I nostri occhi non sempre sono capaci di cogliere la verità che si cela dietro l’apparenza e giudicano in base a quello che vedono. Un ricco e un povero sono al centro del racconto di Gesù che la liturgia ci offre la prossima domenica, sebbene in realtà possiamo dire, giocando con le parole, che si tratti di un ricco povero e di un povero ricco. (...)

Il ricco povero e il povero ricco

I nostri occhi non sempre sono capaci di cogliere la verità che si cela dietro l’apparenza e giudicano in base a quello che vedono. Un ricco e un povero sono al centro del racconto di Gesù che la liturgia ci offre la prossima domenica, sebbene in realtà possiamo dire, giocando con le parole, che si tratti di un ricco povero e di un povero ricco.

Il ricco è, infatti, povero: il suo vestire di porpora — veste che la letteratura rabbinica riserva solo ai re e a Dio, mentre nell’impero romano spettava solo agli imperatori — e il banchettare lautamente ogni giorno sono espressione di un cuore che si crede superiore agli altri, preoccupato di godere dei propri beni, teso a soddisfare le sole necessità del corpo, dimentico della dimensione spirituale. Un uomo che ha smarrito l’orizzonte temporale della vita, limitata solo agli anni terreni e non, invece, aperta all’eternità. Questo uomo senza nome è ricco di beni ma povero di umanità avendo smarrito la sua vera identità: è un individuo non una persona, separato dagli altri e da Dio da un muro invalicabile che ne impedisce la relazione.

Non così, invece, Lazzaro nel cui nome è contenuta una promessa. “Dio viene in aiuto”: questo è il significato del nome. Il povero è, dunque, ricco: egli è ben consapevole che la sua vita è nelle mani di Dio e non si dispera, perché è certo che la fedeltà del Padre non permetterà che la sua esistenza si concluda per sempre nell’infelicità. La vera ricchezza è, dunque, la fede che lungi dall’estraniarsi dal mondo, fa riconoscere come la vita umana sia lentamente, a volte in maniera non esente da dolori e sofferenze, plasmata da Dio e destinata ad aprirsi al possesso di colui che è il sommo Bene.

Ai discepoli di Gesù è affidato il compito di rendere possibile nel tempo la promessa per i tanti Lazzaro ancora oggi presenti nel mondo e perpetuare l’esempio del loro Maestro che «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8, 9). Il Verbo si è fatto carne per noi, infatti, per venire in aiuto all’umanità rivelandoci il volto di Dio e il nostro destino ultimo, donandoci la fede, la speranza e la carità, che, come ha scritto Papa Benedetto XVI, «solo la nostra durezza di cuore ci fa ritenere che ciò sia poco». La comunità cristiana è, quindi, chiamata a uscire dalle sue mura per venire in aiuto di quanti giacciono ai margini della società e così essere il segno della premura affettuosa di Dio verso tutti gli indigenti, versando sulle loro piaghe l’olio della consolazione e il vino della speranza. Solo una comunità che si spoglia di sé è una comunità che possiede la vera ricchezza: l’amore.
[Nicola Filippi – L’Osservatore Romano]

Un appello alla speranza per i poveri della terra

Am 6,1.4-7; Salmo 145; 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31

Il profeta Amos, nella prima lettura, annuncia il tema della liturgia della parola di questa domenica. Al centro sta il destino del povero e del ricco. Dio, fin dall’inizio, si prende cura del povero. Di quest’insegnamento, se ne fa anche portavoce l’autore del salmo responsoriale, di cui possiamo leggere: “Il Signore rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati… Egli sostiene l’orfano e la vedova”. Questo salmo 145 (146) si conclude con una grande professione di fede: “Il Signore regna per sempre, il tuo Dio, o Sion, per ogni generazione”.

Il regno di Dio sembra coincidere qui col suo intervento efficace per rendere giustizia, cioè per liberare e salvare quelli che sono nel bisogno, i poveri. … Sullo sfondo di questi insegnamenti si colloca anche la parabola di Gesù che siamo soliti chiamare la parabola del povero Lazzaro e del ricco Epulone.

Il povero ha un nome comune nell’ebraismo, che significa “Dio aiuta”, “Yahwe viene in soccorso”. Secondo la concezione semitica, il nome esprime la realtà profonda della persona, riassume la sua storia. Il ricco non ha nome, perché non ha storia o ha costruito la sua storia sul vuoto. Ha perso le vere ragioni del vivere. Ha smarrito o sostituito il suo nome con un altro: ”epulone”. Epulone non è un nome di persona, ma un aggettivo latino, che significa “mangione”, gaudente, festaiolo, uno sempre intento a banchettare. Lui fa così, e i suoi cinque fratelli fanno altrettanto. La ricchezza lo chiude nell’egoismo o, meglio, nel piacere egoistico, e lo stacca dagli altri.

Impegnato a contemplare il piatto ricolmo, non riesce più a vedere il povero, morto di fame e pieno di piaghe, che sta alla sua porta. I cani (che vanno a leccare le piaghe di Lazzaro) vedono meglio di lui.

Alla morte di Lazzaro e del ricco, si compie il capovolgimento. Lazzaro si trova felice in grembo ad Abramo (in paradiso); il ricco invece è all’inferno, nel fuoco, nella sete, nel tormento. Il ricco si è accorto finalmente che Lazzaro esiste, e che è diventato importante. Si rivolge ad Abramo chiedendo che mandi Lazzaro a portargli il ristoro di una goccia di acqua. La risposta di Abramo è negativa: La situazione è ormai irreversibile. Tra i due mondi, c’è un “grande abisso” insuperabile. Si potrebbe dire che quell’abisso invisibile che separava sulla terra il ricco dal povero, ora divide la loro rispettiva condizione nell’aldilà. L’inferno, ora, non è altro che la “consacrazione” di questo stato di separazione da Dio e di lontananza dai suoi amici, i poveri. Il ricco ha capito tutto, ma troppo tardi. Perciò supplica per i fratelli: Lazzaro n on potrebbe tornare in terra per sollecitarli a cambiare vita? La risposta di Abramo è breve e radicale: “Hanno Mosè e i profeti; ascoltino loro”. L’espressione “Mosè e i profeti” designa la Bibbia nella sua interezza, la parola di Dio. In modo concreto, la parabola di questa domenica ci ammonisce severamente che la sorte dell’uomo si gioca oggi, quaggiù, e adesso.

E’ nel presente che viene fissata l’eternità. La ricchezza toglie spesso la volontà di conversione. E’ allora ancora valida oggi la parabola del ricco e Lazzaro. Nella nostra civiltà del consumismo, il mondo è più che mai pieno di “Epuloni”, di gaudenti, di sazi indifferenti, di gente che non si occupa certo del cielo, ecc. E non mancano i poveri che stanno bene fuori della porta.
Don Joseph Ndoum

Egli ha un nome: Lazzaro

Nelle parabole del Vangelo, Gesù colloca trentacinque personaggi. Sono tutti anonimi eccetto un povero disgraziato morto di fame. Egli ha un nome: Lazzaro. L’anagrafe civile di allora lo ignorava; quella del Regno dei Cieli, invece, lo registra a memoria eterna, perché ogni affamato ha un nome, una dignità, un posto nell’eternità. Purtroppo la storia dell’epulone e di Lazzaro si ripete sulla tavola della nostra società. Ci sono ristoranti, pizzerie, tavole domestiche dove si scarta e si spreca il cibo, mentre in certe periferie il clochard fruga nel bidone della spazzatura sperando di trovare qualche frammento da mangiare e, nel terzo mondo, ci sono bambini denutriti o uccisi dalla fame. 

Ho un cattivo ricordo della mia adolescenza: la guerra 1940-1945. Non c’era la miseria da terzo mondo ma neanche l’opulenza sfacciata dei supermercati d’oggi. Tutti i generi alimentari erano razionati e si potevano comprare solo con le tessere annonarie. Si sperimentava una dignitosa scarsità. Ho anche però un bel ricordo: i nostri nonni ci insegnavano a dar da mangiare agli animali: lasciavano sempre qualche grappolo sulla vite e qualche frutto sull’albero … per i passeri e per i merli. Per loro mettevano anche briciole sul davanzale. Il gatto e il cane domestico mangiavano qualcosa che ciascuno toglieva dal proprio piatto. A San Biagio facevano benedire, oltre una fetta del panettone avanzato a Natale, anche pane secco, che poi mettevano nei pastoni delle galline e nei beveroni delle mucche e dei maiali: anche le bestie dovevano far festa.  

È lodevole l’impegno delle Conferenze di San Vincenzo e delle Caritas locali, che distribuiscono la borsa della spesa a chi fa fatica a mangiare e anche l’iniziativa del Siticibo, che raccoglie dalle mense aziendali e scolastiche i cibi non consumati, per portarli a Istituti o alle mense dei poveri.

Nei miei viaggi missionari ho sempre incontrato lodevoli iniziative di aiuto alle popolazioni povere: questi meravigliosi annunciatori del Vangelo sanno dare il pane che sazia il corpo e la parola di Dio che sazia lo spirito.

Anche nella cucina di casa si deve dimenticare il detto: “La roba per essere abbastanza deve crescere”. La cuciniera saggia calcola la misura giusta che soddisfa le esigenze dei commensali e non fa sprecare niente.

Proposito: “Se vuoi che il pane abbia ancora il sapore, spezzalo per chi non ce l’ha”.
Mons. Claudio Livetti

Il progetto alternativo di Dio
circa fame, ingiustizie, disuguaglianze

Amos 6,1.4-7; Salmo 145; 1Timoteo 6,11-16; Luca 16,19-31

Riflessioni
Anche questa domenica ritorna il messaggio sferzante di Amos e di Luca sull’uso delle ricchezze. Il profeta Amos (VIII secolo av. C.), in un’epoca di benessere lanciava dure minacce (I lettura) ai ricchi del paese che gozzovigliavano impoltroniti su letti d’avorio, fra banchetti, musiche, vino, unguenti raffinati… (v. 4-6); vivevano da spensierati e dissoluti, incuranti della rovina che incombeva sul paese: i due regni del nord e del sud sarebbero finiti presto in esilio a Ninive e a Babilonia (v. 6-7).

Ritorna ancora nel Vangelo di oggi il giudizio critico e severo di Luca circa il denaro, la ricchezza, l’ingiustizia sociale... Nella parabola di Gesù, il ricco epulone è interessato soltanto a due cose nella vita: vestirsi di lusso e banchettare lautamente ogni giorno (v. 19). Con due pennellate Luca descrive la drammatica differenza fra il ricco e il povero Lazzaro affamato, piagato, leccato dai cani (v. 21-21). C’è solo una cosa in comune fra i due: la morte che arriva inesorabilmente (v. 22). Ma subito emerge una nuova differenza ancora più drammatica, per il destino opposto che li separa irrimediabilmente: il povero è “portato dagli angeli accanto ad Abramo” (v. 22), amico di Dio; mentre il ricco finisce “negli inferi fra i tormenti” (v. 23), incapace ormai di ottenere una goccia d’acqua (v. 24-25), l’annullamento del “grande abisso” (v. 26), o almeno un messaggio di ammonimento per i suoi cinque fratelli (v. 28).

Nella parabola l’uomo ricco non ha un nome, mentre Gesù dà un nome al povero: Lazzaro, (Eleazaro, significa "Dio aiuta") per indicarne la dignità e la certezza che, appunto, “il Signore lo aiuta”. Dio è l’unico che pensa al povero e lo aiuta. La parabola racconta il capovolgimento di due situazioni opposte durante la vita e dopo la morte dei due personaggi, senza emettere un giudizio morale sulla loro condotta, al punto che non si capisce immediatamente per quali motivi il ricco venga condannato, mentre il povero si salva. Non si dice che il povero fosse una persona pia, umile, fedele, lavoratore… Non si dice neppure che il ricco fosse ladro, vizioso, cattivo con i servi, non osservante dei comandamenti… Perché allora quel capovolgimento di situazioni? Perché c’è una situazione che è in sé stessa peccaminosa: la disuguaglianza tra ricchi e poveri è contraria al piano di Dio, che vuole, invece, la condivisione dei beni. Il peccato del ricco è l’egoismo, l’indifferenza: “non vede”, non fa nulla per il povero. Il vero discepolo di Gesù non è colui che non fa del male, ma colui che aiuta a vivere, che si fa prossimo di chi è nel bisogno. “Il primo miracolo è accorgersi che l’altro, il povero esiste” (Simone Weil). Infatti, l’odierna parabola di Luca ha una stretta relazione con quella del buon samaritano (cfr. Lc 10,29-37), che “vide e ne ebbe compassione” (v.33).

Con questa parabola Gesù vuole insegnare che il piano di Dio per la famiglia umana non ammette che ci siano disuguaglianze scandalose: cioè, “che lo straricco possa convivere accanto al miserabile, a patto che non rubi e faccia elemosine. È proprio questa convinzione che Gesù vuole demolire. Nella parabola Egli parla di un ricco che viene condannato non perché cattivo, ma semplicemente perché era ricco, cioè, perché si chiudeva nel suo mondo e non accettava la logica della condivisione dei beni. Gesù vuole fare capire ai discepoli che l’esistenza in questo mondo di due classi di persone -i ricchi e i poveri - è contro il progetto di Dio. I beni sono stati dati per tutti e chi ne ha di più deve condividerli con coloro che ne hanno di meno” (F. Armellini).

S. Ambrogio lo esprime così: “Quando tu dai qualcosa al povero, non gli offri ciò che è tuo, gli restituisci soltanto ciò che è già suo, perché la terra e i beni di questo mondo sono di tutti, non dei ricchi”. Un capovolgimento radicale! Una ventata di speranza per una nuova era della vita sulla terra! Il piano alternativo di Dio è bello e da realizzare nel tempo; è la meta davanti a noi, il traguardo da raggiungere, gradualmente, con metodi pacifici. L’importante è camminare nella giusta direzione:     condividere con i fratelli in necessità il tanto o il poco che abbiamo, e diffondere la logica e lo stile dell'autentica solidarietà.

Utopia? Gli ultimi pontefici non esitano a riproporre con forza nelle loro encicliche sociali il piano alternativo di Dio circa la fame e le disuguaglianze: Giovanni XXIII (Pacem in Terris, 1963), Paolo VI (Populorum Progressio, 1967), Giovanni Paolo II (Sollicitudo Rei Socialis, 1987), Benedetto XVI (Caritas in Veritate, 2009), Papa Francesco (Laudato Si’, 2015). (*) Questi documenti sociali hanno una straordinaria forza missionaria in ordine a quella trasformazione del mondo secondo il piano di Dio, che è l’obbiettivo del Vangelo. Il messaggio è sublime. Non va indebolito con cedimenti sulla dottrina e nella prassi, con sconti, lentezze e concessioni; va vissuto come profezia e con esperienze di frontiera. Dove trovare la forza necessaria per realizzare questo radicale progetto di Dio? La parabola odierna ci rimanda per due volte alla Parola: ascoltare Mosè e i Profeti (v. 29.31). La Parola - il Vangelo - è l’unica forza per la conversione personale e la trasformazione del mondo. Per noi oggi quella Parola è vicina, si è fatta carne e salvezza per tutti: è Gesù, come ricorda S. Paolo a Timoteo (II lettura).

Parola del Papa

(*) “La questione sociale ha acquistato dimensione mondiale… I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza… Si tratta di costruire un mondo, in cui ogni uomo, senza esclusioni di razza, di religione, di nazionalità, possa vivere una vita pienamente umana…; un mondo dove la libertà non sia una parola vana e dove il povero Lazzaro possa assidersi alla stessa mensa del ricco”.
San Paolo VI
Enciclica Popolorum Progressio (1967), n. 3 e 47

P. Romeo Ballan, mccj

DOMENICA «DI LAZZARO E DEL RICCO EPULONE»

Lc 16,19-31; Am 6,1a.4-7 (leggi 6,1-7); 1 Tm 6,11-16 (leggi 6,11-21)

Ancora sulla povertà e la ricchezza che continuano sempre a fare problema. Le interpretazioni e le soluzioni sono molte. C’è chi collega povertà e ricchezza alla «fortuna» e al caso. Chi vede nella povertà il segno della incapacità e del disordine morale e nella ricchezza il segno e il premio dell’intelligenza e della virtù. Per altri è proprio il contrario: chi è onesto non si arricchisce, perché per diventare ricchi non bisogna avere troppi scrupoli di coscienza. Ricchezza coincide con sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo: il ricco è un ladro, disposto a tutto per difendere il suo privilegio. Nasce il disordine costituito, la società violenta. Nascono i problemi:

  1. come fare giustizia?
  2. come dividere giustamente i beni della terra e i frutti del lavoro dell’uomo?
  3. come cambiare l’ordine delle cose?

Nella Bibbia troviamo una duplice «lettura» della povertà e della ricchezza:

  1. da una parte la povertà è scandalo, un male da togliere, un male che è quasi la cristallizzazione del peccato;
  2. dall’altra nella ricchezza c’è il segno della benedizione di Dio. L’amico di Dio è l’uomo dotato di ogni bene. Il povero è colui nel quale si specchia il disordine del mondo.

Tutta una linea profetica che termina nel «guai a voi, o ricchi!» di Gesù vede nella ricchezza il pericolo più grave di autosufficienza e di allontanamento da Dio e di insensibilità verso il prossimo. E contrapposto al «guai a voi, o ricchi!», c’è il «beati i poveri»: la povertà diventa una specie di zona privilegiata per l’esperienza religiosa. Il povero è l’amato da Iahvè; a lui è annunciato il Regno. Il povero è il primo destinatario della Buona Novella. La povertà non è più disgrazia o scandalo, ma beatitudine. La beatitudine del povero sarà pienamente rivelata dopo la morte, con un rovesciamento delle situazioni (Evangelo).

L’Evangelo è comunque denuncia profetica di ogni ordinamento ingiusto e rivelazione delle cause profonde dell’ingiustizia. Anche il povero può essere un ricco potenziale e lottare non per la giustizia ma per prendere il posto dei padroni. L’Evangelo è appello alla conversione radicale per tutti, poveri e ricchi, conversione da realizzare subito. «Anche tra i ricchi Gesù annunzia il Regno che viene. Ma condanna i mali che la ricchezza trascina con sé: vede il ricco prigioniero dei suoi beni portato a escludere ogni altro valore, a considerare i suoi simili strumento della sua avidità.

Il ricco epulone della parabola evangelica che banchetta lautamente e non si dà pena di Lazzaro, un povero mendicante affamato e coperto di piaghe, non ne è ancora l’immagine più completa. Lo sono ancor più i suoi cinque fratelli che continuano spensierati a gozzovigliare, insensibili fino al punto che nemmeno un morto risuscitato potrebbe scuoterli»

I lettura: Amos 6,1-7

Ancora il profeta Amos che indirizza adesso il suo messaggio sia ai capi del regno settentrionale, Israele, sia ai capi di quello meridionale, Giuda. E qui li investe la minaccia biblica, “guai!”, che significa anche «maledizione a voi!», comprendendo i ricchi di Sion e di Samaria, le capitali dei due regni, accomunati per i loro vizi nefandi alla medesima sorte profetica che il Profeta sta minacciando (v. la). La diversa situazione dinastica e geografica del due regni non provoca differenze.

Amos descrive lapidariamente i vizi correnti. Quei ricchi di Samaria in spregio alla povertà usano letti d’avorio costosissimi (che proprio a Samaria ha ritrovato l’archeologia), nei quali si danno alla vergogna del vizio sfrenato. Frequentano di continuo festini raffinati, dove si saziano consumando i migliori prodotti (v. 4), che i poveri neppure sanno che esistano. Per rallegrare i loro conviti e i loro festini usano cantare, o anche far cantare da cori ben pagati, parodie di salmi. Anzi, si credono di avere l’arte di David, che componeva musiche con lo strumento apposito per i Salmi, il “salterio” o chitarra o cetra (v. 5). Inoltre, degustano vino raffinato in coppe preziose, e stanno in permanenza unti di ricercati e costosissimi aromi e cosmetici. Mentre non si curano affatto che “Giuseppe”, il nome che indica il regno del settentrione, giaccia stritolato e consumato dalla miseria (v. 6). Il Signore però riserva a essi la punizione esemplare e definitiva, l’esilio, che cancellerà la classe dei viziosi (v. 7). Infatti; venuti gli Assiri, di questi ultimi, in quella regione d’Israele, non si sentirà più parlare nella storia.

Evangelo

Mentre il Signore prosegue il suo «esodo verso Gerusalemme» segnato dalla Croce, dalla Resurrezione e dall’Assunzione al Padre. Durante questo viaggio il Signore continua, infaticabile, a dispensare il suo insegnamento e i suoi prodigi in favore degli uomini. La parabola, raccontata con quei dettagli caratteristici della cultura del tempo, è una delle più famose e suggestive dell’Evangelo sull’uso e sul valore delle ricchezze. La narrazione è esclusiva di Luca e si compone di due scene:

  1. una che si svolge sulla terra (vv. 19-21) a colori foschi per Lazzaro,
  2. l’altra che si svolge nell’al di là (vv. 22-29) a tinte fosche per il ricco;

segue una replica del ricco, la quale pur completando il discorso, tratta però di un altro argomento (vv27-31).

Naturalmente la parabola non enuncia un principio costante, una realtà che si effettui senza eccezioni: al contrario rappresenta quello che può accadere se coloro che possiedono ricchezze non seguono gli insegnamenti della legge divina circa il loro uso. Come un ricco, dopo aver goduto di ogni bene sulla terra, nell’al di là viene immerso in tali tormenti da mendicare l’aiuto di colui che egli sulla terra non curava di uno sguardo; e come un povero, dopo aver sofferto ogni miseria, nell’al dì là è colmato di tale felicità da suscitare l’invidia di chi prima era nell’opulenza. Così accadrà a coloro che su questa terra non ascoltano i dettami di Mosè e di Cristo, ma usano delle ricchezze secondo le loro passioni. È la risposta di Gesù ai farisei che ridono delle sue parole, pieni come sono del loro “buon senso” (v. 14; pensiamo anche a come l’economia di oggi continui a beffarsi di Gesù in modo più o meno sfacciato): ride bene chi ride ultimo [cfr. Sal 72 (73)!]

Dopo l’affermazione di Gesù, che nessuno può servire Dio e il denaro (16,13), i farisei deridono Gesù (letteralmente ekmyktērízō significa «sollevano il loro naso»; usato come termine medico significa “fare sangue dal naso”). La mormorazione (15,2) si è trasformata in dileggio: non rigettano solo il messaggio di Gesù, ma la sua persona. Il narratore quindi rinforza il giudizio negativo sui farisei qualificandoli «attaccati al denaro» (16,14) e ponendo sulle labbra di Gesù un’accusa pesante nei loro confronti: «Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole» (16,15; cfr. 11,39-44). Dio non segue le logiche umane, ma rigetta ciò che è esaltato tra gli uomini. Non è dunque facile entrare nel Regno (v. 16)!

Il racconto tuttavia non è una condanna dei ricchi ed un’esaltazione dei poveri di stampo manicheo; è piuttosto un ammonimento severo ad aprire gli occhi e usare giustamente dell’ingiusto “mammona”: il possidente stolto si converta nell’amministratore saggio. Si mostra per immagini quel rovesciamento di criteri già cantato nel Magnificat e proclamato nelle beatitudini (cfr. l,46ss; 6,20ss).

Esaminiamo il brano

v. 19  Incontriamo il primo dei due personaggi; Luca in pochi e sobri tratti ci descrive la condizione spensierata di un ricco: vestito di lusso, porpora e bisso (in Oriente lusso riservato ai Re, dunque un personaggio imperiale, cfr. Est 8,15; Prov 32,22; 1Macc 10,20 ). Egli ogni giorno godeva i festini raffinati (cfr. la condanna in Giac 5,5).

vv. 20-21  Più estesa è la descrizione di Lazzaro, mendico, pieno di piaghe, fuori (il verbo bállō lett. gettato là. E lì Lazzaro “giaceva” come un pezzo di legno alla deriva gettato sulla sabbia dalle onde del mare.) della porta del festino del ricco, desideroso almeno delle briciole che si sprecavano lì dentro (si tratta della mollica di pane usata per pulirsi le mani ), ma invano; Cristo Dio, ricco all’infinito, con le briciole della mensa dei figli del Regno sfama anche i «cagnolini» (cfr. episodio della Sirofenicia in Mc 7,24-30).

Il povero Lazzaro, isolato da qualsiasi pietà umana, è avvicinato soltanto da cani Il cane soltanto ha la pietà che manca al ricco: leccandolo gli medica quelle ferite rese insanabili dalla denutrizione (i cani per gli ebrei possono essere i pagani, oppure l’odiato samaritano). Caso unico nelle parabole evangeliche, il povero ha un nome: Lazzaro, forma breve e popolare di Eleazaro = Dio soccorre; il povero che non ha nulla, ha bisogno di Dio : è il suo unico aiuto (leggi dal Disc33a,4 di S. Agostino, vescovo; Gregorio Magno, Hom., 40, 3 s.10; vedi anche colletta). Se il nome appare una tragica beffa durante lesistenza del povero, la morte segna il momento dell’agire benefico di Dio nei suoi confronti

vv. 22-23 – Avviene secondo la sorte di tutti. Lazzaro muore ed é portato dagli angeli nel «seno di Abramo»; muore anche il ricco, ed è «sepolto nell’inferno» in eterno. La morte non è democratica: non è una livella! È anzi il principio di distinzione, il limite ultimo che individua ciascuno.

«seno di Abramo» = metafora per indicare la gioia che godono i santi; può riferirsi al banchetto celeste nel quale Abramo sta a capotavola e Lazzaro è seduto alla sua destra da dove può reclinare il capo sul petto del patriarca (cfr Gv 13,23ss). Oppure si può vedere nella posizione di Lazzaro un segno della tenerezza e della protezione di Abramo per il suo figlio miserelloA ciascuno come visse sulla terra. Da notare come Gesù con sapienza e spontaneità si adatti alla mentalità popolare per rendere accessibile un insegnamento; l’Evangeloinfatti, non intende descrivere l’al di là, ma evocare la condizione spirituale dei due personaggi della parabola.

v. 24 – Nei tormenti meritati il ricco invoca ora quella pietà che non ebbe per Lazzaro; chiama Abramo «Padre» per la prima volta nella sua esistenza, non ricordando che i profeti hanno parlato di «fiamma inestinguibile» (cfr. Is 66,24; anche Mt 25,41). La prima richiesta dell’uomo tra i tormenti appare modesta: probabilmente avendo riconosciuto la sua colpa non contesta il suo destino, ma chiede soltanto alcune gocce d’acqua, per combattere l’arsura.

vv. 25-26 – La risposta di Abramo è piena di pazienza. Poiché è Padre di incancellabile paternità, chiama il ricco “figlio” anche in quella situazione, e lo esorta a ricordarsi di tutti i beni che nell’esistenza sulla terra ha consumato e si è goduto (Lc 6,4; Giob 21,13; Sal 16,14). Lazzaro invece allora ebbe solo mali. Adesso è il contrario; ora c’è un abisso impossibile da valicare. Il passaggio era possibile sulla terra con il ponte della misericordia verso il povero; è lo scambio fraterno dei beni che avrebbe avuto conseguenze salvifiche.

Tra le righe, Luca suggerisce che una distanza, che il ricco avrebbe potuto superare facilmente durante la vita aprendo la porta, si è ormai trasformata in un fossato insuperabile. Il ricco ha rifiutato di agire come benefattore di Lazzaro e ora la ‘porta’ è chiusa per sempre.

vv. 27-28 – Il ricco non si rassegna. Chiede almeno di inviare Lazzaro alla sua casa paterna, ai 5 fratelli (numero simbolico: tanti e tanti come il ricco), perché essi possano con la sua apparizione ravvedersi.

Lazzaro e non uno qualunque. In realtà Lazzaro è sempre inviato: i poveri li avremo sempre con noi (cfr. Mc 14,7) come inviati da Dio per salvarci. Come Amos, l’evangelista ricorda che l’ingresso nel Regno non avviene grazie a fenomeni straordinari, come il ritorno dei morti e le visioni dell’oltretomba: la via della salvezza percorre la strada umile dell’ascolto della Legge e dell’obbedienza responsabile.

v. 29 – Abramo a sua volta fa un rinvio: «Hanno Mosè ed i Profeti (le due parti in cui era divisa la scrittura, cfr. 24,27.44), se li «ascoltano», ossia obbediscono a quanto contengono, saranno salvi.

v. 30 – Per la terza volta il ricco chiama Abramo «Padre», e lo scongiura di inviare «un morto», davanti a cui certamente quelli si convertiranno. Forse il ricco pensa ad una apparizione del tipo di quelle raccontate nell’A.T. (cfr. 1 Sam 28,12-15) o a un’apparizione in sogno, ma Abramo rincara la dose parlando addirittura di una risurrezione.

v. 31  Abramo risponde, e qui parla Gesù e parla tutta la Scrittura: Se non obbediscono a Mosè ed ai Profeti, non crederanno neppure ad uno che risorge dai morti. Come sempre è la conclusione che dà senso e significato alla parabola. Occorre ascoltare (vedi le nostre liturgie domenicali) e mettere in pratica la Scrittura, garanzia di salvezza. Nessun miracolo può sostituirla: Lazzaro di Betania fu risuscitato dai morti, ma i suoi fratelli piuttosto che convertirsi, avrebbero preferito ucciderlo di nuovo (Gv 12,10ss).

A Cristo Risorto hanno forse creduto?

Ecco perché il Risorto rinvia sempre alla Scrittura. La Scrittura infatti come centro della sua dottrina porta la carità dei fratelli verso tutti i fratelli, figli dell’unico Padre Abramo (cfr. Lv 19,18). È utile precisare ancora che il ricco non è condannato semplicemente per la sua ricchezza, ma perché non ha saputo prendere la vita come un dono e non ha offerto il suo aiuto al povero infermo e affamato che stava morendo alla sua porta. La ricchezza in sé non è un peccato, ma è peccato la ricchezza che permette che i poveri muoiano, è peccato la mancanza di solidarietà che divide gli uomini e consente che alcuni nuotino nell’abbondanza e altri deperiscano in un mondo di fame e di miseria.

Nella parabola viene mostrato come la prospettiva del futuro abbia peso sull’oggi e come il rapporto dell’uomo con l’uomo abbia un riflesso con il suo definitivo essere innanzi a Dio. L’Evangelo è una forza dinamica di trasformazione e di cambiamento «continuo». L’avventura dell’amore, inaugurata da Cristo e proseguita dopo di lui, invitando l’uomo ad acconsentire attivamente alla legge della libertà, ha di fatto causato una progressiva trasformazione dei rapporti tra gli uomini. Non è però un manifesto rivoluzionario e neppure un programma di riforma in materia sociale. È qualcosa di più e di più essenziale. L’Evangelo non ci insegna nulla sulla rivoluzione. Tentare di costruire una teologia della rivoluzione partendo dall’Evangelo è illudersi e non cogliere l’essenziale. Sul piano degli obiettivi e dei mezzi, i cristiani e i non cristiani devono fare appello alle risorse della razionalità umana, scientifica e morale; gli uni e gli altri devono ricercare le soluzioni efficaci, anche se i comportamenti concreti possono divergere. Ma i cristiani, presi nell’avventura dell’amore e nella sola misura in cui accettano di viverla come Cristo e alla sua sequela, saranno più attenti a fare in modo che essa non degeneri in nuove oppressioni e in nuovo legalismo.

Lunedì 23 settembre 2019
Abbazia Santa Maria di Pulsano
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