Sabato 22 febbraio 2014
Il pomeriggio di mercoledì scorso P. Enrique Sánchez G. (nella foto) ha invitato i superiori di circoscrizione e della Direzione Generale dei Missionari Comboniani, riuniti dall’8 al 23 febbraio a Roma, a un momento di riflessione e preghiera. Quale sussidio per questa riflessione ha presentato il tema “San Daniele Comboni: la sua figura e la sua spiritualità nell’oggi dell’Istituto” che pubblichiamo di seguito.

 

San Daniele Comboni,
la sua figura e la sua spiritualità nell’oggi dell’Istituto

In uno dei primi messaggi che ho mandato a tutti i confratelli dell’Istituto, ricordo che facevo un invito a ritornare all’essenziale della nostra vita di missionari e di comboniani. Questo richiamo mi veniva spontaneo, come esigenza voluta dal Capitolo e come sfida inevitabile del nostro tempo e della missione che siamo chiamati a vivere come comboniani in un mondo che cambia velocemente e continuamente.

Sono ormai passati più di quattro anni e più andiamo avanti, più sento l’urgenza, a livello personale e di Istituto, di concretizzare quella conversione, necessaria e urgente, che ci era stata chiesta per rispondere adeguatamente alla nostra vocazione missionaria.

Il ritorno all’essenziale, mi sembra sia rimasto ancora un progetto in attesa, ma senza dubbio, nel momento in cui sarà messo in atto, cambierà molte realtà della nostra vita come persone e come Istituto che sembrano impermeabili e resistenti alle necessarie trasformazioni che ormai non ci lasciano margine per aspettare tempi migliori.

Forse qualcuno si domanda, come faccio spesso, ma che cosa è l’essenziale per noi, per me, per l’Istituto, per le nostre missioni e per la missione in generale?

Alcuni anni fa si parlava di aspetti o di elementi non negoziabili che facevano riferimento al nostro essere, alla nostra identità e al nostro fare o al nostro impegno missionario. Guardando oggi a Comboni, quali sono le dimensioni della nostra vita e del nostro servizio nella Chiesa e in mezzo alla gente a noi confidata che dobbiamo considerare irrinunciabili?


Alcune constatazioni
Ho l’impressione, e mi piacerebbe tanto essere in errore, che oggi nell’Istituto, cioè in ognuno di noi, non esista la consapevolezza di quello che stiamo vivendo come trasformazione profonda a tutti i livelli della nostra realtà.

La realtà nuova del personale nella sua diversità, nella sua interculturalità, nell’internazionalità, ci offre un’immagine arricchita di colori, di sensibilità, di tradizioni, di lingue, di espressioni e sentimenti, di visioni e tanti altri valori. L’Istituto è cambiato e non è più quello che abbiamo conosciuto al momento del nostro ingresso.

Nelle province tante cose stanno cambiando. Sempre guardando soltanto ai missionari, ci accorgiamo che le province che tradizionalmente inviavano gruppi consistenti di missionari, da tempo, non sono nella possibilità di continuare a farlo e vediamo come alcune province siano gestite da personale autoctono, con tutto ciò che questo significa in termini di beneficio, ma allo stesso tempo col rischio di impoverirsi e di confondersi, pensando che tutto è missione.

Tante cose stanno cambiando ed è certamente molto bello vedere come il nostro servizio missionario in tanti posti stia diventando una vera esperienza di collaborazione con Chiese locali che si assumono, anche con difficoltà, la responsabilità del loro futuro.

La missione non è la stessa che hanno conosciuto i nostri confratelli quaranta o cinquanta anni fa. Il mondo e la società sono cambiati e con questo non vi dico niente di nuovo e che già non conosciate.

Tutto cambia, ma sembra che in noi ci siano ancora molte sicurezze, molte convinzioni, una tradizione con i suoi valori, che però diventa pesante, per cui si fa resistenza ad accettare il cambiamento.

Si cerca di andare avanti lavorando sempre su quello che ci sembra sicuro e conosciuto, quello che abbiamo fatto sempre. Il modello di missione che ha funzionato nel passato rimane come la missione da difendere e da non perdere, la missione a cui non si può rinunciare.

Tutto cambia e a noi sta diventando difficile entrare in questa dinamica forse perché ci stano mancando le forze per implementare questo cambiamento. Stiamo andando avanti con un progetto d’Istituto che funzionava molto bene trent’anni fa, quando il personale era molto più giovane e il numero dei missionari era in crescita. Oggi non è più così, ma sembra che facciamo fatica a riconoscere questa realtà.

Oggi le cose sono cambiate e certe strategie diventano insostenibili o semplicemente impraticabili. Pensate per esempio alla rotazione del personale, all’assegnazione dei nuovi ordinati e dei fratelli alla fine della loro formazione. Guardate le province in cui sta aumentando il numero di confratelli anziani e ammalati che hanno diritto a finire la loro missione curati dignitosamente. Considerate anche la fragilità umana e vocazionale di alcuni dei nostri confratelli.

Pensate anche alla nuova sensibilità della società riguardo alle missioni e ai missionari con le oggettive conseguenze per quanto riguarda il sostegno economico e non soltanto materiale.

Non molto tempo fa si cominciava a parlare di nuova geografia delle vocazioni, oggi forse si deve parlare anche di nuova geografia delle missioni se teniamo conto delle periferie di cui Papa Francesco parla spesso, indicandole come i luoghi privilegiati per la missione.

Sono chiare le nuove sfide che si presentano di fronte a noi. La missione è cambiata e ha delle esigenze nuove che non riusciamo a capire e che sembrano andare al di là delle nostre possibilità e della nostra preparazione.

Tornare all’essenziale e alcune conseguenze
Tutto questo, mi sembra, ci obbliga a chiederci non soltanto cosa fare, ma soprattutto come essere per rimanere fedeli al nostro carisma, alla nostra vocazione e al nostro impegno nella Chiesa e nel mondo.

In questa realtà nuova, non possiamo fare altro che tornare all’essenziale e questo vuol dire tornare certamente al Signore, ma più specificamente alla figura e alla spiritualità del nostro padre San Daniele Comboni.

L’esperienza di una spiritualità più consolidata resta ancora come una delle grande sfide per noi. Sono convinto che non si tratti di passare la giornata in cappella e non è moltiplicando le ore di preghiera che si arriva ad una spiritualità più forte, anche se questo può aiutare.

Non sento che la sfida sia come incrementare la pietà nelle persone, né tornare ad un ritualismo che offrirebbe un certo conforto. Sento che la povertà della spiritualità si mostri nella difficoltà che sperimentiamo a parlare dell’opera di Dio in noi: ci costa molto condividere il cammino spirituale che ognuno di noi porta avanti.

A volte mi chiedo se sia questione di un certo pudore che impedisce di aprire il cuore agli altri o se la difficoltà provenga dal fatto che la preoccupazione per la nostra crescita spirituale semplicemente non sia presente in noi. Dico questa senza nessuna pretesa di generalizzare né intendo dire che nell’Istituto tutti vivano la stessa esperienza.

Non è forse vero che continuiamo ad essere molto sensibili a tutto quello che implica un impegno, un da farsi, un ricercare soluzioni e risposte a situazioni problematiche, un rispondere a urgenze di emarginazione, di sviluppo e di difesa della giustizia? Tutte cose buone, ma quanto le viviamo a partire da noi come protagonisti e quanto le assumiamo a partire dal desiderio di Dio per quelli che lui ama?

Con l’arrivo di nuove generazioni di comboniani sento urgente aiutarle a conoscere il fondatore, ad avvicinarsi a lui per farlo diventare il compagno della loro e della nostra consacrazione alla missione.

Oggi non basta far conoscere Comboni con la sua biografia o partendo da alcuni aspetti della sua esperienza missionaria. Bisogna scoprirlo come figura che ci aiuta a vivere la missione oggi con la stessa passione che ha riempito il suo cuore. Come il missionario che ha fatto scuola a tanti missionari che hanno imparato dal suo stile a fare missione e a vivere pienamente consacrati a questa vocazione.

Penso sia questo riferimento al fondatore che può aiutarci a crescere nel senso di appartenenza, altro elemento essenziale della nostra vita. Quell’appartenenza che si trasforma in disponibilità e capacità di donazione totale all’Istituto per la missione. Disponibilità a partire e lasciare tutto, anche quello che amiamo fortemente.

Senza esagerare, devo dire che si stanno moltiplicando i casi di confratelli che fanno fatica a partire con gioia e non accettano la missione come il dono offerto di fronte al quale non si possono avanzare condizioni o inventare pretesti.

C’è consapevolmente e inconsciamente, in alcuni confratelli, il desiderio di fare la missione a misura personale, trovando le giustificazioni per convincersi che quello che si è scelto è la cosa migliore per la missione. Sembra che le missioni dove si rischia di vivere nell’isolamento, in mezzo alla violenza e lontani da certe comodità, oggi, ad alcuni, facciano paura.

Grazie a Dio c’è la testimonianza di tantissimi altri che vivono con gioia la missione difficile e sofferta e penso sia bello ringraziare tanti nostri confratelli che in questi ultimi mesi, senza far rumore, hanno dimostrato quanto la passione per i più poveri sia forte nei loro cuori e hanno rischiato tutto pur di rimanere vicini ai loro popoli, alle loro comunità in missione.

La figura di Comboni, proprio attraverso queste testimonianze, diventa attuale, viva e presente in mezzo a noi. È il Comboni che non si è tirato indietro di fronte alle difficoltà, che non ha rinunciato ad andare avanti anche quando sembrava che tutto crollasse e che tutti stessero per lasciarlo da solo con una missione immensa.

Penso a quello che stanno vivendo i nostri confratelli a Khartoum dove il gruppo è diminuito considerevolmente e dove l’età media è aumentata senza poter fare niente apparentemente. Proprio in quel contesto sembra apparire la figura di Comboni che ci dice che dobbiamo andare avanti senza scoraggiarci perché la sua missione è stata sempre segnata dalla precarietà e Dio non ci ha mai lasciato. Anche questa volta arriverà puntuale all’appuntamento.

Penso al Sud Sudan, dove in pochi giorni abbiamo visto come la speranza di un futuro di pace, necessario per costruire una nuova nazione, è diventata fragile. E la figura di Comboni sicuramente appare in mezzo a noi per ricordarci che lui è sempre stato consapevole del fatto che le opere di Dio nascono dalla croce e Dio continua a scrivere la sua storia anche se a noi risulta difficile capirla e interpretarla.

Penso al Centrafrica, dove il dolore e la morte hanno segnato la storia del popolo, e anche lì, la figura di Comboni penso sia emersa in mezzo ai nostri a ricordarci quanto la nostra presenza sia importante per testimoniare e lavorare in un processo di riconciliazione che si farà nella misura in cui saremo capaci di fare causa comune attraverso il silenzio delle parole e l’eloquenza dei gesti d’amore e di carità.

Tornare all’essenziale mi sembra sia la strada che ci porta a scoprire e a far sentire Comboni presente in mezzo a noi, non come figura eroica e estraordinaria del passato, ma come presenza che ci incoraggia a vivere il presente con uno zelo e una fede capaci di far diventare possibile l’inaudito o il sogno che tutti portiamo dentro, di un’umanità diversa in cui tutti possiamo vivere da fratelli.

Quale strada percorrere?
Di fronte a tante sfide con cui ci troviamo oggi, qual è la strada da intraprendere? Che cosa ci può aiutare ad andare nella direzione giusta e a non sprecare energie?

Riprendo il tema della spiritualità perché mi sembra che non ci sia possibilità di vivere una missione nuova se non c’è in noi uno spirito nuovo, una spiritualità capace di muoverci aldilà di tutti i nostri concetti e dei nostri programmi, dei nostri calcoli e delle nostre strategie.

Se vogliamo diventare significativi e capaci di dire una parola nel contesto odierno della missione, mi sembra che non ci sia altra strada che quella che ci porta ad approfondire la spiritualità del nostro fondatore. Penso, infatti, che siamo tutti convinti che non ci siano state le grandi idee che hanno fatto di lui un grande missionario, ma la forza dello Spirito che ha riempito il suo cuore e la disponibilità a lasciarsi trasformare da questo Spirito.

Questa strada è quella della fiducia totale in Dio e della certezza che è lui che si occupa per primo della missione. Non c’è missione senza fede e questa ci obbliga ad imparare a leggere la storia con uno sguardo che non è il nostro, quello della nostra logica formale.

Sappiamo che Dio ha i suoi tempi e i suoi cammini e questo per noi diventa forza che ci permette di andare avanti, anche se tutto sembra contradditorio e condannato a sparire. È proprio nel momento in cui la nostra debolezza e la nostra incapacità si fanno evidenti che il Signore comincia ad agire. In questi giorni ci è stato ricordato che stiamo per celebrare i 50 anni dell’espulsione dal Sudan. Un momento dei più sofferti della nostra storia, divenuto però, nelle mani di Dio, fecondo per la missione.

Non c’è missione senza croce: siamo chiamati a vivere questa verità sulla nostra pelle perché la croce non consente che diventi tema di speculazioni o insieme di parole per fare poesia.

La croce, la viviamo oggi in tanti modi e attraverso non poche sofferenze. C’è la nostra povertà di personale, i nostri limiti, le nostre rigidità, la tentazione dell’autoreferenzialità, l’arroganza dei nostri schemi e visioni, la nostra incapacità di capire l’altro… E poi c’è la sofferenza che condividiamo con tanti popoli, con fratelli e sorelle che ci sono cari nella missione. C’è la croce dell’incomprensione di quelli che ci impediscono di fare il nostro servizio nella libertà e nella semplicità, sono gli ostacoli che troviamo ogni giorno nella missione da parte di tutti quelli che sono contro il bene che tentiamo di seminare nei cuori.

La missione è un’opera voluta da Dio. Quante volte abbiamo sentito dire a San Daniele Comboni che non abbiamo il diritto discoraggiarci, di vedere il futuro con uno sguardo pessimista. Nella nostra vita il coraggio è fondamentale e non deve essere confuso con l’euforia che allontana dalla realtà. La nostra speranza nasce dalla certezza che la missione è la strada che Dio ha scelto per venire incontro a noi, non è opera nostra e non dipende dalle nostre forze. Dio agisce anche attraverso le nostre debolezze e i nostri limiti e non dobbiamo dimenticare che nella nostra storia non siamo mai stati abbandonati. Quando tutto sembrava perso, Dio ha avuto la delicatezza d’intervenire per far ripartire tutto, come lui ha voluto.

A noi viene chiesta una grande disponibilità che implica la capacità di abbandono totale in modo da essere pronti ad accogliere le sorprese di Dio. Si tratta di un abbandono che esprime la nostra fiducia e la gioia di vivere per gli altri.

Disponibilità che in certo modo deve essere sinonimo di gioia, della gioia che si vive nel momento di mettere a disposizione quello che siamo per andare dove il Signore vuole, senza mettere condizioni. Parlare di disponibilità è anche accettare con semplicità che abbiamo lasciato tutto, che non abbiamo niente da proteggere, da custodire o da conservare. Abbiamo messo le nostre vite a disposizione sua e non possiamo vivere per altro che per Lui e per la missione che ci affida.

Questo significa riuscire a vivere la nostra vocazione come esperienza di una grande libertà che non ci lega a niente e a nessuno e ci aiuta a fare del Signore e della missione l’unico assoluto della nostra esistenza.

Guardare lontano
Penso che solo alla scuola di San Daniele Comboni potremo mantenere uno sguardo fiducioso e positivo verso il futuro, sulla nostra storia e su tutto quello che il Signore si aspetta da noi. In questo momento sento che abbiamo un particolare bisogno di riconoscere la sua presenza in mezzo a noi come padre e primo responsabile del nostro Istituto. Abbiamo bisogno di appropriarci con il cuore della sua figura, cioè, della sua esperienza missionaria e del suo esempio di uomo di Dio.

Per guardare lontano in questo momento della storia che ci tocca vivere – non ho dubbi – è necessario vivere dello Spirito che ha forgiato il cuore di Comboni, modellare la nostra esistenza sulle orme della sua spiritualità in modo da poter offrire delle risposte che vadano al di là delle nostre capacità.

Soltanto così saremo capaci di trasmettere in eredità ai comboniani più giovani, non le nostre immagini – a volte distorte – della missione, ma il dono del carisma che il Signore ha voluto suscitare come dono per la Chiesa e per tutta l’umanità attraverso San Daniele Comboni.

Chiediamo il dono dello Spirito affinché il Signore ci aiuti a discernere e a capire la novità che sta suscitando per noi e per la missione attraverso l’esperienza di trasformazione che oggi viviamo come Istituto.

San Daniele Comboni interceda per ognuno di noi e ci doni la grazia del coraggio missionario che trasformi le nostre vite in modo da farci diventare autentici uomini di Dio per la missione.
P. Enrique Sánchez G. mccj