Due personalità differenti e speculari furono accomunate da una missione comune: testimoniare la vita e l’insegnamento di Cristo. Il primo, San Pietro, fu scelto da Cristo per guidare gli apostoli e la nascente comunità cristiana. Divenne il Suo vicario e come tale fu il primo “Pontefice” della storia. Il secondo, San Paolo o Saulo di Tarso, non conobbe Gesù ma credette, ebbe fede e insegnò ai pagani e alle genti il suo messaggio. (...)
Santi Pietro e Paolo, le rocce della prima Chiesa
At 12,1-11; Sl 33; 2Tim 4,6-8.17-18; Mt 16,13-19
Due personalità differenti e speculari furono accomunate da una missione comune: testimoniare la vita e l’insegnamento di Cristo. Il primo, San Pietro, fu scelto da Cristo per guidare gli apostoli e la nascente comunità cristiana. Divenne il Suo vicario e come tale fu il primo “Pontefice” della storia. Il secondo, San Paolo o Saulo di Tarso, non conobbe Gesù ma credette, ebbe fede e insegnò ai pagani e alle genti il suo messaggio. Era un persecutore di cristiani fino a quando non rimase folgorato dalla Sua maestà e si convertì. Fu chiamato l’Apostolo delle Genti per la sua instancabile predicazione nelle vaste regioni dell’Impero Romano.
I santi Pietro e Paolo sono fra i santi più importanti del calendario cristiano e la loro devozione a Roma è particolarmente sentita. Da sempre vengono festeggiati nello stesso giorno, che ricorda il loro martirio. La loro morte avvenne a Roma fra il 64 e il 67 d.c. in seguito alle persecuzioni volute da Nerone.
La festa, o più esattamente la solennità, dei ss. Pietro e Paolo al 29 giugno, è una delle più antiche e più solenni dell’anno liturgico. Essa venne inserita nel messale ben prima della festa del Natale e vi era già nel secolo IV l’usanza di celebrare in questo giorno tre S. Messe: la prima nella basilica di S. Pietro in Vaticano, la seconda a S. Paolo fuori le mura e la terza nelle catacombe di S. Sebastiano, dove le reliquie dei due apostoli dovettero essere nascoste per qualche tempo, per sottrarle alle profanazioni barbariche.
Il giorno 29 giugno sembrerebbe essere la cristianizzazione di una ricorrenza pagana, che esaltava le figure di Romolo e Remo, i due mitici fondatori di Roma, come i due apostoli Pietro e Paolo sono considerati i fondatori della Roma cristiana.
La liturgia di oggi ci sollecita a riflettere sulla fedeltà e sulla testimonianza delle due colonne portanti della Chiesa.
Ci mostra Pietro con le chiavi del regno, primo e principe degli apostoli. Ascoltiamo la sua confessione che ormai ci appartiene come seguaci della stessa fede. Percepiamo con gioia l’origine della nostra appartenenza a Cristo, la fonte da cui abbiamo sorbito lo stesso credo, l’impegno che ci pone a nostra volta come testimoni. È anche il giorno della gratitudine a Dio, a Cristo Gesù e ai suoi apostoli, i fattori della Chiesa, nostra madre. Ci viene da ripercorrere la storia della Chiesa fino ai nostri giorni per rivivere un percorso dove le umane fragilità sono state come spente dalla forza dello Spirito. Siamo certi di poggiare ancora sulla roccia che è Cristo stesso e sulla Pietra che è il romano pontefice. Le porte degli inferi, anche quando hanno infierito con violenza contro di noi, non hanno prevalso. La promessa di Cristo si è realizzata in pienezza. La storia di Pietro, prima debole, spavaldo e pauroso, poi intrepido assertore della verità e martire come Cristo per testimoniare la propria fedeltà, è diventato sostanzialmente la storia della nostra Chiesa e di tanti cristiani.
È stato determinate in questo faticoso percorso l’apporto di Paolo, il convertito sulla via di Damasco, l’Apostolo delle genti. Egli per primo ha valicato i confini del mondo ebraico per rivolgere il messaggio della salvezza ai pagani, a tutti noi che da quel mondo proveniamo. La seconda lettura d’oggi risuona come un gioioso testamento che Paolo confida al suo amico e collaboratore Timoteo: “Io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione”.
Vedere sparso in offerta il proprio sangue è la suprema aspirazione dell’Apostolo, dopo le dure fatiche del suo intensissimo apostolato. Egli brama il martirio per essere totalmente assimilato a Cristo e dare così la suprema testimonianza di fedeltà e d’amore. Ambedue in modo diverso tracciano il cammino della Chiesa e di ciascuno di noi: anche noi deboli come Pietro, prima della Pentecoste, ma anche noi irrorati dallo stesso Spirito. Noi pure forse lontani coma Paolo, ma poi folgorati dalla grazia. Chi sa se anche noi siamo disposti e realmente pronti a dare la vita per Cristo?
Padri Silvestrini
Mt 16,13-19
«Ma voi chi dite che io sia?». Meno male che non c’ero quando fu rivolta questa domanda ai discepoli; mi sarei nascosto dietro al più alto o avrei urlato «Ultimo a rispondere!» nel tentativo di suscitare della simpatia in quel signore che aveva espresso la domanda. Il problema è che quel signore non ha mica fretta, aspetta anche l’ultimo, e infatti ho l’impressione che mi stia guardando. Da sempre.
Ma perché un tizio con una tonaca lunga fino ai piedi, sandali lerci e consunti, addirittura con i capelli lunghi vuol sapere da me chi è? Mi verrebbe da dire: «Se non lo sai tu! Scusami eh!». È da quando i miei genitori hanno fatto il presepe e io avevo 4 anni che cerco una risposta a quella domanda. Anzi all’inizio la ponevo io sistemando la statuina più piccola nella mangiatoia: «Mamma chi è quel bambino?», «Gesù bambino, è il Figlio di Dio!», «Ma no, il suo papà è Giuseppe e la sua mamma è Maria», protestavo io energicamente.
Come non essere confusi se fin da bambino arrivano delle indicazioni così oscure e contraddittorie? Poi, da più grandicelli, prima ci danno qualche infarinatura di biologia e fisiologia del corpo umano, poi, durante la lezione di storia dell’arte dove ci viene presentata l’Annunciazione del Beato Angelico, arriva la seconda botta. E fino alla fine dell’università ad arrovellarci con quel dubbio: sarà stato scientificamente possibile? E uno che salta fuori così, in quel modo, che francamente nessuno aveva mai sentito, quantomeno un pochino strano e particolare deve essere. Ma chi è?
Lo confesso, come tanti ho provato a leggere qualcosa, a informarmi, a consultare internet, i blog, i podcast, ovviamente ho provato a parlare con preti e suore, ma alla fine la risposta che più mi convince è quella della mia mamma il giorno del primo presepe, quando, con non poco imbarazzo e con esagerata dolcezza, disse di Gesù bambino: «È il Figlio di Dio!». La mia mamma non ha studiato filosofia, nemmeno teologia e credo non abbia mai letto un romanzo esistenzialista; ha fatto soltanto le scuole elementari, non credo che sapesse cosa fosse il Big Bang o la fisica quantistica, ma quel giorno mi ha risposto con tutta la sapienza che neanche un professorone di stirpe ha mai posseduto. «Mamma, ma davvero vuoi dirmi che quello è il Figlio di Dio, che Lui suo padre, Dio appunto, ha dovuto mandare sulla Terra suo Figlio e farlo vivere come noi? E tutto questo perché noi eravamo e siamo tuttora increduli che Dio esista?».
Sono sempre stato disposto a credere che Dio abbia messo le fondamenta della Terra, abbia fatto girare il nostro pianeta sullo stesso asse da miliardi di anni e che da sempre la primavera si sussegua all’inverno, che abbia inventato le stelle, l’aquila e la tigre, il frumento e il basilico da cui poi riusciamo a fare la pasta al pesto. Ma che avesse mandato suo Figlio!?!?
Quando mi permettevo di essere così dubbioso mia mamma diceva che Lui, suo papà, era infinitamente generoso e innamoratissimo di noi. E a quel punto la mia sicumera intellettuale si zittiva, non rimaneva e non rimane che inginocchiarsi per ringraziare: Gesù, io non sono il primo della classe come quel secchione di Pietro, lo sai che sono un ripetente; è che a volte ci si imbarazza di avere un amico come te. Scusami.
Giacomo Poretti – L’Osservatore Romano
L’essenziale: Gesù Cristo
Matteo 16,13-19
La geografia dello Spirito, quella che la liturgia della Parola di questa messa nella vigilia dei Ss. Pietro e Paolo ci consegna: il tempio, la strada di Damasco, il mare di Tiberiade. Luoghi diversi e distanti l’uno dall’altro, nei quali viene dischiusa una precisa immagine di Chiesa.
Nei pressi del tempio un uomo impossibilitato ad entrarvi e l’immagine suggestiva di Pietro che ridona allo storpio l’opportunità di riprendere il cammino. L’immagine di un Pietro figura di un preciso volto di Chiesa che non ha né argento né oro. Espressione che ci dà la giusta misura dell’avventura di Pietro e di Paolo e con loro dell’intera comunità cristiana consapevole di possedere solo Gesù Cristo, non già come un patrimonio su cui avanzare diritti di esclusiva ma come dono da condividere con ogni uomo sulla terra. Gesù Cristo, l’essenziale per Pietro, per Paolo, per la comunità dei discepoli. Gesù Cristo, non una dottrina, ma – come attesta la stessa etimologia del nome – l’essere introdotti nell’esperienza di un Dio che salva. Si configura così l’unica ricchezza di cui dispone la comunità dei discepoli: compiere l’opera stessa di Gesù di Nazaret il quale – attestano gli Atti – passò beneficando e sanando tutti coloro che erano prigionieri del male. Nessun potere umano ma quello di restituire speranza. Ecco quando possiamo rivendicare la prerogativa di essere discepoli: solo quando avvertiamo come urgente il compito e la passione di introdurre l’altro in una esperienza di vita.
Il gesto di Pietro nei confronti dello storpio è immagine dell’azione di una Chiesa che si approssima – si fa prossimo – a una umanità ferita, nei confronti della quale prolunga i gesti del suo Signore, mettendola nella condizione di camminare con le proprie gambe e offrendole la possibilità di entrare in comunione piena con Dio. Il paralitico guarito, infatti, scopre un accesso finora precluso: entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio (At 3,8). Pietro immagine di una Chiesa contenta della compagnia degli uomini. Quell’uomo escluso è ammesso nella compagnia di Pietro e Giovanni: con loro.
Sulla strada di Damasco viene delineata da Paolo, invece, un’altra immagine di Chiesa. Quella di una Chiesa consapevole di essere quello che era: ancorata alle tradizioni dei padri, a quel modo di intendere la vita, la fede secondo cui tutto, Dio compreso, è da meritare, da conquistare. Sulla via di Damasco, nell’esperienza di Paolo, si dischiude un nuovo modo di concepire la vita e la fede, un vangelo, appunto e per grazia si diventata partecipi di ciò di cui Dio ci fa dono. Testimoni di una misericordia che a nostra volta abbiamo ricevuto e di cui siamo costituiti debitori nei confronti dell’umanità. Una chiesa consapevole del dono ricevuto.
Sul lago di Tiberiade la pagina della fiducia restituita. A Pietro che per tre volte ha rinnegato il suo Signore e Maestro affermando solennemente: non sono!, per tre volte viene chiesto di esprimere il suo amore per Gesù. E Gesù lo fa anzitutto puntando alto: mi ami tu più di costoro? Del resto era stato lo stesso Pietro a proclamare un amore simile ancora tutto da passare alla prova degli eventi: anche se tutti ti abbandonassero io… E tuttavia, ora che i fatti registrano tutt’altro esito rispetto alla proclamazione, Pietro assume una misura umile: ti voglio bene. E così per due volte. La terza, è Gesù stesso ad assumere la misura di Pietro: mi vuoi bene? Tu sai tutto, risponde Pietro, tu sai… Un Dio che per farmi diventare ciò che sono chiamato ad essere mi prende per quello che sono.
Un amore che questa volta avrà la sua cartina di tornasole non nella dichiarazione di un affetto generico e vago ma nel prendersi cura di coloro che il Signore gli affida: i più piccoli. Se è vero che mi vuoi bene, prenditi cura dei miei piccoli. A Pietro non è consegnato un privilegio o un potere come un giorno forse avrebbe desiderato quando immaginava un Messia potente ma il compito di mettersi a servizio dei fratelli fino ad entrare in una disponibilità finora impensata.
Antonio Savone
Matteo 16,13-19
Riflessione di Enzo Bianchi
La solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo riunisce in un’unica celebrazione Pietro –il primo discepolo chiamato da Gesù nelle narrazioni dei vangeli sinottici, la roccia della chiesa – e Paolo, che non fu discepolo di Gesù, né fece parte del gruppo dei dodici, ma che è stato chiamato “l’Apostolo”, il missionario per eccellenza. Gli scritti del Nuovo Testamento non raccontano la loro fine, ma un’antica tradizione li vuole martiri, nella medesima città, Roma, e nello stesso giorno, vittime delle persecuzioni contro i cristiani: due vite offerte in libagione a causa di Gesù e del Vangelo. I due apostoli sono così accomunati nella celebrazione liturgica, dopo che le loro vicende terrene li hanno visti anche opporsi l’uno all’altro: una comunione vissuta nella parresia evangelica e, proprio per questo, non sempre facile, anzi, sovente faticosa.
Il bassorilievo in calcare conservato ad Aquileia, così come l’iconografia tradizionale che narra l’abbraccio tra i due, vuole esprimere proprio quella comunione a caro prezzo che garantì l’opera di ciascuno dei due come fondamento della chiesa di Roma, il luogo dove ebbe fine la loro corsa, il luogo che li vide entrambi martiri al tempo di Nerone, messi a morte per la stessa motivazione. Pietro è tra i primi chiamati da Gesù: un pescatore di Betsaida sul lago di Tiberiade, un uomo che certamente non diede molto spazio a una formazione intellettuale e che viveva la propria fede soprattutto grazie al culto sinagogale del sabato e poi, dopo la chiamata di Gesù, attraverso l’insegnamento di quel maestro che parlava come nessun altro prima di lui.
Uomo generoso, impulsivo, Pietro seguì Gesù rispondendo di slancio alla chiamata, restando tuttavia uomo incostante, facile preda della paura, capace persino di vigliaccheria, fino al misconoscimento di colui che seguiva come discepolo. Sempre vicino a Gesù, a volte appare come portavoce degli altri discepoli, in mezzo ai quali occupava una posizione preminente: non si potrebbe parlare delle vicende di Gesù senza menzionare Pietro, che per primo osò confessare audacemente la fede in Gesù quale Messia. I discepoli, come molti tra la folla, si chiedevano se Gesù fosse un profeta o addirittura “il” profeta degli ultimi tempi, se fosse il Messia, l’Unto del Signore: fu Pietro che, sollecitato da Gesù, fece una confessione di fede con parole che suonano diverse nei quattro vangeli ma che attestano tutte la sua priorità nel riconoscere la vera identità di Gesù.
Pietro fece questa confessione non come “portavoce” dei dodici, bensì mosso da una forza interiore, da una rivelazione (apokálypsis) che gli poteva venire solo da Dio. Credere che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio, non era possibile solo analizzando e interpretando l’eventuale compimento delle Scritture: è stato Dio stesso, il Padre che è nei cieli a rivelare a Pietro l’identità di Gesù (cf. Mt 16,17). Gesù ha così riconosciuto nel discepolo Simone una “roccia”, Kefa, una pietra sulla cui fede poteva trovare fondamento la comunità la chiesa.
Pietro, chiamato “beato” da Gesù, dichiarato roccia solida capace di confermare nella fede i fratelli, non sarà esente da errori, cadute, infedeltà al suo Signore. Subito dopo la confessione di fede che abbiamo ricordato, manifesterà il suo pensiero troppo mondano riguardo al cammino di passione di Gesù, al punto che questi lo chiamerà “Satana”, e alla fine della vicenda terrena di Gesù, Pietro per ben tre volte dichiarerà di non averlo mai conosciuto: paura e volontà di salvare se stesso lo porteranno a dichiarare con forza di “non conoscere” quel Gesù la cui conoscenza aveva ricevuto addirittura da Dio! Gesù, che lo aveva assicurato della preghiera affinché non venisse meno la sua fede, dopo la risurrezione lo riconfermerà al suo posto, chiedendogli però per tre volte di attestargli il suo amore: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?” (Gv 21,15.16.17).
Punto sul vivo da questa domanda di Gesù, Pietro diverrà l’apostolo di Gesù, il pastore delle sue pecore prima a Gerusalemme, poi presso le comunità giudaiche della Palestina, poi ad Antiochia e infine a Roma, dove a sua volta deporrà la vita sull’esempio del suo Signore e Maestro. E a Roma Pietro ritroverà anche Paolo: non sappiamo se nel quotidiano della testimonianza cristiana, ma certamente nel segno grande del martirio. Paolo, “l’altro”, l’apostolo differente, posto accanto a Pietro nella sua alterità, quasi a garantire fin dai primi passi che la chiesa cristiana è sempre plurale e si nutre di diversità. Giudeo della diaspora, originario di Tarso, capitale della Cilicia, salito a Gerusalemme per diventare scriba e rabbi al seguito di Gamaliele, uno dei più famosi maestri della tradizione rabbinica, Paolo era un fariseo, esperto e zelante della legge di Mosè, che non conobbe né Gesù né i suoi primi discepoli, ma che si distinse nell’opposizione e nella persecuzione verso il nascente movimento cristiano.
Sulla via di Damasco, però, avvenne anche per Paolo l’incontro con Gesù risorto, la conversione e la rivelazione, infatti, come confessa lo stesso Paolo, “la grazia si è compiaciuta di rivelare in me suo Figlio” (Gal 1,15-16). Paolo si definisce un “aborto” (cf. 1Cor 15,8) rispetto agli altri apostoli che avevano visto il Signore Gesù risorto, ma chiedeva di essere considerato inviato, servo, apostolo di Gesù Cristo al pari loro, perché aveva messo la sua vita a servizio del Vangelo, si era fatto imitatore di Cristo anche nelle sofferenze, si era prodigato in viaggi apostolici in tutto il Mediterraneo orientale, era abitato da una sollecitudine per tutte le chiese di Dio. La sua passione, la sua intelligenza, il suo impegno ad annunciare il Signore Gesù traspaiono da tutte le sue lettere e anche gli Atti degli apostoli ne danno sincera testimonianza. È lui, per sua stessa definizione, “l’apostolo delle genti” come Pietro è “l’apostolo dei circoncisi” (Gal 2,8).
Pietro e Paolo, entrambi discepoli e apostoli di Cristo, eppure così diversi: Pietro un povero pescatore, Paolo un rigoroso intellettuale; Pietro un giudeo palestinese di un oscuro villaggio, Paolo un ebreo della diaspora e cittadino romano; Pietro lento a capire e a operare di conseguenza, Paolo consumato dall’urgenza escatologica… Dice un prefazio gallico del VII secolo: “Pietro ha rinnegato per credere meglio, Paolo è stato accecato per vedere meglio… l’uno apre, l’altro fa entrare: entrambi ricevono il Regno eterno”. Sono stati apostoli con due stili differenti, hanno servito il Signore con modalità diversissime, hanno vissuto la chiesa in un modo a volte dialettico se non contrapposto, ma entrambi hanno cercato di seguire il Signore e la sua volontà e insieme, proprio grazie alle loro diversità, hanno saputo dare un volto alla missione cristiana e un fondamento alla chiesa di Roma che presiede nella carità.
Insieme allora è giusto celebrare la loro memoria, che è memoria di unità nella diversità, di vita consegnata per amore del Signore, di carità vissuta nell’attesa del ritorno di Cristo. L’iconografia li rappresenta stretti in un abbraccio oppure mentre sostengono l’unica chiesa che insieme hanno contribuito a edificare: una sinfonia che è memoria e profezia dell’unica comunione ecclesiale in cui Pietro deve abbracciare Paolo e Paolo deve abbracciare Pietro.