storia dei nostri giorni: il viaggio dell’umanità, i feriti e gli scartati ai bordi della strada e della vita, l’indifferenza e la paura che ci impediscono di vedere, avvicinarci e fasciare le ferite.

Sono queste tre le azioni principali del buon samaritano, che Gesù propone come icona della compassione: lo vide, gli si fece vicino, gli fasciò le ferite. Tre gesti che parlano di una commozione viscerale, che vince la cecità, la sordità e la durezza del cuore dinanzi alla vita e al dolore dell’altro.

E mettendo in scena questa bellissima storia, Gesù opera un vero e proprio capovolgimento di significato: non sei tu a scegliere il prossimo da amare — magari tra chi fa parte della tua cerchia o famiglia, chi la pensa come te, chi ti è simpatico o non ti disturba troppo — ma, invece, sei tu che devi diventare prossimo di chiunque incontri nel cammino. Una pennellata di sconvolgente attualità e un grido situato al centro della nostra coscienza e della nostra storia: non può esserci vita, gioia, futuro se continui a passare oltre, a non vedere, a innalzare muri, a tracciare confini che ti tengono a debita distanza dall’altro. Solo l’amore apre alla gioia e cambia il mondo.

In fondo, impariamo questo amore alla scuola di Dio stesso che, in Gesù, ha ascoltato il nostro gemito, si è chinato sulle nostre ferite, ha toccato e guarito la nostra carne.

E ritornano le azioni del samaritano: lo vide, gli si fece vicino, gli fasciò le ferite.

Il sacerdote e il levita, uomini religiosi che stanno andando al tempio, pregano Dio, ma si dimenticano dell’uomo. La loro “spiritualità senza carne” li rende ciechi dinanzi al dolore dell’altro e, per questo, “passano oltre”. L’indifferenza, la fretta, la preoccupazione per le proprie cose, la paura di coinvolgerci troppo ci fa sempre passare oltre e ci rende sordi, ciechi e duri. L’amore, invece, è contaminazione: vedere l’altro, rompendo ogni indifferenza; farsi vicini all’altro , accorciando le distanze e coinvolgendoci nella sua vita; fasciare le ferite dell’altro , praticando quella stessa compassione viscerale che Gesù sente per noi. L’amore, in fondo, è non passare mai oltre. È fermarsi, avvicinarsi, accogliere, toccare, portare sulle proprie spalle le gioie e i dolori dell’altro.

Una parabola che grida, al cuore delle nostre coscienze anestetizzate e della nostra società indifferente, che non si può credere in Dio restando ciechi al dolore del mondo.
[Francesco Cosentino – L’Osservatore Romano]

Come diventare prossimo di chi è nel bisogno

Dt 30,10-14; Salmo 18; Col 1,15-20; Lc 10,25-37

Il vangelo di questa domenica ci presenta la parabola del buon samaritano. Per mettere Gesù alla prova un dottore della legge gli chiede: “Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?” Cioè cosa devo fare per garantirmi la vita eterna con il minimo di sforzo e il massimo di certezza. Questa domanda, normalmente, sta all’inizio del cammino di ogni essere umano che risponde all’anelito di vivere pieno e felice. Gesù rimanda il suo interlocutore alla “Legge”. Il dottore della legge risponde con le parole della “Shemà”, dove viene detto di amare il Signore Dio “con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza, con tutta la tua mente, con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso”.

A parte l’ultima amplificazione “con tutta la tua mente”, la novità più interessante è l’aggiunta del “prossimo tuo comete te stesso” come oggetto dell’unico verbo amerai. Gesù sottoscrive questa risposta, ma fa una precisazione che rimanda alla domanda iniziale del dottore della legge: “Fa questo e vivrai”. Quindi la via della vita (eterna) passa attraverso l’amore; un amore da attuare con integrità di cuore, senza distinzione tra Dio e il prossimo.

“Volendo giustificarsi” dice il vangelo, il maestro della legge chiede a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”, una questione molto discussa nel suo ambiente. Perciò è comprensibile e legittima la sua domanda. Questa volta Gesù non si appella più alla sacra scrittura, e evita di fornire una definizione del prossimo, perché lascia sempre fuori qualcosa o qualcuno. Egli racconta allora la storia del buon samaritano.

La prima scena si ispira a un fatto di cronaca. Capitava che i mercanti saliti a Gerusalemme venissero assaliti dai briganti lungo la strada che scendeva verso Gerico. Nel caso di resistenza il malcapitato veniva percosso, derubato e abbandonato sulla strada. Il secondo atto vede in scena due figure del tempio, un sacerdote e un levita. Anch’essi scendono da Gerusalemme dove hanno svolto il loro rispettivo servizio nel tempio e ritornano a Gerico. Ambedue vedono l’uomo ferito a morte, probabilmente un ebreo come loro, ma girano al largo. Non vogliono toccare quell’uomo per motivi di “purità legale”.

Nel terzo atto il protagonista è un samaritano, che percorre la stessa strada. Vede l’uomo bisognoso, ma, a differenza dei primi due, è mosso da compassione, “gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino, poi, caricato sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui”.

La domanda finale di Gesù costringe il dottore della legge a prendere posizione: “Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”. La risposta dell’esperto della legge, che non osa chiamare il protagonista con l’appellativo “samaritano”, coglie il punto totale di tutto il racconto: “chi ha avuto compassione di lui”.

Il samaritano della parabola è Gesù stesso che “scende”, si abbassa, si china sull’umanità peccatrice, lasciata mezza morta dopo la colpa originale, e se ne fa carico, gli si fa prossimo. Il protagonista della parabola evangelica è Dio stesso che rivela il suo modo di agire attraverso le scelte di Gesù. Si tratta di “una buona notizia”, che Dio in Cristo si fa prossimo all’uomo.

Alla fine del colloquio col dottore della legge, Gesù precisa che cosa consiste l’amore: “va’ e anche tu fa lo stesso”, cioè anche tu diventa buon samaritano per il tuo prossimo. Non si tratta di trovare il prossimo qualcosa di fatto, e scaricarsi sopra un po’ di pietà o elemosina, ma di “farsi prossimo”, ossia avvicinare. Amare vuol dire, precisamente, abolire le distanze, spesso interiori.

Il samaritano non domanda chi è l’altro, di che paese, di che religione, di che partito. Davanti a Lui c’è semplicemente un povero che si trova in stato di necessità. L’avvicinamento è determinato da questo semplice connotato: un uomo senza qualificativi o titoli. L’unico qualificativo o titolo valido è il bisogno. “Va’ e anche tu fa lo stesso”. E’ molto significativo e suggestivo che Gesù usi due verbi che indicano rispettivamente il movimento(va’) e l’azione (fa). Il dottore della legge, che interroga Gesù, all’inizio dimostra soltanto di “voler sapere”. Alla fine, si ritrova con qualcosa da fare. Quindi Gesù esige da lui, come pure da noi, un sapere diverso. Cioè un sapere per amore.
Don Joseph Ndoum