Martedì 6 giugno 2017
P. Pietro Ravasio è morto a Milano lo scorso 3 giugno 2017. Una vita dedicata alle missioni. “Se volessi sintetizzare la sua vita – scrive P. Arnaldo Baritussio – direi, una lunga vita operosa a servizio della missione, ovunque l’obbedienza lo abbia assegnato, anche in incarichi prestigiosi. Dotato indubitabilmente di un alto senso dell’Istituto, avvertito da lui come compagine ecclesiale che aveva ricevuto dal Fondatore, S. Daniele Comboni, una esaltante missione evangelizzatrice e trasformatrice dei popoli a cui era stato inviato. Istituto vissuto come famiglia qualificata all’interno della missione della Chiesa da amare e da stimare”.


P. Pietro Ravasio
e P. Giovanni Baccanelli
nella Biblioteca
della Curia a Roma.

 

“Se volessi sintetizzare la sua vita – scrive P. Arnaldo Baritussio – direi, una lunga vita operosa a servizio della missione, ovunque l’obbedienza lo abbia assegnato, anche in incarichi prestigiosi. Dotato indubitabilmente di un alto senso dell’Istituto, avvertito da lui come compagine ecclesiale che aveva ricevuto dal Fondatore, S. Daniele Comboni, una esaltante missione evangelizzatrice e trasformatrice dei popoli a cui era stato inviato. Istituto vissuto come famiglia qualificata all’interno della missione della Chiesa da amare e da stimare. Una famiglia ancora, come comunità di persone, alla cui vicinanza e alla cui luce poter vivere per grazia comunanza di fede, di ideali, in una feconda interazione tra memoria del passato e slancio verso il futuro. E nonostante alcune asperità del carattere, eppure gioioso di vivere in una comunità, sensibile alle relazioni umane, attenta ai piccoli gesti di gratuità e allo stesso tempo capace di saper cogliere in essa le persone eminenti come dono fatto dal Signore, non solo per ammirarle, ma come anche stimolo verso il futuro”.

P. Pietro Ravasio nacque a Redona, provincia di Bergamo, il 24 maggio 1932. A Gozzano emette il 9 settembre del 1951 i primi voti. Formazione filosofica e teologica a Verona e all’Università Pontificia di Propaganda Fide (dal 1951 al 1958). Ordinato sacerdote l’11 marzo 1958, è subito assegnato all’Etiopia ad esercitare l’insegnamento nel seminario di Rito Alessandrino Etiopico e poi al Comboni College dell’Asmara, come direttore delle scuole elementari e professore, dal 1959 al 1966.

Nel 1973 lascia l’Etiopia ed è chiamato a Roma al Segretariato Generale delle Missioni dove rimase fino al 1978. Nel 1978 raggiunge il Sud Sudan, assegnato alla diocesi di Tombura-Yambio fra il popolo Zande (1979-1990): prima superiore a Nzara e poi incaricato del Centro Catechetico Nazionale.

La Direzione Generale lo riserva ancora per ulteriori e delicati incarichi. Conoscendolo, di lucida intelligenza, appassionato della storia dell’Istituto e delle sane tradizioni, rigoroso, convinto custode della memoria viva dell’Istituto gli affida l’Archivio Generale e la Biblioteca della Curia, dal 1993 al 2011.

Dopo 18 anni passati come Archivista Generale e Bibliotecario della Curia Generalizia avrebbe potuto, alla bella età di 80 anni, chiedere e considerarsi pensionabile ed invece gli è concesso di rimanere in Curia dal 2011 al 2015 per dedicarsi allo studio di alcune figure di rilievo come «ricercatore storico su confratelli, fatti determinanti, cambiamenti di esperienze e delle sane tradizioni…».
Muore a Milano il 3 giugno 2017.



P. Pietro Ravasio nella Casa Generalizia
dei Missionari Comboniani a Roma
nel 2012.

 

RICORDANDO P. PIETRO RAVASIO
MISSIONARIO COMBONIANO
(Milano, 5 giugno 2017)


Testo dell’omelia pronunciata da P. Arnaldo Baritussio che ha presieduto la Messa di esequie.

Siamo qui convenuti per rendere grazie e fare memoria della fedeltà di Dio al suo disegno di amore salvifico sul mondo e in particolare su P. Pietro Ravasio, attorniato dalle molte persone che gli hanno voluto bene, e, a vario titolo, hanno percorso assieme a lui un cammino di impegno e di fedeltà alla vocazione missionaria. Un missionario che trasmigra verso la patria beata non compie mai un tragitto anonimo, silenzioso, separato da tutto e da tutti. Con lui e assieme a lui va la famiglia comboniana e i popoli che ha incontrato e servito per amore al Vangelo annunciato: quelli qui presenti, con la loro preghiera, e quelli  che lo attendono nella comunione dei Santi.

Le letture, che abbiamo appena ascoltato, danno il tono a questa celebrazione e ci fanno vedere la forza perenne della risurrezione che è capace di superare la parola fine per mostrare il fine di tutto il nostro percorso terreno. La prima lettura del profeta Isaia (Is. 25,6.7-9) ci consegna una visione, un orizzonte missionario, quindi una speranza. Solo una nuova visione potrà rivitalizzare la/le persone, la comunità ecclesiale e civile, gli Istituti ecc. Qualcuno giustamente ha detto: «Quelli che credono solo in ciò che vedono hanno già perso. Quelli che vedono ciò in cui credono hanno già vinto». Gente capace di sognare il sogno di Dio a qualunque età. Ecco il sogno di Dio, sempre al di là degli steccati o delle barriere rappresentante da culture esclusive; da paure che ci rinchiudono dentro le nostre autodifese, i nostri limiti, le nostre aggressività sospettose. Il sogno missionario di Dio è la nuova Gerusalemme in cui si radunano i popoli dal volto gioioso perché Dio ha tolto dal loro viso l’ombra di tristezza che li affligge. Particolarmente significativo, questo orizzonte sempre più ampio, perché anche P. Pietro lo ha vissuto attraverso proposte di trasformazione e di formazione con popoli che attualmente soffrono terribili esperienze di violenza, di guerre, di emigrazioni interne ed esterne, di ideologie totalitarie:(pensiamo solo al Sud Sudan e all’Eritrea).

E non può avere questa visione audace e liberante chi si chiude in se stesso per paura dell’altro e del futuro, chi non vuol pensare, né vedere, chi vive nel pessimismo. Lo dice in maniera plastica la seconda lettura per bocca di San Paolo rivolgendosi ai fedeli di Roma: «Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi» (Rm 14, 7-9). Scorrendo la lunga vita missionaria di P. Pietro missionario vediamo che certamente non è uno che ha vissuto per se stesso. È certamente uno che ha vissuto ed è morto per il suo Signore conservando la memoria viva dei volti incontrati. E chi conserva la memoria significa che ha molto amato i fratelli e li sente vivi dentro di sé. Ha quindi una visione, con i suoi ricordi e anche con le sfide che la accompagnano.

Anche il Vangelo di Gesù, che oggi ci parla dell’evento occorso a Naim (Lc 7,11-16), ci pone di fronte a una nuova visione capace di generare speranza. Dove tutto sembrava confluire nella morte, Gesù ha mostrato la vita, la forza dell’amore del Padre in Lui che ha il potere di dar vita a ciò che è morto, di riaprire continuamente il discorso, proprio lì dove sembrava dover esserci la fine di tutto. A Naim Gesù si scontra con la fine di ogni ulteriore possibilità, di ogni ulteriore pensiero, di ogni ulteriore speranza: «Morte del figlio unico di madre vedova». Ed è proprio qui, che Gesù si contrappone con tutta la sua esperienza che gli viene dalla visione dell’amore del Padre. «Si commosse» dice il Vangelo. Gesù ha il Cuore di Dio, ha «le viscere» di un Dio che è Padre e Madre e può pronunciare una parola nuova: «Non piangere…Ragazzo, dico a te, alzati!». In lui e con Lui, la morte è vinta. Noi abbiamo conosciuto persone che con la loro visione continuano a sconvolgere il mondo, ad aprire luoghi di dialogo, a generare vita e speranza dove sembrava esistere solo buio: Un San Daniele Comboni, con il suo sogno, ha aperto un futuro di rigenerazione proprio per quell’Africa che sembrava dover sottostare per sempre all’abbandono, alla violenza, al sopruso, alla schiavitù, alla dimenticanza. Nasce la cospirazione di tutte le forze per la rigenerazione dell’Africa: sacerdoti, fratelli, suore, laici in nuova relazione; nasce un nuovo cammino, che è molto più di uno slogan: «Salvare l’Africa con l’Africa». Per il suo amore per la storia viva dell’Istituto e delle sue sane tradizioni P. Pietro consegna una visione che sa di futuro.

Considero perciò un grazia la circostanza della morte di P. Pietro nell’anno in cui stiamo celebrando il 150° della nascita dell’Istituto comboniano e sappiamo come la vita di P. Pietro, 85 anni, di cui 66 di vita consacrata missionaria e 59 di vita sacerdotale, rappresentino un lascito importante per il grande amore e stima che sempre ha manifestato per la famiglia comboniana e per la sua storia missionaria e la convinzione che in questa stessa storia ci sono ancora dei valori da scoprire per rivitalizzare la nostra presenza missionaria.

Sono venuto qui per incarico della Direzione Generale dell’Istituto e delle diverse comunità della Curia Generalizia, dove P. Pietro ha vissuto alcuni anni degli anni più significativi del suo servizio missionario, prima come Segretario generale per le missioni dal 1973-1978, e poi come Archivista e Bibliotecario, dal 1993 al 2015, per portargli l’affetto, la stima e la gratitudine di tutti.

Se volessi sintetizzare la sua vita direi, una lunga vita operosa a servizio della missione, ovunque l’obbedienza lo abbia assegnato, anche in incarichi prestigiosi. Dotato indubitabilmente di un alto senso dell’Istituto, avvertito da lui come compagine ecclesiale che aveva ricevuto dal Fondatore, S. Daniele Comboni, una esaltante missione evangelizzatrice e trasformatrice dei popoli a cui era stato inviato. Istituto vissuto come famiglia qualificata all’interno della missione della Chiesa da amare e da stimare. Una famiglia ancora, come comunità di persone, alla cui vicinanza e alla cui luce poter vivere per grazia comunanza di fede, di ideali, in una feconda interazione tra memoria del passato e slancio verso il futuro. E nonostante alcune asperità del carattere, eppure gioioso di vivere in una comunità, sensibile alle relazioni umane, attenta ai piccoli gesti di gratuità e allo stesso tempo capace di saper cogliere in essa le persone eminenti come dono fatto dal Signore, non solo per ammirarle, ma come anche stimolo verso il futuro.

So che forse questo vi sorprenderà, come ha sorpreso anche me, scoprire la sua sensibilità di sentire l’Istituto come la somma di molti volti caratterizzati, luogo comunitario che Dio aveva scelto per prepararlo ad essere convinto annunciatore della parola. E questo lo dico basandomi sulla rilettura che lui stesso fa nel 50°di Messa del suo percorso umano e missionario. Rilettura così modulata fin dall’inizio della sua vita.

Nato a Redona prov. di Bergamo il 24 maggio 1932. Cosi ricordava i suoi inizi nella comunità familiare e parrocchiale «Il primo grande dono è stata per me la famiglia: dove mi hanno insegnato a pregare dove, con i nonni e fratelli ho fatto la . prima esperienza di comunità. Anche la parrocchia, arricchita da due comunità religiose dei Monfortani e delle Suore Sacramentine, mi ha coinvolto e inserito nella esperienza della Chiesa. Nella primavera del 1943 P. Luigi Villa proprio in parrocchia parlò dell'Africa e fece la proposta vocazionale». La vocazione quindi nasce per la grazia di una comunità riconosciuta come il grembo degli inizi di una storia di generosità, la sua.

Degli anni della sua formazione religiosa a Gozzano (emette il 9 settembre del 1951 i primi voti), e della formazione filosofica e teologica a Verona e all’Università Pontificia di Propaganda Fide (dal 1951 al 1958), cosa ricorda? Ricorda a Verona la comunità concreta delle persone che lo hanno formato anche con la loro semplice, ma significativa presenza: da P. Antonio Vignato, generale emerito a P. Otto Huber, ambedue pionieri e testimoni della nostra tradizione. Dell’Università Urbaniana, ricorda «l’amicizia con  compagni di studio da ogni parte del mondo. Questa comunanza – scrive – contribuì alla mia formazione. Fra gli insegnanti ne ricordo solo tre, anche se tutti lo meriterebbero: P. Cornelio Fabbro in filosofia e Mons. Salvatore Garofalo per l'esegesi biblica e P. Piero Chiocchetta per la brillante espositiva della Storia della Chiesa e per la vicinanza abitando assieme a noi scolastici a San Pancrazio». Lo studente di teologia Pietro Ravasio sente la vita dell’Istituto come una vita a grappolo in cui contenuti e prospettive missionarie si trasmettono quasi per osmosi.

Ordinato sacerdote l’11 marzo 1958, è subito assegnato all’Etiopia ad esercitare l’insegnamento nel seminario di Rito Alessandrino Etiopico e poi al Comboni College dell’Asmara, come direttore delle scuole elementari e professore, dal 1959 al 1966. Anche qui evidenzia la coscienza di essere stato inserito in un progetto comunitario di Istituto dedicato all’attività formativa, ma sempre nel quadro di un’attività di prima evangelizzazione e di trasformazione secondo il motto comboniano del «salvare l’Africa con l’Africa». Racconta, - sempre nei suoi ricordi per il 50° di sacerdozio-, «dopo un viaggio in nave da Napoli a Massawa, salii sull'altipiano con la "Littorina Breda" che si arrampicò oltre i 2.000 metri. La missione sognata si presentava sotto tutt’altra forma. La città dell’Asmara era moderna e pulita e l'incontro con i giovani seminaristi, più di cento, mi riportò subito alla realtà e capii come anche quel servizio fosse vera missione. Poi, aiutante del Pro Nunzio Mons. Giuseppe Moioli: alla nunziatura di Addis Abeba: «ho imparato – scriveva – a considerare con rispetto il servizio diplomatico della Santa Sede: quasi sempre nascosto, di grande appoggio alla Chiesa locale, ispiratore o attore di ogni progetto di promozione umana e di attività pastorali.» Riguardando più tardi al Collegio, dopo la nazionalizzazione degli anni ottanta, conclude positivamente: «Si può dire che non fu tempo perso. Gli ex alunni sono presenti in molti posti chiave e portano i valori che hanno appreso da noi».

Nel 1973 lascia l’Etiopia ed è chiamato a Roma al Segretariato Generale delle Missioni dove rimase fino al 1978. «Se finora, scrive, avevo potuto fare qualcosa solo perché aiutato da tutti, nel nuovo ufficio, dopo la partenza di Mons. Bartolucci dopo poche settimane, furono i confratelli della curia e fra tutti il P. Tarcisio Agostoni ad indirizzarmi ed aiutarmi. AI segretariato allora era unito sia l'ufficio viaggi che la procura delle missioni. Di questi anni dirò solo che il contatto con i confratelli fu per me una continua scuola. Da parte mia, qualche piccolo servizio, da loro normalmente un grande esempio». Di nuovo ci sono due momenti dell’Istituto, che  considera particolarmente significativi. La riunione con i confratelli comboniani del ramo tedesco e l’apertura dell’Istituto verso l’Asia. Eventi comunitari che gli fanno vibrare le corde dell’appartenenza. Gli fu dato partecipare a questi due grandi eventi:  nel primo come spettatore silenzioso e nell’altro come scrivano. Scrive: «Due eventi che porto scolpiti sempre nella mia memoria. Al Capitolo Generale del 1975, vi ho partecipato come delegato del distretto della curia. Fu quello in cui vennero decisi i passi per la riunione. In un incontro congiunto ad Ellwagen, in Germania, i rappresentanti dei due Istituti votarono all'unanimità per la riunione. Ciò fu approvato da Propaganda Fide e si realizzò nel Capitolo del 1979. Poi il Viaggio esplorativo in Asia con P. Agostoni . nella primavera del 1977: questo viaggio fu deciso dalla Consulta in vista del Capitolo del 1979: Il mio ruolo era solo quello di accompagnare e fare i verbali degli incontri. Degli 11 paesi visitati quelli che più mi hanno impressionato sono stati il Pakistan, per la sua povertà, e le Filippine dove più tardi iniziò la nostra presenza comboniana in Asia.

Sarebbe stato comodo piantare le tende a Roma. Invece, nel 1978 raggiunge il Sud Sudan, assegnato alla diocesi di Tombura-Yambio fra il popolo Zande (1979-1990): prima superiore a Nzara e poi incaricato del Centro Catechetico Nazionale. Ancora in prima linea, in servizi qualitativi. «Il mio compito, – scrive – che occupò otto degli undici anni, era quello di organizzare il Centro di Catechesi della diocesi. Passai un anno e mezzo da solo ed allora ho sperimentato come i cristiani diventino subito responsabili della loro chiesa se sono stati introdotti e sono convinti di una realtà: di formare un solo corpo ed essere membra gli uni degli altri. Tuttavia deve rientrare in Italia nel 1987 per uno stato di affaticamento, uno «stato depressivo». La vita comunitaria non ha solo le sue delizie, ma anche le sue croci. Le difficoltà del vivere comunitario. C’erano delle perplessità nei suoi confronti per il suo metodo e le sue relazioni con le persone. Allora prima di rientrare scrive al vescovo una lettera che gli fa onore e che tanto ci può insegnare. Domande molto franche ½e dirette, veramente belle e dolenti, che manifestano un vero amore per la missione. Eccole. «Eccellenza, pensa che il mio ritorno possa essere di beneficio per la Chiesa del Sudan? Potrei ritornare al Centro catechetico o lei mi propone un altro servizio? Quali sbagli dovrei evitare? Lei pensa che io sia accettato dal clero e dai cristiani?  Mi ricordi nelle sue preghiere che io farò altrettanto nella mie». Naturalmente ritornerà accolto a braccia aperte. Un missionario che dopo tanto spendersi, mette in discussione se stesso senza perder la speranza, è non solo da ammirare , ma da imitare!

La Direzione Generale lo riserva ancora per ulteriori e delicati incarichi. Conoscendolo, di lucida intelligenza, appassionato della storia dell’Istituto e delle sane tradizioni, rigoroso, convinto custode della memoria viva dell’Istituto gli affida l’Archivio Generale e la Biblioteca della Curia, dal 1993 al 2011. Dopo 18 anni passati come Archivista Generale e Bibliotecario della Curia Generalizia avrebbe potuto, alla bella età di 80 anni, chiedere e considerarsi pensionabile ed invece gli è concesso di rimanere in Curia dal 2011 al 2015 per dedicarsi allo studio di alcune figure di rilievo come «ricercatore storico su confratelli, fatti determinanti, cambiamenti di esperienze e delle sane tradizioni…».

Scrive al padre Generale e al suo Vicario: «Bisogna confrontarsi con la Memoria, la Storia e la tradizione. Personalmente non ho alcuna attività che mi distragga, eccetto le varie visite a Negrar per la salute. Se ho accettato questo servizio, è dovuto alla convinzione – storicamente dimostrata – che ogni Santo Fondatore, così S. Daniele Comboni, vive nell’eternità e contemporaneamente è presente- e lo è stato dal 1881 per 131 anni presente e operante nel nostro Istituto. Come Mosè non poté entrare nella terra promessa e finire il suo lungo e difficile viaggio dall’Egitto alla libertà, così per lui, per il Comboni, e per tutti… è Dio che porta a buon fine ogni opera di salvezza. Vi chiedo solo pazienza perché non sono personalmente incline né all’improvvisazione, né a copiare…e per questo occorre tempo, silenzio, studio. Fraternamente P. Pietro Ravasio.

Padre Pietro partendo lascia un compito e uno stimolo alle nuove generazioni di comboniani: non essere semplici trasmettitori delle esperienze passate, «abbiamo già una letteratura immensa e quasi su ogni aspetto della nostra vita –scriveva -. C’è allora qualcosa di nuovo da dire, senza ripetersi, soprattutto svelando quelle perle preziose che sono rimaste nascoste» e che ci possono spingere verso una nuova configurazione dell’Istituto per essere fedeli al carisma missionario.

Che Dio ti ricompensi P. Pietro per tanto appassionato amore per le missioni, per tanta costante operosità e per la speranza con cui ci inviti a guardare verso il futuro dell’Istituto.

Concludo con quanto dicevo all’inizio: «Quelli che credono solo in ciò che vedono hanno già perso. Quelli che vedono ciò in cui credono hanno già vinto». Per questo, caro P. Pietro, hai già vinto! Vivi con il tuo Signore assieme ai comboniani e comboniane cheti hanno preceduto e ai fedeli che hai contribuito a formare. Aspettaci e accompagnaci!
P. Arnaldo Baritussio