XVII Domenica del tempo ordinario (C): L’esperienza della paternità di Dio nella nostra vita

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I Vangeli raccontano che Gesù, il Maestro, al mattino quando era ancora buio si ritirava in luoghi deserti a pregare (cfr. Mc 1, 35), mostrandoci così l’immagine della preghiera come chiave per aprire la nostra giornata. In questo incontro offrendo al Signore, come pregava Ignazio di Loyola, la libertà, la memoria, l’intelletto e la volontà il discepolo, a imitazione del Maestro, pone la sua vita a servizio dell’annuncio del Regno.

L’esperienza della paternità di Dio nella nostra vita

La ricerca di una relazione con Dio da parte dell’uomo appartiene al genere umano fin dagli inizi dell’umanità. Da sempre l’uomo si è rivolto alla divinità per chiederne l’aiuto e il sostengo nelle difficoltà e nelle prove, per ringraziarlo dei doni ricevuti o per implorarne il perdono dopo avere commesso degli errori. Perché, dunque, i discepoli chiedono a Gesù «insegnaci a pregare», se la preghiera è parte costitutiva dell’identità umana? La risposta è nella prima invocazione di Gesù: Padre. Infatti, la preghiera per noi discepoli è uno spazio per riscoprire la nostra vera identità, quella di essere figli di Dio, e così affrontare la vita non come vagabondi ma come viandanti, non come spettatori passivi della storia ma come protagonisti, non come peccatori disperati ma come figli perdonati cui è sempre restituita la loro dignità.

La parola Padre è lo spazio in cui è contenuta la nostra esistenza. Pronunciare “Padre” significa ricordarsi che non siamo né frutto del caso né che la nostra vita è in balia di forze misteriose, ma che la nostra vita è il frutto di un amore viscerale e fedele — questo è il significato della parola misericordia — che guida con sapienza la nostra vita e che ci manifesta la sua volontà attraverso il Figlio. Dio, infatti, è Logos e come disse Papa Benedetto XVI «Logos significa insieme ragione e parola — una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione».

I Vangeli raccontano che Gesù, il Maestro, al mattino quando era ancora buio si ritirava in luoghi deserti a pregare (cfr. Mc 1, 35), mostrandoci così l’immagine della preghiera come chiave per aprire la nostra giornata. In questo incontro offrendo al Signore, come pregava Ignazio di Loyola, la libertà, la memoria, l’intelletto e la volontà il discepolo, a imitazione del Maestro, pone la sua vita a servizio dell’annuncio del Regno.

È vero, però, che Gesù passava anche la notte in preghiera (cfr. Lc 6, 12) dando così l’idea che la preghiera costituisca anche il chiavistello con cui si chiude la nostra giornata. Nella preghiera della sera si consegna il giorno vissuto all’amore del Padre, perché sia lui a far fruttificare i semi di bene seminati nei solchi del giorno, come prega la liturgia, cancelli le colpe commesse dalla nostra fragilità, chiedendogli luce per comprendere a sua volta.

Per questo Papa Francesco ha detto: «Dio vuole che i suoi figli gli parlino senza paura, direttamente chiamandolo “Padre”; o nelle difficoltà dicendo: “Ma Signore, cosa mi hai fatto?”. Per questo gli possiamo raccontare tutto, anche le cose che nella nostra vita rimangono distorte e incomprensibili».

La richiesta dei discepoli in quel giorno ormai lontano nel tempo non era quella di avere una formula ma qualcosa di più profondo ed essenziale per la vita, perché la preghiera in fondo è proprio questo: non solo parole che salgono al cielo, ma l’esperienza della paternità di Dio nella nostra vita.
[Nicola Filippi – L’Osservatore Romano]

Il catechismo di Gesù sulla preghiera

Gen 18,20-32; Salmo 137; Col 2,12-14; Lc 11,1-13

La lettura del libro della Genesi e la pagina del Vangelo di Luca sono al centro dell’annuncio di questa domenica. Ci rivelano il volto misericordioso e amante di Dio ,come pure il Suo volto paterno.. questa rivelazione viene appresa nel contesto della preghiera. Nel brano della Genesi, questa rivelazione emerge in modo acuto nel dialogo tra Dio ed Abramo, sul destino di Sodomia e Gomorra. Il grido contro queste due città è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Dio vuole scendere e vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a Lui: Dio, giudica giusto, non giudica per sentito dire, ma vuole fare l’indagine personale.

Questa concezione popolare di Dio, anche se va contro l’attributo della sua onniscienza, offre la cornice adatta per il colloquio con Abramo. Abramo pone a Dio la domanda cruciale sulla giustizia: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio?”, cioè l’innocente con il reo. Il padre dei credenti parte dal principio che, in una comunità di malvagi, vi possa essere una minoranza di persone buone. Dio, se è giusto, non può fare perire tutti insieme, anzi, Dio potrebbe risparmiare l’intera comunità grazie alla presenza di questi giusti, così che i giusti non siano trattati come gli empi. Nella sua intercessione, Abramo parte da cinquanta giusti fino a dieci, questo numero minimo per fare una comunità.

Ogni volta Dio dichiara di voler risparmiare la città per riguardo della minoranza dei giusti che vi si trovano. La fonte e il garante di ogni giustizia non può condannare il giusto assieme all’empio. In questo caso, è preferibile sospendere la sanzione collettiva, per rispettare proprio il principio della giustizia divina. Sappiamo come va a finire la storia di queste due città malvagie ed empie :sono state travolte nella catastrofe. Tuttavia il principio della giustizia nel giudizio di Dio è stato rispettato, perché il giusto Lot, con la sua famiglia, è stato salvato. Questo volto della giustizia di Dio corrisponde alla sua misericordia .

Nel brano evangelico, uno dei discepoli di Gesù gli dice: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli.” Prima di tutto. Bisogna ricordare che Gesù ha insegnato a pregare ai suoi discepoli col suo esempio. Il Terzo vangelo riporta almeno sette momenti di preghiera che scandiscono le scelte di Gesù. Anche l’insegnamento del “Padre nostro” è preceduto dalla preghiera solitaria del maestro. Questa preghiera comporta due parti essenziali: la prima riguarda Dio (“sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno”); la seconda riguarda l’uomo, con tre domande (“Dacci il nostro pane quotidiano, perdona le nostre colpe, e non indurci in tentazione”). La differenza di questo “Padre nostro” lucano, rispetto a quello di Matteo, è una maggiore essenzialità, poiché la preghiera dei discepoli di Gesù, prima di essere una formula da recitare, dovrebbe essere una relazione da vivere. Essi stanno davanti a Dio con l’attitudine di figli che possono chiamarlo ”Padre”. E’ così che Gesù pregava, e i sentimenti che Egli esprime sono quelli che aveva nei confronti del Padre, tranne per quanto riguarda la domanda sul perdono dei peccati.

Per illustrare la relazione vitale con Dio, che è la sostanza della preghiera o l’attitudine di fondo rispetto alle parole da dire, Gesù propone due piccole parabole: La parabola dell’amico importuno e analogamente quella del figlio che chiede qualcosa da mangiare al padre.

L’applicazione della prima (quella dell’amico importuno) raccomanda la preghiera fiduciosa, insistente, perfino testarda. Dio è molto più disponibile di qualsiasi amico. Anche nella seconda parabola, l’accento è posto sulla fiducia che deve sostenere qualsiasi preghiera. “Chiedete e vi sarà dato…”. Come conciliare questa assicurazione dell’esaudimento certo della preghiera con l’esperienza quasi quotidiana che sembra smentire questa promessa? Infatti la nostra preghiera raggiunge e tocca sempre Dio. E poi Dio interviene sempre, anche se non sempre “quando” e “come“ vorremmo noi. Dio potrebbe far sparire gli ostacoli che ingombrano il nostro cammino, oppure può lasciare le cose come sono, almeno nell’apparenza, per mettersi in strada con noi, disposto a condividere gli stessi rischi. Rimangono gli stessi, ma sei tu che non sei più lo stesso, sei diverso se hai pregato; la tua forza non è più soltanto la tua forza: pregando hai ricevuto un supplemento di forza e di capacità. Non è quindi il caso di lamentarsi perché Dio non ci ha concesso quelle determinate grazie. In realtà abbiamo ottenuto immensamente di più: non delle cose, ma lui stesso, la sua presenza. Non sorprende allora la promessa del dono dello Spirito Santo. Il Signore non ci dà le cose inutili o pericolose, ma le cose in rapporto con i beni spirituali e con la nostra salvezza. Pregare non significa, quindi, imporre a Dio la nostra volontà, ma domandargli di renderci disponibili al suo disegno di salvezza, e di renderci veri figli.
Don Joseph Ndoum

Non ci abbandonare alla tentazione

Cambiano le parole, non cambia il senso del Padre Nostro. La nuova traduzione, approvata dalla Conferenza episcopale italiana (Cei), sostituisce la frase «non ci indurre in tentazione» con un’altra espressione: «Non ci abbandonare alla tentazione». Un cambio di formula che trova senso più che nell’evoluzione della lingua italiana, nell’aderenza al concetto che si vuole esprimere in quel passo della preghiera. È vero, l’italiano è una lingua dinamica. Che cambia nel tempo in funzione degli usi comuni che vengono codificati. Ma in realtà il problema è storico e concettuale.

L’espressione «non ci indurre in tentazione» ci mette a disagio. Perché nel nostro sentire comune pensiamo a Dio come a colui che ci soccorre e ci sostiene nelle tentazioni, come un padre che sostiene nelle cadute i propri figli, non come colui che le provoca. Un dato di fatto è che una traduzione perfetta non esiste, perché ogni traduzione è una interpretazione. Quella che conta è piuttosto l’intenzione che conserviamo, mentre recitiamo quelle formule. È per questo motivo che il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, ha assicurato che «va in paradiso anche la vecchina che recitava il Padre Nostro dicendo “non ci indurre in tentazione”».
Filippo Passantino

Lectio sul Vangelo di Luca 11,1-13

La liturgia di questa domenica ci propone un testo che si può facilmente dividere in tre parti:

– la prima va dal v.1 al v.4
– la seconda dal v.5 al v.8
– la terza dal v.9 al v.13

La prima parte è la grande preghiera del Signore, ma ciò che vogliamo sottolineare in primo luogo è l’introduzione di questa preghiera. Anche Matteo fa precedere un’introduzione alla stessa preghiera e forse dobbiamo sommare insieme le due introduzioni di Luca e Matteo per ricreare l’atmosfera in cui, secondo gli evangelisti, Gesù avrebbe insegnato a pregare.

Ovviamente c’è l’esempio di Gesù come punto di partenza. Luca fa riferimento in modo esplicito a questi momenti particolari di preghiera. Gesù si assenta spesso dal gruppo e, come ha fatto da piccolo quando si è assentato dalla sorveglianza dei genitori, Gesù si assenta dalla folla, si ritira sulla montagna e resta in preghiera. Gesù in Luca passa così spesso la notte in preghiera che quest’ultima ritma di fatto i momenti più importanti della vita stessa di Gesù. Quando deve compiere delle scelte determinanti per la propria vita e per la vita degli altri, Gesù fa sempre precedere queste sue scelte da una notte di preghiera o da un momento intensificato di rapporto con il Padre, fino all’ultima preghiera – la preghiera del Getsemani – in cui Gesù viene reso forte dal Padre, per poter sostenere l’ultima battaglia contro il tentatore.

La preghiera dei discepoli nasce dunque anzitutto dall’esempio di Gesù. La comunità, in quanto comunità di credenti, si pone soprattutto, sull’esempio di Gesù, come comunità orante e così diventa anche provocatoria e genera l’interrogativo: come pregare? Come incontrarsi e dialogare con Dio? Una richiesta di insegnamento, una richiesta di evangelizzazione.

Forse la richiesta dei discepoli nasce anche dal desiderio di rispondere a coloro che li sollecitavano ad avere un proprio patrimonio di prassi e di parole di preghiera

Le introduzioni di Luca e Matteo ci permettono di cogliere la novità qualitativa della preghiera di coloro che hanno di fronte a sé l’esempio di Gesù di Nazaret, riconosciuto Cristo e confessato Signore. Ed è la preghiera di colui che sintetizza tutto nella semplice espressione “Pater”, “Abba”, “Padre”.

In quel “Padre”, c’è tutto l’atteggiamento esistenziale del Figlio, nel momento stesso in cui si affida al Padre. Riconoscendo Dio come Padre, egli definisce e pone se stesso nell’atteggiamento del Figlio. E quindi, come colui che tutto riceve dal Padre, egli si sente interamente “dono” del Padre e lo ringrazia, per questo, nell’amplesso ineffabile dello Spirito Santo.

L’invocazione “Padre!” è dunque anzitutto un’invocazione di riconoscenza che nasce dall’aver constatato la propria situazione di Figlio.

“Abba!” è l’esplicitazione di una figliolanza che è propria di Gesù di Nazaret il quale è per natura Figlio di Dio; ma ciò che era proprio di Gesù è divenuto proprio di tutti coloro che sono stati battezzati; in lui tutti abbiamo ormai il diritto di essere, e perciò di sentirci e comportarci come figli.

La prima richiesta è:

Sia santificato il tuo nome”.

Questo congiuntivo esortativo indica l’atteggiamento umile del credente, quasi volesse dire: non sono in grado, io, di dichiarare santo il tuo nome, perché il tuo nome è già stato dichiarato santo attraverso le tue opere. Infatti chi può “santificare” o “dichiarare santo se non Dio stesso?

Venga allora la tua regalità:

Venga il tuo regno”.

Si diffonda nel mondo la regalità di un Dio che si prende cura dell’uomo, non lo abbandona, ma dimostra con i fatti che non sono la morte e la corruzione l’ultima parola per la creatura, ma la vita e l’immortalità.

Si espanda dunque questa tua regalità sul mondo. E’ un augurio sul mondo, ma un augurio che riguarda anche le persone che pregano, quasi volessero dire: Noi siamo i tuoi servi, ma tu fa che dentro di noi possa regnare tu solo e nessun altro, perché tu sei l’unico capace di estrarre la vita dalla morte, come hai liberato Israele tuo popolo dall’Egitto, come hai liberato Gesù tuo figlio dai legami della morte, come hai liberato le genti dall’idolatria.

Luca è molto più sintetico di Matteo, probabilmente perché è un uomo più capace, dal punto di vista letterario, ma forse anche perché ha intuito che in queste semplici espressioni

Padre,

sia santificato il tuo nome,

venga il tuo regno

c’è già tutto.

Eccoci alla seconda parte della preghiera insegnata da Gesù:

Dacci ogni giorno il nostro pane…”

Donaci il pane che dà sostanza, quello che ci fortifica al punto che noi possiamo avere forze sufficienti per arrivare a domani. Questo pane è certamente Gesù anche se in questa richiesta vi è un implicito ed evidente riferimento alla manna del deserto. Dunque abbiamo bisogno giorno dopo giorno di ricevere dal Padre il dono del pane, quello composto di acqua lievito e farina, ma anche il dono di Gesù, pane rivelato a Betlemme e preannunziato dalla manna ricevuta dai padri nel deserto.

E’ la presenza di questo pane in noi che ci dà la possibilità di scoprire la necessità di una coerenza fra le cose e i rapporti che si stabiliscono sulla terra e quelle che si verificano in cielo.

Un esempio concreto di questa necessaria coerenza lo abbiamo subito nella richiesta della remissione del nostro peccato.

Perdona a noi i nostri peccati

Luca, più chiaro di Matteo, non parla di “debiti”, ma di “peccati”. Sembra voglia suggerire un collegamento particolare. E cioè che la presenza del pane, la presenza di colui che è il pane, crea in noi anche la disponibilità al perdono, permettendoci di chiedere perdono al Padre. Il dono del pane, segno di riconciliazione e di condivisione, dà inizio ad un movimento che, partendo dal Padre, provoca, nel medesimo istante in cui apre il cuore alla confidenza filiale, la consapevolezza di un’apertura altrettanto fiduciosa verso i fratelli. Ci rendiamo così conto che non possiamo avere due pesi e due misure: uno quando siamo noi a chiedere perdono e un altro quando siamo noi a dover perdonare. Nasce così l’impegno a un comportamento che noi definiamo cristiano.

L’ultima invocazione dice

Non abbandonarci alla tentazione

In questa invocazione è implicita la consapevolezza della propria fragilità. La vita è una continua tentazione, ma si può resistere e vincere nella misura in cui abbiamo il pane sostanzioso e sostanziale. Nella richiesta del pane c’è quindi anche la richiesta di essere fortificati.

E’ commovente sottolineare che perfino Gesù, nel Getsemani, è dentro questa situazione di debolezza, di fragilità, e ha bisogno della forza che viene dal Padre per poter sostenere la lotta e vincere la tentazione. Un’indicazione per noi: se lui ha chiesto la forza che viene dall’alto, quanto più dobbiamo chiederlo noi il pane che viene dal Signore, il pane che è il Signore.

Prendiamo ora in esame la parabola dell’amico importuno che è necessario contestualizzare all’interno del mondo palestinese del tempo di Gesù, dove i rapporti umani sono importanti, dove l’amicizia è uno degli elementi fondanti della società e dove altrettanto importante è l’esercizio dell’ospitalità.

Arriva un amico a mezzanotte e chiede tre pani perché è arrivato un altro amico e non ha cosa mettergli davanti. Il pane da mettere davanti all’ospite non può essere un rimasuglio, deve essere abbondante, questo indica il numero tre.

L’amico è importuno perché viene a mezzanotte. La notte è pero anche il tempo in cui più alta è la necessità del viandante, del pellegrino. E’ un momento pericoloso anche per il padrone di casa, infatti solo se l’amore è veramente grande e l’amicizia intensa si apre la porta a qualcuno a mezzanotte. Ed è partendo da questa generosità personale che ci si aspetta che anche l’amico importunato si comporti allo stesso modo. Ci si aspetta che la fiducia dimostrata all’amico viandante provochi, con la forza dell’esempio anche l’amico importunato.

Luca sembra quasi divertirsi nel descrivere un Dio duro di cuore perché vuole insistere sulla necessità della richiesta ripetuta. Ci dà anche un’altra indicazione: l’esortazione a rapportarci con Dio con la stessa fiducia ma anche con la stessa ingenuità dei bambini. Soltanto un bambino è talmente ingenuo da non capire che certe cose in certi momenti non dovrebbe chiederle o farle.

Sveglia la mamma di notte, sicuro che lei risponderà. Dio è disponibile come quella mamma.

L’ultima parte della nostra pagina non fa altro che sottolineare questa dimensione paterna e materna di Dio che la parabola aveva già fatto intravedere. Ci sono simboli, che vogliono evidenziare una corretta visione delle cose da chiedere a Dio, perché Dio non dà né ciò che è inutile né ciò che è nocivo all’uomo; e dunque non dobbiamo scandalizzarci se noi chiediamo qualche cosa e poi non la otteniamo. Dobbiamo semmai chiederci se ciò che abbiamo chiesto a Dio era davvero utile e importante, o non, invece, stupido e dannoso.

Dunque se chiedete correttamente, se chiedete il bene, se chiedete la vita, certamente la otterrete:

Io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarò aperto

Sono tutti passivi divini “vi sarà dato”, “vi sarà aperto”. Da chi? Dal Padre.

L’apertura della porta è sicura perché solo apparentemente l’interlocutore è duro di cuore.

Ecco ora la bellissima parabola del rapporto tra padre e figlio:

Chi di voi se un figlio gli chiede un pesce gli darà una serpe

Il senso è chiaro. Se Dio viene riconosciuto come Padre e voi vi rapportate a lui da figli che chiedono al Padre, potete mai pensare che Dio non si comporti come si comporterebbe qualsiasi padre di questo mondo?

O se gli chiede un uovo gli darà uno scorpione?”

La sottolineatura di Luca è proprio su questa necessità di chiedere ciò che è utile per la vita, chiedere il pesce chiedere la vita nuova.

Sono due riferimenti molto antichi, simbolici. Il termine pesce (ichys in greco) nella tradizione cristiana successiva, sarà indicato come termine sintetico della definizione stessa di Gesù: Gesù, Figlio di Dio, Salvatore. Il simbolo dell’uovo è altrettanto pregnante di significati. Richiama la prima generazione del mondo. Anche adesso noi simbolizziamo nell’uovo la nascita della nuova vita.

La sintesi di tutti i beni da chiedere è il dono dello Spirito Santo

“Se dunque voi cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli…”

Cioè voi non date senza discernimento, e vorreste che il Padre del cielo fosse meno prudente di voi?

Qui sta anche l’invito a capire bene che cosa intende Gesù quando promette l’esaudimento da parte del Padre.

Se vogliamo davvero ottenere quel che chiediamo non ci resta che chiedere la cosa buona per eccellenza: lo Spirito Santo. E saremo esauditi. Luca aggiunge fra le righe che lo Spirito Santo viene concesso solo a chi chiedendolo ammette di averne bisogno. Dio non impone mai un dono, lo propone, ma lo dà soltanto a chi lo chiede con cuore sincero.

Dai ‘Padri’ della Chiesa

La coscienza del dono ricevuto

Anzitutto – dice Cristo – bisogna che voi sappiate chi siete stati e chi siete diventati, cioè che conosciate la grandezza del dono ricevuto da Dio. Poiché sono state fatte per voi grandi cose, molto più grandi che per quelli che sono vissuti prima di voi. Ciò che io stesso faccio per coloro che credono in me e che sono divenuti miei discepoli per elezione, in verità il mette molto al di sopra dei discepoli di Mosè. Se infatti è vero che la prima Alleanza fatta sul Monte Sinai genera per la schiavitù, allora anch`essa è schiava e genera schiavi (cf. Gal 4,24s). Erano infatti schiavi tutti quelli soggetti ai comandamenti: questi regolavano la loro condotta; e la pena di morte, alla quale nessuno poteva sfuggire, era diretta contro tutti quelli che violavano i comandamenti.

Ma voi, grazie a me, avete ricevuto il dono dello Spirito Santo; esso vi ha fatti diventare figli adottivi e così potete chiamare Dio Padre vostro. Infatti, non avete ricevuto lo Spirito per ricadere nella schiavitù e nella paura; ma lo spirito di adozione a figli, grazie al quale nella libertà chiamate Dio Padre (cf.Rm 8,15). Adesso, voi servite in Gerusalemme con orgoglio e avete quella libertà che spetta a coloro che la risurrezione rende liberi ed immutabili, e partecipi della vita celeste già in questo mondo.

Dunque, poiché c`è questa differenza tra voi e quelli che sono soggetti alla Legge – se è vero che la lettera della Legge uccide e condanna coloro che la violano ad una morte inevitabile, lo spirito invece vivificato dalla grazia fa sì che mediante la risurrezione diventiate immortali e immutabili – sarebbe bene che voi anzitutto sapeste mantenere costumi degni di tale nobile condizione; infatti, solo quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio sono figli di Dio, quelli invece che sono soggetti alla Legge, hanno soltanto il nome comune di figli. Ho detto: “Siete dèi e figli dell`Altissimo” (Sal 81,6s), ma come uomini morirete. Perciò, coloro che hanno ricevuto lo Spirito Santo e che quindi aspettano l`immortalità, devono vivere dello Spirito, vivere secondo lo Spirito e avere la coscienza degna di coloro che lo Spirito guida, cioè tenersi lontani dal peccato, avere costumi conformi alla vita divina. In caso contrario, non sarò con voi quando invocherete il nostro Signore e Dio.

Bisogna naturalmente che sappiate che Dio è Signore e Creatore di tutte le cose e dunque anche di voi; infatti, è grazie a lui che godete molti beni. Eppure, chiamatelo Padre affinché, una volta compresa la vostra nobile condizione, la vostra dignità e la vostra grandezza di figli del Signore di tutte le cose e vostro Signore, possiate agire in armonia con queste verità.

Non dite, allora: «Padre mio», ma: «Padre nostro». Egli è infatti Padre di tutti come la grazia, mediante la quale siamo diventati suoi figli adottivi. Perciò, non vogliate solo agire degnamente verso il Padre, ma vivete anche in buona armonia con i vostri fratelli, che sono nelle mani dello stesso Padre.
(Teodoro di Mopsuestia, Hom. Catech., 11, 7-9)

L`amico importuno

Se uno di voi ha un amico e lo va a trovare a mezzanotte e gli dice: Amico prestami tre pani… (Lc 11,5).

Ecco un altro precetto affinché innalziamo preghiere ogni momento, non solo di giorno ma anche di notte. Vedi infatti che quest`uomo, che è andato a mezzanotte per chiedere tre pani al suo amico, insistendo nella sua richiesta, non prega invano.

Cosa sono questi tre pani, se non l`alimento del mistero celeste? ché se tu ami il Signore Dio tuo, ne potrai ottenere non solo per te, ma anche per gli altri.

E chi è amico nostro più di colui che per noi ha dato il suo corpo?

A lui, nel mezzo della notte, David domandò dei pani e li ottenne; domandava infatti quando dicevaNel mezzo della notte mi alzai per lodarti” (Sal 118,62). Meritò così di ottenere quei pani che ha posti davanti a noi da mangiare. Egli ha chiesto quando ha detto: “Bagnerò ogni notte il mio letto” (Sal 6,7); e non ha avuto timore di svegliare dal sonno colui che egli sa sempre all`opera vigilante.

Memori perciò delle Scritture, giorno e notte con la preghiera chiediamo insistentemente il perdono per i nostri peccati. Se infatti quel sì grande santo, che era preso dalle cure del regno, rivolgeva sette volte al giorno la sua lode al Signore (cf. Sal 118,164), sempre intento ai sacrifici del mattino e della sera, che cosa dobbiamo fare noi? Non dobbiamo chiedere con tanta maggiore insistenza, in quanto molto più frequentemente cadiamo per la fragilità del corpo e dell`anima, affinché, stanchi del cammino e affaticati per il corso di questo mondo e per la tortuosità di questa vita, non ci manchi per il nostro ristoro il pane che fortifica il cuore dell`uomo?

E non soltanto nel mezzo della notte, ma quasi a ogni istante il Signore ci raccomanda di vegliare; viene egli la sera, e alla seconda e alla terza veglia, ed è solito bussare. Perciò “beati quei servi che il padrone, quando verrà, troverà vigilanti” (Lc 12,37). Se dunque tu desideri che la potenza di Dio si cinga e ti serva (cf. Lc 12,37), devi sempre vegliare; siamo infatti circondati di tranelli e pesante è il sonno del corpo, e se l`anima si mette a dormire perderà il vigore della sua forza.

Riscuotiti dunque dal tuo sonno onde bussare alla porta di Cristo, che anche Paolo chiese gli fosse aperta; egli, non contento delle sue preghiere, supplicò che l`assistessero anche quelle del popolo, affinché gli fosse aperta la porta per parlare del mistero di Cristo (cf. Col 4,3).

E forse è proprio questa la porta che Giovanni vide aperta; vide infatti e disse: “Dopo di ciò vidi, ed ecco una porta aperta in cielo e la voce che avevo udito prima mi parlava come una tromba e diceva: Sali fin qui e ti mostrerò ciò che deve accadere” (Ap 4,1). La porta si è dunque aperta a Giovanni, si è aperta a Paolo, per poter ricevere per noi i pani da mangiare. Paolo ha perseverato nel bussare alla porta, in modo opportuno e importuno (cf.2Tm 4,2), allo scopo di rianimare i Gentili, affaticati e stanchi dalla fatica del cammino nel mondo, con l`abbondanza del nutrimento celeste.

Questo passo ci dà dunque il precetto di pregare di frequente, ci dà la speranza di ottenere e l`arte di persuadere: prima esponendo il precetto stesso, e poi fornendoci un esempio. Colui infatti che promette una cosa, deve dare la speranza della promessa, in modo che si presti obbedienza all`avvertimento e fede nella promessa: questa fede, sull`esempio della bontà umana, acquista a più forte ragione la speranza della bontà eterna, sempreché siano giuste le cose che si chiedono per evitare che la preghiera divenga peccato (cf. Sal 108,7).

Paolo poi non si è vergognato di chiedere più volte la stessa cosa, per non sembrare o poco fiducioso nella misericordia del Signore, o orgogliosamente impermalito per non averla ottenuta con la preghiera. “Per questo” – egli dice – “tre volte pregai il Signore” (2Cor 12,8); e ci indica così che spesso Dio non ci accorda ciò di cui lo preghiamo, perché giudica inutile quanto invece noi riteniamo esserci vantaggioso.
(Ambrogio, In Luc., 7, 87-90)

Benedetto XVI

Il Vangelo di questa domenica ci presenta Gesù raccolto in preghiera, un po’ appartato dai suoi discepoli. Quando ebbe finito, uno di loro gli disse: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1). Gesù non fece obiezioni, non parlò di formule strane o esoteriche, ma con molta semplicità disse: “Quando pregate, dite: «Padre…»”, e insegnò il Padre Nostro (cfr Lc 11,2-4), traendolo dalla sua stessa preghiera, con cui si rivolgeva a Dio, suo Padre. San Luca ci tramanda il Padre Nostro in una forma più breve rispetto a quella del Vangelo di san Matteo, che è entrata nell’uso comune. Siamo di fronte alle prime parole della Sacra Scrittura che apprendiamo fin da bambini. Esse si imprimono nella memoria, plasmano la nostra vita, ci accompagnano fino all’ultimo respiro. Esse svelano che “noi non siamo già in modo compiuto figli di Dio, ma dobbiamo diventarlo ed esserlo sempre di più mediante una nostra sempre più profonda comunione con Gesù. Essere figli diventa l’equivalente di seguire Cristo” (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano 2007, p. 168).

Questa preghiera accoglie ed esprime anche le umane necessità materiali e spirituali: “Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati” (Lc 11,3-4). E proprio a causa dei bisogni e delle difficoltà di ogni giorno, Gesù esorta con forza: “Io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto” (Lc 11,9-10). Non è un domandare per soddisfare le proprie voglie, quanto piuttosto per tenere desta l’amicizia con Dio, il quale – dice sempre il Vangelo – “darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!” (Lc 11,13). Lo hanno sperimentato gli antichi “padri del deserto” e i contemplativi di tutti i tempi, divenuti, a motivo della preghiera, amici di Dio, come Abramo, che implorò il Signore di risparmiare i pochi giusti dallo stermino della città di Sòdoma (cfr Gen 18,23-32). Santa Teresa d’Avila invitava le sue consorelle dicendo: “Dobbiamo supplicare Dio che ci liberi da ogni pericolo per sempre e ci tolga da ogni male. E per quanto imperfetto sia il nostro desiderio, sforziamoci di insistere in questa richiesta. Che ci costa chiedere molto, visto che ci rivolgiamo all’Onnipotente?» (Cammino, 60 (34), 4, in Opere complete, Milano 1998, p. 846). Ogniqualvolta recitiamo il Padre Nostro, la nostra voce s’intreccia con quella della Chiesa, perché chi prega non è mai solo. “Ogni fedele dovrà cercare e potrà trovare nella verità e ricchezza della preghiera cristiana, insegnata dalla Chiesa, la propria via, il proprio modo di preghiera… si lascerà quindi condurre… dallo Spirito Santo, il quale lo guida, attraverso Cristo, al Padre» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Alcuni aspetti della meditazione cristiana, 15 ottobre 1989, 29: AAS 82 [1990], 378).
(Papa Benedetto XVI,
Angelus del 25 luglio 2010)

Più in alto

(Luca 11, 1-13)

All’eterno dal tempo. In questa direzione si muovono i secoli. Trascinati dalla forza inarrestabile della preghiera. Al centro della Trinità c’è il volto di un uomo. La nostra effige, dice Dante. Al centro della storia quel volto ha i tratti di un uomo che prega. Un homo orans. Un figlio, il Figlio, che connette gli istanti all’eternità del Padre. E li riempie dell’amore trasformante dello Spirito. Per riportarli all’eterno, da dove erano venuti. Dal tempo, dove erano stati inviati. Per seminare vita.

Paternità ed eternità. È strano, ma in fondo sono sinonimi. Perché chi genera dà la vita. E la vita non muore mai. «La generazione fisica, corporale si lega alla generazione all’eterno», svela Rondoni, un poeta dei nostri giorni. Per questo, quando l’umanità, arsa dal desiderio, chiede: «Insegnaci a pregare», l’eternità non può che rispondere: «Padre». Eterna generazione di Bene. Che sei nelle viscere più intime della carne. Negli abissi più luminosi del cielo. Padre. E il corpo, il tempo si scopre eterno. E si fa preghiera.

Il corpo, il tempo. Il nome, il regno, il pane. Perché il nome del Padre è il nome del figlio. Il Suo regno la sua eredità, il pane il suo nutrimento, il perdono la sua suprema libertà. La Sua protezione il braccio potente che lo accompagna nel cammino attraversato dal male. Cose nuove e cose antiche. Cose umane e cose divine. Che ci dicono il tutto dal frammento. L’eterno dal tempo. E danno luce. Significato stabile e definitivo anche alle innumerevoli paternità ferite di cui sanguina il mondo. Dolorose ferite “da padre”. Pietre, serpenti e scorpioni, che schiacciano, stringono, trafiggono e avvelenano i cuori. Ma non hanno nulla di eterno. Perché nelle mani di chi guarda all’eterno ridiventano pani, pesci, uova. Alimenti straordinariamente nutrienti per dar da mangiare al mondo. Nelle mani di chi ha il coraggio di cercare e di chiedere: “Insegnaci a pregare”. E sente nelle viscere della sua storia e nel misterioso abisso del cuore di Dio risuonare la stessa, radicale risposta: Padre.

Impronta di vita eterna, incisa nella carne e nello spirito di ogni uomo dal tocco misterioso della creazione. Vincolo ancestrale che ci lega corpo e anima al Paradiso. Sommo e profondo bene dell’esistenza, del semplicemente esserci. Attraverso il quale, da qualsiasi abisso, si può risalire alla pienezza della gioia senza fine.

È malata la paternità del mondo. Eppure è salvata e redenta. Perché se voi che siete cattivi, sapete dare la vita ai vostri figli, è un segno sicuro e una promessa già mantenuta: c’è un Padre che accende d’amore ogni vita. E restituisce ogni esistenza da lui voluta, pensata, creata a un’altra vita. La sua. Perfetta, felice, senza fine. È scritta nella vita mortale la promessa dell’immortalità. Nascono dall’amore ferito dell’uomo i figli amati dal Padre. Ma la vita è il sigillo dell’eternità. E nella scintilla primordiale dell’esistenza c’è tutta la luce per vedere l’Amore che l’ha generata, tutta la forza per ardere di Lui. E anche la radice del più intimo dei desideri: “Insegnaci a pregare”. Insegnaci a rendere eterna la nostra umanità. A riconoscerci figli amati. Che glorificano il nome del Padre e ricevono un’identità nuova. Chiedono un regno e vengono accolti nella Gerusalemme celeste. Domandano il pane e ottengono cibo che non perisce. Implorano il perdono e si ritrovano liberi. Desiderano protezione dal male e vengono esauditi con il potere di sconfiggerlo.

All’uomo il Padre risponde. All’uomo dona le cose umane che chiede. Ma dalle sue mani divine escono impastate di Spirito Santo. Impastate di eternità. Per far lievitare il mondo. Noi non sappiamo quello che è conveniente domandare, ma ciò che chiediamo ci giunge dal Padre ardente di Spirito, infiammato d’Amore. Perché chi chiede la vita ottiene l’eternità. Chi cerca l’uomo ottiene Dio. A chi bussa alla porta dell’amore sarà aperto. Di più, più in alto — an(á)-oighésetai. Fino alla casa del Padre.
[Enza Ricciardi - L'Osservatore Romano]