Giovedì 4 settembre 2025
Alle Giornate di spiritualità missionaria della Fondazione Misso i racconti di chi vive tra le persone ai margini: dal Kenya al Brasile, dal Bangladesh a Rebibbia. «La mia responsabilità è quella di essere un artigiano di speranza vero, ossia fare un lavoro di qualità. Noi missionari siamo chiamati a fare bene il bene ovunque siamo, al di là della buona volontà», ha detto padre Maurizio Binaghi, missionario comboniano.
«La mia responsabilità è quella di essere un artigiano di speranza vero, ossia fare un lavoro di qualità. Noi missionari siamo chiamati a fare bene il bene ovunque siamo, al di là della buona volontà. Dobbiamo imparare a relazionarci alla pari, avere l’umiltà di imparare dagli altri, perchè c’è un senso inconscio di superiorità occidentale anche tra chi va in missione».
A dirlo, nel corso delle quattro giornate di Spiritualità Missionaria della Fondazione Missio ad Assisi (dal 27 al 30 agosto) è un comboniano in “prima linea»: padre Maurizio Binaghi, l’unico italiano rimasto nella discarica-baraccopoli di Korogocho a Nairobi, anche testimone diretto delle rivolte di piazza contro la corruzione e le diseguaglianze in Kenya. Quando parla di Kevin, uno dei suoi ragazzi, ucciso «con un colpo in testa lo scorso anno» dalle forze armate repressive di William Ruto, padre Maurizio si commuove e interrompe la narrazione. «Questi ragazzi, la gen Z del Kenya, hanno un coraggio immenso!», prosegue.
«Kevin aveva in mano un cartello con delle scritte, era assolutamente non violento ma la polizia ha sparato e lui era sulla traiettoria di quel proiettile che lo ha centrato in pieno». Per il comboniano che si ispira agli insegnamenti del confratello martire Ezechiele Ramin, la missione è una scuola, un percorso di crescita personale. «Io ho studiato teologia, ma poi ho imparato dalla strada», confida. La sua quotidianità è fatta di relazione: «Molti ragazzi qui sniffano di tutto: acquaragia, acetone, diesel perché sniffando tolgono lo stimolo della fame ma assieme alla fame anche tutti i freni inibitori saltano».
È con loro che bisogna stare, affermano lui e il fidei donum Gabriele Burani che arriva dalla missione brasiliana. Ma per padre Maurizio così come per don Gabriele, appena rientrato dall’Amazzonia, si pone forte il dubbio: «Noi finora abbiamo evangelizzato o abbiamo solo catechizzato?». Questa è una Chiesa missionaria che ha più domande che risposte e una sola certezza: la speranza non è una cosa astratta e vana. Anche dove non ci sarebbe alcun motivo per sperare, la fede ribalta le carte in tavola.
«La parrocchia affidataci è sul fiume ma lungo il fiume non scorre solo acqua, naviga anche la polverina bianca», che viene contrabbandata da un Paese all’altro, racconta don Gabriele. «Abbiamo quindi pensato a delle proposte per i giovani, per i ragazzi del posto: sport, scuola di musica, teatro e circo per oltre 300 ragazzini coinvolti», spiega. «Io non credo in un Dio onnipotente, credo in un Dio debole che è vicino ai miei ragazzi che sniffano, un Dio che è lì con me in ogni momento», confida invece padre Maurizio.
Questi missionari, come anche suor Roberta Pignone, medico missionario in Bangladesh, dove dirige il Damien Hospital di Khulna, unica struttura specializzata nella cura dei malati di lebbra, si definiscono «artigiani di speranza che cuciono relazioni». Originaria di Monza, missionaria dell’Immacolata dal 2006, suor Roberta vuole essere «balsamo per le ferite di chi arriva». Ma il suo primo approccio con il Bangladesh è stato duro: «Sono arrivata a 40 anni dalla diocesi di Milano, arrivavo da una Chiesa bella e viva», ricorda. In Asia invece si ritrova tra tanta povertà materiale e spirituale e molta fatica. Poi succede qualcosa di inaspettato.
«Un padre saveriano che era con me in missione ha avuto un ictus che non è stato curato ed è morto – racconta – e io nella cappella ricordo di aver detto a Gesù: “questo è un Paese molto molto duro, ma aiutami ad amarlo”. Allora c’è stata una conversione in me. Adesso ho una certezza: c’è un motivo per cui io sono qui e non posso non essere balsamo per loro».
I racconti di missione e speranza durante queste Giornate di seminario volute dalla Fondazione Missio e giunte alla ventitreesima edizione, sono state molte e tutte diverse: suor Paola Vizzotto, ad esempio, missionaria dell’Immacolata da oltre 45 anni, prima in Camerun e oggi a Roma, opera con i carcerati. «Non ho scelto io il carcere ma il carcere ha scelto me», ripete. Racconta la sua esperienza di missione a Rebibbia, nel braccio femminile dove ci sono tra le 360 e le 380 donne: «Mi chiamano zia, nonna, ma’, suora e io sono felice.
Le mie preferite sono le donne rom». In carcere ascolta confidenze, accoglie confessioni, richieste di piccola complicità, dolori, rabbie, paure. «La verità si dice al giudice, all’avvocato – confida –. A noi missionari si dice la vera verità! Ho scoperto tante cose sulla verità stando a Rebibbia». L’importante per tutti questi testimoni sinceri, talvolta scomodi e sempre aderenti alla Parola è che la Chiesa non sia clericale ma aperta all’intero popolo, che non discrimini ma che ribalti le narrazioni.
Ilaria De Bonis – Avvenire