Mercoledì 5 giugno 2013
Si sta celebrando nella Curia Generalizia dei Missionari Comboniani il Triduo in preparazione alla solennità del Sacro Cuore di Gesù che si festeggerà il 7 giugno. “Le dinamiche pasquali della comunità cristiana” è il tema proposto da P. Antonio Furioli alle comunità presenti a Roma. “La comunità non è soltanto lo spazio storico, geografico ed esistenziale, in cui viviamo il nostro personale cammino di santificazione, ma ne è il sacramento, e dunque anche la condizione di possibilità attuativa”, scrive P. Furioli nella meditazione sul capitolo 18 di Matteo che verrà presentata domani, 6 giugno.

Le dinamiche pasquali della comunità cristiana

Lectio di Matteo 18

Roma EUR, 6 giugno 2013

1. Premessa

Negli ultimi capitoli generali del nostro Istituto, è stata avviata una riflessione sulla dimensione comunitaria della nostra vita missionaria ad Gentes. In questa occasione, vorrei soffermarmi su questa dimensione, a partire dal capitolo 18 di Matteo. Stando alle testimonianze della Bibbia, non è la nostra santità personale a santificare il popolo di Dio, ma il contrario, è il nostro appartenere – anzitutto a livello sacramentale e misterico, prima ancora che sociologico – a un popolo santo che ci consente di vivere positivamente la nostra personale risposta alla nostra vocazione missionaria ad vitam. Per noi missionari questo assume una valenza peculiare proprio a motivo della scelta che abbiamo fatto: la comunità non è soltanto lo spazio storico, geografico ed esistenziale, in cui viviamo il nostro personale cammino di santificazione, ma ne è il sacramento, e dunque anche la condizione di possibilità attuativa. È il vivere insieme le esigenze del Vangelo che ci consente di rispondere alla chiamata alla vita missionaria e dunque di rispondere personalmente.

Questo aspetto mi pare emerga in modo molto nitido dal film Uomini di Dio e dalla testimonianza dei Trappisti dell’Atlas algerino. Hanno vissuto insieme, sostenendosi a vicenda, la loro risposta personale alla chiamata alla santità; più ancora l’hanno vissuta dentro quella chiamata che la comunità in quanto tale ha ricevuto. Un aspetto significativo della loro vicenda mi pare proprio questo, che assume peraltro anche la dimensione di un segno particolarmente efficace ed eloquente per il nostro tempo. I Trappisti di Tibhirine sono stati rapiti e uccisi proprio nel momento in cui avevano maturato insieme una scelta comune, passando attraverso tutto il travaglio e la fatica di un discernimento che inizialmente li vedeva su posizioni molto diverse e contrapposte. Se la prima irruzione dei terroristi, quella della notte alla vigilia di Natale, si fosse conclusa in modo violento con l’uccisione dei monaci, non sarebbe stata la stessa cosa. Avrebbero comunque versato il loro sangue per Cristo, ma senza aver consapevolmente e comunitariamente offerto la propria vita. C’è qualcosa di provvidenziale in questo: la vita è stata loro effettivamente chiesta, e in modo violento, ma quando insieme avevano maturato la scelta di rimanere, pur nella consapevolezza dell’alto rischio che questa scelta comportava. Non quando erano ancora divisi sul da farsi, o quando uno – come fr. Christian – era tentato di decidere per tutti. Mi pare che qui troviamo qualcosa di fondamentalmente diverso per la vita di ogni comunità, e quindi anche della nostra. Per continuare ad approfondire la riflessione in questa prospettiva, desidero questa sera soffermarmi con voi su Matteo 18. Lo leggiamo facendo attenzione, più che alle singole parti, alla sua costruzione d’insieme e alle grandi dinamiche che lo attraversano.  

Vorrei fare una seconda premessa, guardando ancora al contesto più generale del vangelo di Matteo in cui questo testo si inserisce. Mt. inserisce il capitolo 18 proprio nell’orizzonte degli annunci della passione. I primi due annunci sono in 16,21 ss e in 17,22; il terzo invece al capitolo 20 (17ss). Non solo il singolo discepolo, ma la comunità stessa è invitata a prendere su di sé la logica della Croce. La comunità cristiana ha una qualità essenzialmente pasquale, è dono del Risorto, frutto della sua Pasqua. Inserendo questo discorso comunitario nel cammino di Gesù verso Gerusalemme, più precisamente all’interno dei tre grandi annunci pasquali di morte e risurrezione, è come se l’evangelista ci ricordasse che soltanto assumendo nella nostra vita personale e in quella delle nostre relazioni interpersonali una logica pasquale, noi diventiamo capaci di dare vita a comunità davvero evangeliche. In questa prospettiva pasquale, mi pare che il capitolo 18 di Mt. possa essere letto e compreso anche alla luce della manifestazione del Risorto alla comunità degli apostoli, narrata in 28,16-20, con cui l’intero racconto matteano si conclude. Ci sono alcuni elementi in comune. Ne ricordo subito i due principali:

a) Il Vangelo di Mt si conclude con la grande promessa dell’Emmanuele: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.” (Mt 28,20) Questa promessa risuona in modo analogo al centro del capitolo 18: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.” (v. 20) Per Mt il nome di Gesù è l’Emmanuele, che significa Dio con noi, come egli ricorda nei racconti dell’infanzia (Mt 1,23) proprio all’inizio del vangelo, citando il profeta Isaia (7,14) . La verità di questo nome, di questa presenza reale ed efficace del Signore in mezzo ai suoi, la comunità l’esperimenta in due momenti privilegiati della sua vita: (•) quando è riunita nel suo nome, come ricorda il capitolo 18, e (••) quando, sempre nel suo nome, è inviata a evangelizzare tutte le genti, come ricorda la finale del capitolo 28:

«19Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, 20insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.»

Dunque, comunione e missione sono i due ambiti in cui i discepoli percepiscono la presenza del Dio con noi e ne diventano anche il segno incisivo e la trasparenza per altri; nello stesso tempo la comunione e la missione sono rese possibili dal fatto che l’Emmanuele è presente in mezzo ai suoi.

b) Un secondo punto di contatto tra i due testi è suggerito da un interrogativo: in quale comunità l’Emmanuele si rende e si fa riconoscere presente?

Potremmo rispondere dicendo che è una comunità segnata da un triplice vulnus. Queste ferite, o quanto meno le loro cicatrici, le ritroviamo anche nel volto della comunità che emerge dal capitolo 18.

  1. La prima ferita è quella della perdita numerica. I discepoli che incontrano il Risorto non sono più dodici, perché Giuda non c’è più. Il capitolo 18 ci parla di una comunità alla quale capita di contare delle perdite. Il gregge può ridursi a 99 unità, perché c’è una pecora che si perde e che occorre tentare con ogni sforzo di recuperare, ma non è detto che ci si riesca. “Se gli riesce di trovarla” dice con molto realismo Mt. al v. 13. Oppure si può verificare il caso doloroso di un fratello che viene posto fuori dalla comunità perché non ha voluto ascoltare la parola di correzione che con gradualità gli è stata proposta.
  2. Una seconda ferita è quella dell’abbandono. Gli undici tornano ad incontrare il Risorto dopo averlo abbandonato. E a convocarli di nuovo è la parola della riconciliazione e del perdono. Anche nel capitolo 18 si insiste su questo tema. Così come accade agli undici, di nuovo radunati dal perdono di Gesù, anche la comunità cristiana è edificata da una parola di perdono, che deve essere detta non sette volte ma settanta volte sette (cfr Mt 18,22). Papa Francesco insiste molto sull’aspetto della misericordia: “Siate misericordiosi, non freddi amministratori, burocrati del sacro.”
  3. Una terza ferita è quella del dubbio di fronte al Risorto. Gli undici vanno incontro al Signore, eppure la loro esperienza di fede è ancora segnata dall’incredulità. Anche il capitolo 18 ci parla di una fraternità ecclesiale attraversata da numerosi dubbi, da molteplici fragilità, come quelle che patiscono i piccoli, che occorre stare attenti a non scandalizzare nella debolezza e vulnerabilità della loro fede.

Questo è il modo peculiare con cui Matteo guarda alla fraternità ecclesiale, così come emerge da questi due testi, come pure da altri passi del Vangelo che ora non abbiamo tempo di commentare ma solo di richiamare. Quella che complessivamente si delinea è l’immagine di una comunità non esemplare o ideale, quale può essere ad esempio la comunità di Gerusalemme, che Luca descrive in Atti 2, 42-48 e 4, 32-35; al contrario, la visione di Matteo è estremamente realistica: nella comunità ci sono persone piccole e fragili, a cui si contrappongono le ambizioni di chi vuol farsi grande; ci sono fratelli che scandalizzano e altri che sono facilmente suggestionabili nella debolezza della loro fede; ci sono fratelli che rischiano di smarrirsi e di perdersi, come pure pastori e responsabili della comunità che devono essere sollecitati nella loro pigrizia pastorale e prendersi cura di loro; ci sono dei bisogni che non sempre vengono accolti e attesi come dovrebbero; ci sono peccatori che non accettano la correzione accanto ad altri fratelli che rimangono rancorosi, incapaci di perdono, che pongono delle condizioni o dei limiti, apparentemente ragionevoli, alla pratica del perdono e della riconciliazione.

2. Una comunità che si edifica a partire dal limite: elogio della fragilità

Quella a cui si rivolge Matteo è dunque una fraternità segnata da molte ferite. La sua è tutt’altro che una visione idilliaca dei rapporti fraterni, che al contrario appaiono contraddistinti da varie fatiche; non sono soltanto rapporti impegnativi ed esigenti, ma anche fragili, esposti alle facili illusioni, alle rotture, all’inganno, all’abbandono... Mi pare tuttavia che quella di Matteo non sia soltanto una visione disincantata e realistica. Il suo sguardo è più profondo, si potrebbe dire più pasquale. Infatti, la comunità non è solo caratterizzata da questi limiti, ma si edifica proprio a partire da essi. Non nasce da un progetto ideale, che finge di non vedere le difficoltà o si illude di poterle eliminare, ma passa attraverso di esse e le integra nel proprio orizzonte. Anzi, le mette al centro, come fa Gesù ponendo al centro un bambino, e con lui anche il fratello più piccolo, che è proprio colui che ha una fede più fragile, o che dà scandalo, o che si smarrisce a motivo del proprio peccato. Se si legge attentamente questo testo di Matteo, si nota con sorpresa che al centro e a fondamento della comunità non ci sono tanto dei valori, quanto delle ferite che vengono però assunte in proprio, curate, lenite,... La comunità esiste, vive, respira, cresce,… quando i deboli vengono accolti, i fragili perdonati e i peccatori corretti, gli smarriti ricercati, i piccoli sostenuti. A quanti deviano viene data la speranza di un ricupero e di una rinnovata assunzione di responsabilità.

Certo, al centro della comunità c’è il Signore Gesù, perché “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (v. 20). Tuttavia questo versetto non può essere disgiunto dal v. 5: “e chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me”. Né può essere disgiunto dal gesto che Gesù compie all’inizio del capitolo, al v. 2, quando per rispondere alla domanda sul più grande, prende un bambino e lo mette in mezzo a loro. Il Signore Gesù è al centro della comunità, ma è sempre presente come il più piccolo tra i suoi fratelli, come poi ricorda in modo ancora più esplicito Mt 25, 31-46, laddove Gesù afferma, a proposito del servizio reso agli indigenti: “Tutto quello che fate a uno soli di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40). La medesima identificazione la incontriamo anche qui, al v. 5 del capitolo 18, che ho già citato: “Chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me”. Questo versetto va letto peraltro in stretto parallelismo con il v. 20, anche a motivo del tema del “nome” che ricorre in entrambi, anche se in greco è preceduto da due preposizioni differenti.

“Chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome (epì toi onòmati mou), accoglie me.”

“Dove sono due o tre riuniti nel mio nome (eis to emòn ònoma), lì sono io in mezzo a loro.”

La fraternità è radunata nel nome di Gesù, ma rimanere in esso implica accogliere nel suo nome le ferite e i bisogni dei più piccoli. Dunque, ciò che raduna la comunità e la unifica fondando relazioni fraterne non basate sulle emozioni o i sentimenti, è proprio questa disponibilità ad accogliere coloro che più esperimentano un bisogno, una vulnerabilità, una fragilità, un’incredulità,….. E’ in questa integrazione delle ferite che vengono accolte e curate, che la comunità si edifica ponendo il Signore Gesù al suo centro, come pietra di volta o testata d’angolo. Questo è appunto un dinamismo pasquale. Infatti, come ricorda Gesù, concludendo la parabola dei vignaioli omicidi e citando il Salmo 118 (117) “la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo” (Mt 21, 42). Ciò che gli uomini hanno scartato e crocifisso, il Padre lo ha eletto e costituito come Signore, come testata d’angolo o pietra di volta di una fraternità nuova e rigenerata, che ha in Lui la primizia della Risurrezione. Qui possiamo ricordare l’alto magistero del nostro Fondatore e a quelle dolorose vicende personali che lo hanno portato ad affermare: Già vedo e comprendo che la croce mi è talmente amica, e mi è sempre sì vicina, che l’ho eletta da qualche tempo per mia Sposa indivisibile ed eterna. E con la croce per sposa diletta e maestra sapientissima di prudenza e sagacità (…) io non temo di nulla; (…) a passo lento e sicuro, camminando sulle spine, arriverò ad iniziare stabilmente e piantare l’Opera ideata per la Rigenerazione della Nigrizia centrale, che tanti hanno abbandonata e che è l’opera più difficile e scabrosa dell’apostolato cattolico”. (Scritti, 1710; 1733).

Ogni volta che la comunità torna a mettere al centro tutto ciò che secondo una logica mondana sembra invece dover scartare, attualizza in sé questo dinamismo pasquale che fa sì che effettivamente il Signore Gesù, crocifisso e risorto, sia al suo centro, con tutta l’efficacia salvifica e rigenerante della sua Pasqua.

3. Accordarsi nel nome di Gesù

Questo v. 20, in cui si dice che il Signore è in mezzo ai suoi, s’inserisce peraltro nel contesto dell’invito di Gesù a una preghiera comune e concorde:

19In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. 20Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,19-20).

Questa preghiera in comune va peraltro riferita a quanto precede immediatamente nei vv. 15-19, nei quali si parla della pratica della correzione fraterna, che può risultare infruttuosa, a causa dell’ostinazione del fratello che sbaglia, che non ascolta né la parola del singolo, né quella di due o tre testimoni, né quella dell’intera comunità. Allora si può giungere alla misura estrema della separazione dalla comunità, che peraltro nella prassi della comunità delle origini, come testimonierà anche san Paolo, ha sempre un valore terapeutico e salvifico, mai unicamente sanzionatorio. Ma anche questo atto non è l’ultimo gesto che la comunità deve compiere. C’è ancora qualcosa in più che può fare per il fratello peccatore e ora separato, in vista della sua salvezza: può accordarsi per pregare per lui. (cfr. la prassi che dovrebbe essere prevista dal nostro Codice etico interno, dovrebbe ricalcare questo testo di Matteo, inclusa la preghiera per il fratello che sbaglia e che dovrebbe essere ricuperato con ogni sforzo possibile).

Infatti, la parola della fraternità ecclesiale, se può venire rifiutata dagli uomini, trova comunque accoglienza nell’ascolto del Padre, a condizione che sia una parola concorde, pronunciata da una comunità riunita nel nome di Gesù. E’ significativo che qui ciò che deve condurre a questa parola concorde, e dunque all’accordo della comunità, sia proprio il peccato, anche ostinato, del fratello. Il peccato ha sempre una forza e una violenza disgregatrice, che rompe la comunione e compromette le relazioni interpersonali. Sappiamo per esperienza come spesso, nelle dinamiche comunitarie, la colpa e i peccati di qualcuno comportino tensioni, divisioni, differenze di vedute e di giudizi tra i diversi membri della comunità, ad esempio tra innocentisti e colpevolisti, tra chi prende le difese del fratello e chi ne esige la punizione o l’allontanamento, tra chi irenicamente non vede e non si accorge mai di nulla e chi vede sempre troppo, e così via. Per Matteo, al contrario, la comunità è evangelica quando è capace di accordarsi, e dunque di edificarsi in modo concorde nella preghiera unanime per il fratello che sbaglia o ha sbagliato. Anche questo è un dinamismo pasquale: il peccato, che indubbiamente ferisce la comunità e le relazioni al suo interno, se si sa rimanere nel nome del Signore, e dunque nella sua grazia, può essere trasformato in un’occasione in cui la comunità, anziché disgregarsi, si accorda e si edifica secondo legami di più forte comunione.

4. Guadagnare il fratello

La preoccupazione principale per la comunità deve essere – come ancora ricorda un’espressione del testo sulla correzione fraterna – quella di “guadagnare il fratello”.

“Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello” (v. 15).

Si tratta di guadagnare il fratello. Più ampiamente potremmo dire – allargando l’orizzonte, ma guardando nella stessa prospettiva di Matteo – che è la fraternità stessa a dovere essere sempre “guadagnata”. Non è una realtà già data, acquisita in modo stabile, ma va sempre di nuovo guadagnata, proprio a partire, o meglio attraversando quelle lacerazioni che maggiormente la compromettono e ne offuscano il volto. A costruire davvero la fraternità non è tanto la capacità di evitare delle conflittualità, piccole o grandi che siano (perché su questo spesso si fatica in modo vano ed illusorio), quanto la disponibilità a riguadagnare delle relazioni pacificate dentro le tensioni che inevitabilmente si creano. E a riguadagnarla proprio attraverso i tempi della parola, della correzione, del perdono, della preghiera, della ricerca dello smarrito, della cura delle debolezze, della pazienza con cui si è disposti ad attendere la maturazione graduale dei fratelli, così come molteplici e graduali sono le tappe stesse della correzione, del perdono e della riabilitazione.

Occorre guadagnare il fratello. Anche questo è un verbo che rimanda a un orizzonte e a un dinamismo pasquale. Il verbo greco corrispondente ricorre poco nei Vangeli. Nei sinottici è comunque presente negli annunci della passione. Riferendoci al solo Matteo, lo incontriamo nelle condizioni della sequela che segnano e prolungano nella vita del discepolo il primo annuncio della passione.

“Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita?” (Mt 16, 26).

Non bisogna preoccuparsi di guadagnare il mondo intero; bisogna invece preoccuparsi di guadagnare il fratello, perché così facendo non si perde, ma si guadagna anche la propria anima o più esattamente la propria vita. Perché la mia vita, la mia salvezza, il senso compiuto e felice della mia esistenza è indissolubilmente legato alla vita del fratello.

Negli annunci della passione quest’idea del guadagno è sempre connessa alla necessità di una perdita.

“Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16, 25).

Ogni guadagno è connesso e implica una perdita, perché ogni guadagno presuppone che si debba spendere qualcosa. Nella logica pasquale esige soprattutto di domandarsi fino a che punto io sono disposto a spendere me stesso, fino a quale donazione o rinnegamento di me stesso sono disposto a giungere. Questo dinamismo pasquale del perdere la vita per guadagnarla non è soltanto personale, ma è sempre anche un dinamismo comunitario, che investe la fraternità ecclesiale nel suo insieme. Anche nelle relazioni comunitarie il guadagnare il fratello impone la disponibilità a una perdita, a un rinnegamento di sé, che può assumere forme diverse. Più globalmente potremmo dire che si entra in un orizzonte autentico di fraternità proprio quando si accetta di perdere e di rinunciare a un progetto ideale di fraternità e di relazioni comunitarie, per accogliere invece quella promessa di fraternità che — secondo la logica pasquale della croce — è inscritta nelle ferite stesse che una fraternità non ideale, ma molto concreta e fragile, sempre sperimenta e rivela.

5. Tre dimensioni della comunità

Il nostro vivere comune è attraversato da alcune dimensioni, che sono le stesse dimensioni dell’amore che Paolo ricorda nel celebre passo di Efesini 3, 17-19.

17Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, 18siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, 19e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio.

a) L’altezza della fraternità

La fraternità conosce un’altezza che viene generata dall’alto, dalla relazione con il Padre. Il capitolo 18 ruota attorno a due domande dei discepoli. La prima è posta al v. 1 (•) “Chi è il più grande nel regno dei cieli?” La seconda è quella di Pietro al v. 21: (••) “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?” A queste due domande Gesù risponde come sempre andando oltre la domanda e correggendola. A partire dalle due domande, la sua risposta può essere divisa in due parti, la prima è centrata sul tema dei piccoli, mentre la seconda sul tema del dover perdonare sempre e comunque. Entrambe queste due parti si concludono con il racconto di una parabola: quella della pecora smarrita ai vv. 12-14; quella più lunga del servo spietato che perdonato non sa perdonare a sua volta ai vv. 21-35. Di solito Gesù ricorre alle parabole per narrare il modo di essere e di agire del Padre, che trasforma il modo stesso di agire dell’uomo, quando questi si apre ad accogliere la logica diversa e paradossale del Regno. Entrambe le due parabole di Mt 18 si concludono con un’affermazione esplicita relativa all’agire del Padre. Al di là del contenuto delle parabole, è interessante osservare il modo con cui Gesù risponde. Ai discepoli che gli pongono interrogativi su alcune dinamiche relazionali, Gesù distoglie lo sguardo da questo livello orizzontale, per alzarlo verticalmente e fissarlo sul modo di essere e di agire di Dio. Per rispondere occorre guardare al Padre.

Questa dimensione verticale la incontriamo anche nella direzione opposta: non soltanto la comunità deve guardare verso il Padre, ma essa stessa deve sapersi sotto lo sguardo del Padre. I piccoli nella comunità sono coloro i cui angeli nel cielo vedono sempre il volto del Padre, afferma il v. 10. E’ un’espressione simbolica che conosce più significati, ma indubbiamente sta anche a dire che i piccoli sono coloro che, esposti al disprezzo, alla violenza, alla marginalità nelle relazioni interpersonali,… vengono comunque custoditi dalla tenerezza paterna dello sguardo di Dio. Tutto ciò ci aiuta a comprendere che l’invito di Gesù non è soltanto a guardare il Padre, ma anche a configurare il proprio sguardo sul modo stesso che il Padre ha di guardare e di giudicare. Quel modo di guardare che poi si incarna in Gesù di Nazareth che è venuto a cercare, a chiamare e a salvare ciò che era perduto (v. 11). L’invito in negativo è a non disprezzare i piccoli; in positivo esige di guardarli con gli stessi criteri di giudizio di Dio, il cui sguardo si posa con benevolenza su di loro e in loro si compiace. La stima reciproca che è essenziale perché ci siano delle relazioni fraterne, deve trovare il proprio fondamento in questo modo di guardare del Padre. Alla radice della fraternità vi è anzitutto un’attitudine contemplativa. Contemplare implica due atteggiamenti essenziali: (•) fissare lo sguardo del cuore e della mente in Dio e nello stesso tempo (••) sapersi sotto lo sguardo con cui il Padre ci guarda.

b) La profondità della fraternità

Oltre a un’altezza, la fraternità conosce una profondità, una dimensione cioè che scende nella vita di ciascuno. In Mt 18 questa dimensione mi pare emerga proprio dall’invito iniziale di Gesù: “Se non vi convertirete e non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli” (v. 3). La fraternità ha bisogno di questo movimento personale di conversione, che consente di impostare in modo evangelico le relazioni con gli altri. Tutto ciò che viene richiesto (l’attenzione ai piccoli, la correzione, il perdono, la ricerca degli smarriti,…) diviene possibile solo se si è disposti a questo continuo, incessante cammino di conversione personale.

Sottolineo soltanto un aspetto: al v. 7 Gesù afferma: “É inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo!”. In queste parole continua a trasparire una visione realistica: dopo la Pasqua di resurrezione la storia, il mondo, la vita stessa della comunità continuano a essere segnate dell’esperienza del male, che spesso non può essere estirpato subito come accade per la zizzania della parabola del capitolo 13. Tuttavia, se il discepolo non può pretendere di eliminare la zizzania attorno a sé e negli altri, deve al contrario vigilare su se stesso, per non diventare personalmente fonte di scandalo. Mt 18 è enormemente misericordioso nei confronti del peccato del fratello, mentre invita ad essere radicali ed esigenti verso se stessi. “Se la tua mano o il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo e gettalo via da te…”. Gesù cita tre coppie di membra: gli occhi, le mani, i piedi. Sono gli organi corporei con i quali maggiormente ci relazioniamo con gli altri e con la realtà nel suo insieme. Gli occhi sono l’organo del guardare, del comprendere, del desiderio, del giudizio stesso: nel mio può esserci la trave con cui pretendo di giudicare la pagliuzza che c’è nell’occhio del fratello (cfr Mt 7, 3). Le mani sono l’organo dell’agire umano; i piedi quello del camminare, dell’incontrarsi e del relazionarsi con gli altri, andando l’un verso l’altro (il mistero della Visitazione di Maria alla cugina Elisabetta, cf. Lc. 1, 39-44). L’uomo realizza se stesso attraverso queste relazioni: vedendo, agendo, camminando,…. Ebbene, dice Gesù, è meglio mutilare i propri occhi, le proprie mani, i propri piedi, se sono di ostacolo, di scandalo alla fede di qualcun altro o al nostro stesso personale cammino di fede.

Fuor di metafora, questa parola di Gesù ricorda una cosa fondamentale per l’esperienza della fraternità: ciò che davvero è di ostacolo è la pretesa di affermare se stessi e la propria integrità sopra ogni altra cosa. Si tratta sempre del desiderio di diventare grandi. Lo scandalo maggiore che provochiamo e che finiamo poi per subire noi stessi viene proprio dal nostro “io” quando vuole prevalere, primeggiare, farsi grande, come ricorda il v. 1, realizzarsi cioè in un’autosufficienza con cui poi in definitiva crea il proprio inferno, la propria Geenna. E invece, dice Gesù, è meglio entrare nella vita zoppo, piuttosto che essere nella Geenna con tutti e due i piedi. E’ meglio cioè separarsi dal proprio piede, anziché dividersi da un fratello perché si fa fatica a camminare insieme con lui; è meglio separarsi dal proprio occhio anziché imporre il proprio giudizio, o giudicare l’altro con uno sguardo tagliente, duro, esigente, così diverso dallo sguardo di benevolenza del Padre; è meglio separarsi dalla propria mano, quando attraverso di essa si manifesta una volontà di potere, di dominio, di arrivismo, anziché la disponibilità di servire e accogliere le necessità altrui.

Si entra nella vita, e dunque anche nella fraternità, non con una pretesa di autosufficienza, di integrità a tutti i costi, di affermazione di sé, ma sempre un pó mutili, o quanto meno potati, come i tralci della vite (cf. Gv 15, 1-11), nella disponibilità anche a lasciarci portare via qualcosa, a lasciarci strappare a noi stessi, perché il bene del fratello può valere più del mio stesso occhio. Allora se ti portano via la tunica offri anche il mantello, se ti schiaffeggiano, puoi offrire anche l’altra guancia, se ti consegnano alla morte, puoi tornare a dire, nella grazia di Gesù Cristo, il mio corpo è per voi. Indubbiamente questo ferisce, mutila la nostra integrità,… ma fa entrare nella vita. Alla base della fraternità non può che esserci questo atteggiamento di consegna di sé. Una consegna alla bellezza delle relazioni ma che nello stesso tempo espone a dei rischi, a dei malintesi, perché il fratello è anche colui che può peccare contro di te, che non ti ascolta quando lo correggi, che si scandalizza di te o che a sua volta ti causa scandalo. E’ dunque necessaria la consegna di sé. Per il vangelo questa è la logica pasquale dell’appartenenza. Si appartiene se e nella misura in cui ci si consegna. Le relazioni autentiche nascono, vivono e non muoiono, ma solo nell’orizzonte di questa consegna. E’ anche la logica pasquale dell’Eucarestia: è nel momento in cui Gesù si consegna che crea la nuova alleanza, la nuova comunione. Anche il discepolo, ogni volta che celebra l’eucarestia, si impegna a rivivere esistenzialmente, non solo liturgicamente, questa consegna che crea la comunità.

In questa consegna a volte c’è bisogno di perdere un occhio, una mano, un piede, di rinunciare a qualcosa di noi stessi, che poi significa anche giungere a una più profonda unificazione della propria vita. Noi diamo scandalo, e subiamo scandalo quando abbiamo una vita doppia, quando viviamo in una duplicità del desiderio o in una doppiezza degli atteggiamenti. Occorre allora unificare la vita, ricondurla a semplicità, a unità, o, come dicevano i padri greci, a una monotropìa, vale a dire a un’unificazione profonda. La prima sorgente di comunione e di unità, anche all’interno della fraternità ecclesiale, è un cuore, un’esistenza che sanno unificarsi interiormente.

c) L’ampiezza o la larghezza della fraternità

Occorre infine ricordare l’ampiezza come terza dimensione pasquale della fraternità. La dinamica pasquale che pone continuamente al centro coloro che rischiano di rimanere ai suoi margini, comporta sempre per la comunità un movimento dinamico che la conduce costantemente a oltrepassare e a trascendere i propri confini. Ogni volta che ciò che è sul confine viene portato al centro, la comunità vive un movimento continuo di allargamento di sé e di espansione tale da divenire un dinamismo missionario.

La comunità conosce un’altra ampiezza, che è quella che si può definire lo spazio di un respiro lungo. Nella parabola sul servo spietato che perdonato non sa perdonare, con la quale il capitolo 18 si conclude, il verbo greco makrotymein ricorre due volte per indicare la magnanimità, la grandezza d’animo. “Abbi pietà di me” risuona nella parabola due volte: al v. 26, nelle parole con cui il servo malvagio supplica il suo padrone, e poi al v. 29, nelle parole identiche che si sente rivolgere dell’altro servo. La versione della CEI traduce “abbi pazienza con me”, ma più esattamente il testo greco dice “mostra verso di me la grandezza del tuo animo, la tua magnanimità, la tua macrothimìa.”

In alcuni casi la Bibbia greca dei LXX, usa questo termine – macrothimìa – per tradurre un’espressione ebraica più caratteristica, secondo la quale il mite, l’uomo dall’animo grande, viene definito come colui che ha “larghe narici”. Nella visione ebraica l’uomo paziente ha narici larghe, in quanto sa controllare il suo soffio, il suo respiro. Invece chi ha narici strette, il collerico, l’irascibile, si accende presto d’ira e scoppia ansimando, sbuffando: “Per molto tempo ho taciuto, / ho fatto silenzio, mi sono contenuto; / ora griderò come una partoriente, / mi affannerò e sbufferò insieme.” (Is. 42, 14) L’uomo dalle larghe narici è invece l’uomo lento all’ira. Il greco, traducendo questo termine ebraico, trasferisce l’organo dell’ira o della mitezza dalle narici al ♥. Il paziente, il mite, il lento all’ira è il makrothymòs, il magnanimo. Ma in questa espressione ascoltiamo anche l’eco di un significato diverso, che la rende più vicina alla stessa immagine ebraica. Thymòs in greco significa anima, ♥, con una sfumatura che ci ricorda che questo ♥ è sempre tentato all’ira. Thymòs in greco significa anche ira. In modo analogo conosciamo anche in italiano questa vicinanza di immagini, quando parliamo di animo e di animosità. Dunque, letteralmente il makròthymos è un uomo che ha un’ira lunga, nel senso che ci vuole molto tempo perché la sua ira si accenda. E’ l’uomo lento all’ira, che sa controllare il suo respiro, e con esso anche le sue pulsioni, le sue passioni; è un uomo che sa attendere, che sa pazientare. La comunità ha bisogno di questa ampiezza, di un respiro lungo. Ciò significa ad esempio pazientare, attendere i tempi di maturazione dell’altro che sono diversi dai propri, sollecita la capacità di far respirare gli altri, di essere persone concilianti, accoglienti, in grado di concedere ristoro, sul modello dell’umile mitezza di Gesù che può accogliere affaticati e oppressi per offrire loro ristoro (cfr Mt 11, 28-20).

6. Concludendo

Più che sintetizzare il discorso in qualche punto conclusivo, desidero offrire tre domande che possono orientare la meditazione e la preghiera personale:

a) La dimensione pasquale consente alla comunità di lasciarsi edificare non ignorando o fuggendo le proprie debolezze e fragilità, ma ponendole in qualche modo al centro del proprio cammino, come luogo in cui possiamo consentire alla grazia di Dio di manifestare la sua potenza di risurrezione. Neppure noi possiamo ignorare alcune fragilità che in questo momento, più di altre o in modo diverso da altri tempi, possono segnare il nostro cammino comunitario (ad esempio la diminuzione numerica). È importante perciò interrogarsi: con quale atteggiamento le viviamo? Ci potrebbe essere la tentazione della sfiducia, dello scoraggiamento, del tirar i remi in barca ma anche della pigrizia, nel senso della tentazione di ridursi a gestire le cose e le attività con la preoccupazione di fare meno fatica possibile, cercando in qualche modo di garantirsi una vita ‘confortevole’. Occorre vigilanza, per non perdere la vivacità di un desiderio e di una tensione spirituale. Più precisamente: quale fragilità o debolezza notiamo maggiormente e quale atteggiamento diverso ci viene da essa richiesto?

b) Secondo Matteo, due luoghi più di altri diventano ambiti di presenza dell’Emmanuele; quando la comunità è radunata nel suo nome (18,20) (forza centripeta) e quando sempre nel suo nome è mandata a fare discepoli tutti i popoli, (forza centrifuga) battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (28,19-20). La dimensione comunitaria non può essere scissa da quella missionaria. È evidente che c’è una modalità tipica con cui una comunità deve vivere questa tensione tra l’aspetto comunitario e quello della testimonianza evangelica. Ma nello stesso tempo non possiamo dimenticare che non siamo chiamati a vivere insieme per noi stessi, ma per il mondo intero. Quale può essere in questo momento per noi il modo in cui il Signore ci chiede di vivere questa tensione tra la nostra vita comunitaria e la sua apertura al mondo?

c) Matteo ci ha anche ricordato che la misericordia verso gli altri (fino a perdonare settanta volte sette) chiede di essere esigenti verso se stessi (fino a separarsi dalla propria mano se dà scandalo), in un perseverante cammino di conversione. Ognuno di noi potrebbe interrogarsi: quale limite, fragilità, debolezza o peccato vedo negli altri e nella comunità nel suo insieme, che anziché bloccarlo nel giudizio, lo sollecita a una conversione personale? Quale impegno di conversione mi sento particolarmente sollecitato a vivere dal cammino comunitario in questo momento, per non cedere alla tentazione della mormorazione o del giudizio severo senza misericordia? Quale limite riconosco nel cammino comunitario che mi chiama a cambiare qualcosa nel mio atteggiamento e nel mio impegno quotidiano?
P. Antonio Furioli mccj