Martedì 10 marzo 2015
Nella sala capitolare dei Missionari Comboniani a Roma, si è svolta lo scorso 4 marzo la prima di un ciclo di tre conferenze sulla famiglia e le sue ‘periferie esistenziali’, che ha avuto come tema il divorzio e le convivenze, nei suoi aspetti pastorali e in quelli più propriamente legali. L’Avv. Francesca Squarcia (nella foto), del Tribunale di Prima Istanza per la Cause di Nullità di Matrimonio della Regione Lazio ha parlato di tre fasce d’età nella casistica dei divorziati: i giovani dai 20 ai 30 anni; i giovani adulti dai 31 ai 45 e gli adulti dai 46 anni in su. Ognuna di queste fasce d’età ha delle motivazioni diverse, ma in tutte è presente l’incapacità di relazione interpersonale, la scarsa responsabilità verso gli impegni familiari e, nelle fasce più giovani, una mancanza di progettualità agli inizi del matrimonio. Pubblichiamo di seguito il testo della conferenza dell’Avv. Francesca.


Sono Patrono Stabile del Tribunale del Vicariato di Roma, ossia un avvocato del Tribunale Apostolico della Rota Romana incaricato dalla Diocesi di Roma di svolgere in primis attività di consulenza ai fedeli che vivono una situazione irregolare in ambito matrimoniale (separati, separati conviventi, divorziati, divorziati conviventi e risposati civilmente) e poi attività di assunzione del patrocinio nei casi in cui si ravvisino ragioni per chiedere la nullità del sacramento del matrimonio da loro celebrato.

Insieme ai miei colleghi, esaminiamo ciascuno circa 70 casi l’anno, quindi vantiamo – grazie al lavoro di confronto che svolgiamo tra noi – un osservatorio davvero vasto per poter darvi le linee giuda delle ragioni più frequenti di fallimento dei matrimoni celebrati in chiesa. Per chiarezza escludo dal portare alla vostra conoscenza i “casi limite”, ossia quelli che data la singolarità e gravità della fattispecie, sono e rimangono casi unici, che quindi esulano da qualsiasi discorso previo di formazione dei nubendi o comunque richiederebbero un impegno e un intervento da parte dei pastori molto complesso, e quasi sempre insufficiente (casi per esempio in cui uno dei due fa uso di sostanze stupefacenti, è affetto da gravi psicopatologie, ha mentito sulla propria identità ecc.)

Tolti questi casi, quindi, la disamina della stragrande maggioranza di situazioni coniugali mi porta a distinguere tre categorie di casi che arrivano alla mia attenzione, e che coincidono con tre rispettive fasce di età dei soggetti coinvolti: i molti giovani (età tra i 20 e i 30 anni), i giovani adulti (età tra i 30 e 45 anni) e gli adulti (età compresa tra i 45 ed oltre).

1. La prima categoria riguarda matrimoni dei molto giovani (età compresa tra i 20 e i 30 anni di età) che hanno una breve, se non addirittura brevissima, durata (anche appena un mese dalle nozze!), e comunque non superano i due-tre anni di convivenza coniugale. Si caratterizzano drammaticamente per essere stati celebrati sull’onda dell’emozione (classica motivazione: “ci siamo sposati perché – testuali parole – stavamo bene insieme”) e senza alcuna progettualità rispetto al futuro (classica considerazione: “non avevo alcuna consapevolezza del significato del matrimonio come sacramento”).

Rispetto al primo punto, la loro decisione emotiva, fondata appunto sulla percezione molto superficiale delle emozioni che l’altro evoca, chiama in causa il loro profilo di personalità ‘autocentrata’, ossia educata al culto del proprio benessere (esistono loro, e poco altro!), dove appunto gli altri sono al limite vissuti come un prolungamento di se stessi.

Riguardo al secondo punto, la mancanza di progettualità, che caratterizza questi matrimoni, chiama in causa sia la conoscenza teorica molto “liquida”, confusa, che possiedono degli impegni insiti nel matrimonio - sacramento (“per me il matrimonio è l’unione fedele di due persone, orientata alla procreazione, che stanno insieme finché stanno bene”), molto influenzata dalle esperienze familiari (sono spesso figli di separati i trentenni di oggi!), sia la loro incapacità di costruire una relazione interpersonale, non avendo avuti punti solidi di riferimento familiari e sociali ed essendo cresciuti all’insegna del “tutto e subito”(ciò si verifica anche in giovani che hanno alle spalle un buon percorso di studi e lavorativo).

L’impatto con la vita matrimoniale, pertanto, si rivela senz’altro superiori alle loro possibilità umane e spirituali, mancando assolutamente sia di pazienza, spirito di rinuncia, tolleranza alla frustrazione, doti che qualsiasi quotidianità, vissuta a fianco di un’altra persona, richiede, anche nelle situazioni più felici e serene, sia di capacità di ‘prendersi cura e a cuore’ un’altra persona;

2. La seconda categoria riguarda matrimoni che hanno una durata media (massimo una decina d’anni), e si caratterizzano  per essere stati celebrati con una scarsa consapevolezza di se stessi e dell’altro (non ci si mai posti le domande: il matrimonio è una scelta adeguata alle tue caratteristiche di personalità? l’altro è la persona giusta per affrontare questo progetto con te? cosa ti aspetti nel matrimonio? quale ragione ti ha spinto a scegliere proprio lei?) e un progettualità appresa durante gli anni della crescita, ma mai “fatta propria”, ossia mai considerata come parte integrante della propria esistenza, come vocazione.

Con queste premesse nelle loro unioni si verifica nel corso degli anni un grave scollamento tra la propria crescita personale – che spesso avviene in modo solitario, non condiviso, su coordinate del tutto diverse da quelle dell’altro e del progetto coniugale intrapreso – e il progetto coniugale stesso– che avviene quindi più sulla base di un copione dato, che di una vera convinzione.

Si tratta di persone che hanno vissuto il matrimonio come una tappa ‘consequenziale’ del loro percorso di crescita, dando per scontato che nella propria vita, dopo gli studi e il lavoro, deve arrivare il matrimonio. L’altro pertanto viene scelto perché si trova al tuo fianco nel momento storico in cui si ritiene essere giunto il tempo propizio per formare una famiglia.

Il matrimonio in questi casi funziona solo e limitatamente finché dura l’entusiasmo iniziale di costruire questa famiglia.

Terminata la fase iniziale (primo figlio, secondo figlio, cambio di casa, ecc.),i coniugi entrano in crisi, perdono il senso del loro stare insieme, e piuttosto che riappropriarsi del loro “percorso” (magari per esercitare finalmente il famoso ‘salto di qualità’ nella loro vita coniugale), si defilano rinnegando la scelta fatta e per entrare magari il più delle volte in un’altra dinamica di coppia simile a quello che hanno abbandonato.

Questa dinamica relazionale vissuta in questi matrimoni chiama in causa: le gravi carenze personali nell’affrontare il proprio, personale, cammino di maturazione (ci sono nonni chedichiarano in udinza di aver faticato molto per portare avanti questo matrimonio !) e le gravi carenze di coppia nel saper affrontare la c.d. “crisi coniugali” (capacità di chiarire a sè e all’altro le ragioni della crisi, quindi identificarle e attivarsi per rimuoverle e semmai per ‘reinventare se stessi e il proprio stare insieme’).

Anche questi risultano matrimoni privi di consistenza, malgrado la convivenza protrattasi per anni e la nascita di figli, sia dal punto di vista umano(l’altro diventa negli anni sempre più estraneo a te, perché tu, non conoscendo neppure te stesso, non potevi men che meno entrare in relazione con l’altro e tracciare un cammino di condivisione con lui; rimani cioè fortemente ancora proteso ad ultimare il tuo processo di crescita personale e non avvii mai una crescita ‘per e con’ l’altro), sia dal punto di vista spirituale (non si ha coscienza che il matrimonio con quella data persona è un evento che coinvolge profondamente la tua esistenza).

In sintesi manca la capacità di mettersi a nudo e di rimettersi in gioco, di cui però spesso non si sente neppure il bisogno perché manca la coscienza appunto che l’evento – matrimonio è una parte di te e della tua storia.

3. La terza categoria riguarda matrimoni che hanno una durata molto lunga (18 anni e oltre), e si caratterizzano  per essere sorti su ‘nodi’ irrisolti (gravi incomprensioni caratteriali, gravidanze impreviste che hanno lasciato rancori, incastri psicopatologici) che si trascinano per anni –generando anche molta sofferenza – e che ad un certo punto esplodono o perché ormai si è finiti nel tunnel di una pericolosa alienazione distruttiva di sè o perché si vuole perseguire – a dispetto dell’età cronologica – l’ultima opportunità di darsi ‘un’altra chance’ nella vita.

I matrimoni che finiscono nell’autodistruzione di sé si caratterizzano per l’assoluta incapacità degli sposi di aprirsi ad un dialogo interpersonale serio e profondo: spesso – devo dirlo – si tratta di coppie molto motivate sul piano religioso, che tuttavia vivono la fedeltà al progetto senza mai però riuscire a raggiungere una vera comunione con l’altro. Si tratta di coniugi che non hanno mai saputo individuare e correggere le loro dinamiche di coppia, offrendo peraltro un modello deleterio di matrimonio ai figli, che crescono in un ambiente malsano.

Sono matrimoni sui quali si doveva intervenire molto prima, almeno per disinnestare la spirale perversa in cui sono finiti e chissà per riuscire a salvarli dalla fine. Tentativi che richiederebbero molto impegno ed energia, e da trattare ‘caso per caso’.

I matrimoni che finiscono per tornare a rimettersi in gioco si caratterizzano per l’estrema immaturità con cui si è sempre vissuto l’impegno coniugale: scarso interesse per la dinamica familiare, inclinazione narcisista nel vivere la vita, scarsa responsabilità nella gestioni degli impegni.

Situazioni coniugali quindi che si sono perpetuate sull’eccessivo spirito di abnegazione dell’altro, che si rivela tuttavia parimenti sterile per una felice evoluzione del rapporto.

Certamente il mio intervento si è limitato a tracciare solo una pista iniziale di riflessione sui fallimenti matrimoniali, sempre passibile di approfondimento nel futuro.

Ritengo tuttavia che tutte e tre le categorie delineate rimandano ad interventi urgenti in direzione della formazione prima umana e poi spirituale delle persone, fortemente condizionate ed inevitabilmente permeate dalla cultura ‘liquida’ imperante nella nostra società, dove la formazione di una coscienza personale e critica degli uomini e delle donne costituisce ‘a fortiori’ per gli educatori ed i pastori un obiettivo irrinunciabile e prioritario.