Sabato 6 dicembre 2025
Nel cuore di un Sudan ferito dalla guerra, dove milioni di persone vivono in condizioni di estrema precarietà, l’impegno educativo della Chiesa continua a rappresentare uno dei pochi punti fermi per migliaia di giovani. Tra le istituzioni che resistono c’è il Comboni College of Science and Technology di Khartoum, guidato da padre Jorge Naranjo Alcaide, missionario comboniano e direttore dell’ateneo dal 2012. La sua vocazione, nata in modo improvviso durante gli anni universitari, lo ha portato a dedicarsi totalmente alla missione in un Paese segnato da conflitti, instabilità e profonde ferite sociali.

Ci racconta brevemente come è nata la sua vocazione, da quanto tempo si trova in Sudan e di cosa si sta occupando?
Tra il 1992 e il 1997, sono stato studente di fisica all’Università Complutense di Madrid. Il 25 novembre 1996, mentre lavoravo con matrici quantistiche da solo in silenzio, ho avuto il forte sentimento e la convinzione, è stato come un colpo di luce, che Dio voleva che diventassi un sacerdote missionario. A quel tempo, i Missionari Comboniani stavano organizzando un incontro a Madrid per giovani interessati al lavoro missionario. Quando sono entrato nella loro casa, ho capito che questa era la mia vocazione. Ho completato l’anno accademico 1996-1997 nella facoltà di scienze fisiche e poi ho iniziato la mia formazione con i Missionari Comboniani. Dopo tanti anni di formazione in filosofia, teologia e lingua e cultura araba sono arrivato in Sudan a settembre del 2008. Da dicembre del 2012 sono direttore dell’ateneo universitario che i missionari comboniani gestiamo a Khartoum assieme alla chiesa e la popolazione locale, il Comboni College of Science and Technology.

Quale ruolo riesce a svolgere la Chiesa locale, grazie anche a voi missionari, nell’ambito educativo e nella costruzione della pace?
Prima della guerra le scuole cattoliche, soltanto allo Stato di Khartoum, educavano più di 25,000 studenti. Oltre scuole primarie e licei in tanti posti del paese, la chiesa attraverso i salesiani gestiva due centri di formazione professionale, uno a Khartoum e l’altro ad El Obeid. Tutte queste istituzioni educative e l’università si sono caratterizzate dalla gestione della diversità culturale e religiosa in  periodi in cui, ad esempio, la dittatura di Omar al-Bashir ha tentato di imporre un’identità araba ed islamica su una nazione particolarmente ricca di etnie e culture. La coesistenza di studenti provenienti da tribù o gruppi coinvolti in conflitti armati ha senza dubbio rappresentato un chiaro contributo alla pace. La Chiesa in Sudan è sempre stata particolarmente nota per aver offerto opportunità educative ai rifugiati provenienti da Sud Sudan, Eritrea ed Etiopia ed agli sfollati a causa dei vari conflitti che hanno afflitto il Paese dal 1955, incluso quello attuale. Nel campo della salute, diverse congregazioni femminili, come i Missionari Comboniani e le Suore Carmelitane, hanno gestito reparti di maternità, cliniche e altre strutture sanitarie. E ovviamente non si può dimenticare tutto il lavoro pastorale nelle varie parrocchie del Paese, dove la maggior parte dei parrocchiani appartiene agli strati più bassi della società, cittadini del Sud Sudan o sudanesi dei Monti Nuba.

Nella lettera apostolica “Disegnare nuove mappe di speranza” papa Leone XIV ha ricordato le tante “costellazioni educative” nate in ambito cattolico, “faro nella notte per guidare la navigazione”. In una situazione complessa come quella sudanese, riuscite ad essere “comunità educante” che valorizza l’apporto di tutti? In un contesto a maggioranza non cristiana, in che modo il Comboni College contribuisce al dialogo interculturale e interreligioso?
Il Comboni College e le istituzioni educative della Chiesa hanno sempre lavorato da lunedì a giovedì e il sabato per osservare le festività cristiane (domenica) e musulmane (venerdì). Agli studenti è stata inoltre offerta la possibilità di scegliere un insegnante musulmano o cristiano per le loro lezioni di religione. Sono stati creati anche spazi di preghiera nei nostri locali per i credenti di entrambe le fedi. Inoltre, vengono celebrate le festività di entrambe le religioni: Natale, Pasqua, la fine del Ramadan, la Festa del Sacrificio e altre. Quindi abbiamo cercato di creare lo spazio dove ogni persona, indipendentemente della sua cultura o religione, si senta a casa o con la possibilità di imparare ma anche di crescere spiritualmente. Si tratta di far sì che l’esperienza al College diventi un modello di una società dove tutti sono rispettati come sono. Un altro ambito di dialogo è il lavoro dei volontari nelle cure palliative. Il reparto infermieristico del Comboni College forma questi volontari che servono la comunità con persone affette da malattie terminali e croniche. Sono musulmani e cristiani mossi dalla misericordia verso coloro che soffrono. I musulmani iniziano la loro preghiera nel nome del Dio compassionevole e misericordioso. Gesù Cristo ci rivela il volto misericordioso del Padre. Pertanto, la misericordia è il terreno comune che li spinge a trasformare la comunità. Di fronte alla morte, musulmani e cristiani condividono paure simili. Il team di cure palliative pratica costantemente il dialogo interreligioso accompagnando coloro che soffrono e le loro famiglie. I nostri studenti universitari anche sono incoraggiati a far parte dei volontari perchè possano esperimentare la bellezza del servizio all’più bisognoso.

Quali sono le principali sfide che state affrontando oggi, considerando la situazione politica, sociale e il conflitto in corso?
La sfida principale è l’instabilità e l’incertezza che la guerra crea riguardo al futuro. Ad esempio, lo stato di Khartoum ha attualmente una popolazione stimata di circa 5 milioni di persone. Queste persone necessitano di assistenza pastorale, sanitaria e istruzione, tra le altre cose. Ma per farlo si  richiede investimenti specifici per riabilitare delle strutture danneggiate o distrutte dalla guerra. Allo stesso tempo, le milizie RSF non sono lontane dalla capitale, quindi investire nella riabilitazione di edifici che potrebbero diventare teatro di nuovi combattimenti appare rischioso. Pertanto, è necessario trovare il modo di servire la popolazione con strutture più semplici e flessibili.

Nonostante le difficoltà, la presenza comboniana continua. Come riescono studenti, docenti e missionari a mantenere viva la speranza?
Nelle aree sotto il controllo delle Forze Armate sudanesi, l’amministrazione è efficiente e sono disponibili alcuni servizi di base. In questi luoghi, come Port Sudan, continuiamo a offrire i nostri vari programmi educativi, dalla scuola primaria all’università. Il semplice fatto di poter studiare è straordinario. Due giorni fa, una studentessa di infermieristica è arrivata dopo aver percorso 1.250 chilometri per raggiungere la nostra sede universitaria a Port Sudan. Era partita da Kadugli, un’area controllata dalle Forze Armate ma assediata dall’Esercito Popolare di Liberazione del Sudan. Ha attraversato la zona controllata dall’SPLA e poi quella controllata dalle Forze di Supporto Rapido. Ha dimostrato una determinazione straordinaria per arrivare qui e continuare gli studi. Assistere ad atti di eroismo come questo, che sono piuttosto comuni, dà speranza perché c’è una parte dei giovani che sceglie di lottare per la propria istruzione. Ma ciò che è più importante per le persone non è tanto ciò che facciamo, quanto il fatto che siamo qui, che siamo rimasti per sostenerli nelle loro difficoltà.

Ci può raccontare una storia, un episodio, una testimonianza che rappresenti lo spirito del Comboni College e il suo impatto nella vita quotidiana della comunità locale?
Nadia Abdalla Idris, studentessa musulmana di origine polacca della Comboni School di Port Sudan, ci ha scritto un giorno la sua visione della gestione della diversità nelle scuole comboniane con queste parole: “Le scuole comboniane hanno combattuto, e spero che combatteranno sempre, il grande nemico dell’ignoranza, perché è la cieca ignoranza che sta dietro al dolore che ci infliggiamo a vicenda. Più impariamo, più diventiamo consapevoli della varietà di possibilità e opzioni che possono aprirsi davanti a noi. Aumentando il numero di uomini e donne istruiti, le scuole comboniane contribuiscono sicuramente a creare un clima di reciproca comprensione e tolleranza. Nelle nostre rispettive tribù e nelle diverse culture, dobbiamo sforzarci di trovare forza e arricchimento, non la ragione della guerra e della distruzione. Le scuole comboniane contribuiscono alla pace in Sudan insegnando ai giovani che va bene essere diversi, va bene essere se stessi ed va bene essere una persona istruita”.

Quali programmi o progetti futuri dovrebbero a suo avviso essere sviluppati per rispondere alle necessità educative del Sudan nei prossimi anni?
All’università, abbiamo assistito a un’accelerazione della trasformazione digitale a seguito della guerra. Questo era l’unico modo per i giovani e gli insegnanti, dispersi a causa della guerra, di continuare a lavorare insieme. Per questo motivo, abbiamo diversi progetti volti a sviluppare le competenze pedagogiche digitali degli insegnanti e a formare il personale tecnico e amministrativo nella gestione delle piattaforme didattiche digitali. Per quanto riguarda l’istruzione primaria e secondaria, è necessario ristrutturare alcune scuole nello Stato di Khartoum. Ciò comporta non solo la riparazione degli edifici, ma anche la riqualificazione del personale docente.

C’è un messaggio che desidera rivolgere alla comunità internazionale e a quanti si prodigano nel sostenere la popolazione del Sudan?
In questa guerra, non si tratta di una lotta tra il bene e il male. Ma è un dato di fatto che nelle aree controllate dalle Forze Armate Sudanesi (SAF) siano presenti un’amministrazione e dei servizi. Infatti, la popolazione spesso fugge dalle zone in cui si avvicinano le Forze di Supporto Rapido (RSF) e cerca rifugio nelle aree sotto il controllo delle SAF perché le prime, le RSF, uccidono indiscriminatamente, violentano donne, rapiscono giovani uomini che si rifiutano di unirsi a loro e chiedono riscatti. Non solo, ma diffondono i crimini che commettono attraverso i social media, proprio come qualsiasi gruppo terroristico. È noto che gli Emirati Arabi Uniti forniscono armi, carburante e mercenari alle RSF. E questo aggrava il conflitto. Questo supporto, che sta causando così tanta sofferenza, dovrebbe essere interrotto. Ma tante nazioni, comprese quelle europee, considerano gli Emirati un alleato strategico in Medio Oriente e uno straordinario investitore. Pertanto, chi ha l’autorità morale di fermarci quando hanno bisogno di noi finanziariamente e politicamente?

Qual è la sua speranza per il futuro del Paese e dei giovani che formate ogni giorno?
La logica impone che questa guerra si trascini, come è accaduto con altri conflitti in cui gli Emirati Arabi Uniti sono attivamente coinvolti (Libia, Yemen, Somalia). Questo prosciuga le risorse di un Paese e ne riduce la capacità di investire in sanità, istruzione o infrastrutture. Nonostante questa prospettiva desolante, è bello assistere, ad esempio, al servizio dei volontari nelle cure palliative e alla trasformazione di un quartiere attraverso atti di compassione verso i più vulnerabili. Queste esperienze, che trasformano piccole realtà locali, o i progetti che realizziamo a sostegno dell’imprenditorialità giovanile o dell’integrazione delle persone con disabilità, portano speranza.

Ferruccio Ferrante – SIR