Con occhi penetranti e cuore grande – lo sguardo della fede e la passione con cui Comboni si dedicò alla missione- noi, Missionari Comboniani, illuminati anche dall’evento unico e straordinario della canonizzazione del Fondatore, vogliamo discernere nell’oggi i vari segni della presenza dello Spirito, protagonista della missione, per coglierne le sfide per la Chiesa, la vita consacrata, la missione, e il nostro Istituto (AC ’03, 2). E noi possiamo aggiungere: per “la formazione di base e promozione vocazionale”.

Con occhi penetranti e cuore grande – lo sguardo della fede e la passione con cui Comboni si dedicò alla missione- noi, Missionari Comboniani, illuminati anche dall’evento unico e straordinario della canonizzazione del Fondatore, vogliamo discernere nell’oggi i vari segni della presenza dello Spirito, protagonista della missione, per coglierne le sfide per la Chiesa, la vita consacrata, la missione, e il nostro Istituto (AC ’03, 2). E noi possiamo aggiungere: per “la formazione di base e promozione vocazionale”.

“ La vita di un uomo, che in modo assoluto e perentorio viene a rompere tutte le relazioni col mondo e colle cose più care secondo la natura, deve essere una vita di spirito, e di fede.(…) Il missionario della Nigrizia, spoglio affatto di tutto se stesso, e privo di ogni conforto, lavora unicamente per il suo Dio, per le anime più abbandonate della terra, per l’eternità. Mosso egli dalla pura vista del suo Dio ha in tutte queste circostanze di che sostenersi e nutrire abbondantemente il proprio cuore (…)” (Regole del 1871 – Capitolo X).

In preparazione all’assemblea dei formatori dei noviziati e scolasticati/CIFs nel prossimo Luglio a Palencia, vorrei condividere qualche riflessione e provocazione sulla realtà attuale della nostra formazione di base.
Sono cosciente di come questo tema sia ampio e polemico. Più ancora per la nostra realtà formativa comboniana che s’incarna in un mosaico di diversità culturali, ecclesiali, sociali, politiche ed economiche delle varie nazioni e continenti dove lavoriamo.
Oggi siamo anche confrontati con la realtà della globalizzazione e le sue connotazioni positive e negative, con le diverse implicazioni sulla famiglia, la forza dei valori, sulla chiesa e la vita consacrata.
Infatti, la domanda è: perché certi limiti, insoddisfazioni, stanchezze e contro valori sono sempre più visibili nelle nostre comunità missionarie e di formazione?
Preparando questa riflessione, ho scambiato delle idee con alcune persone, tra le quali il mio padre maestro, P. Settin Pietro, che mi ha incoraggiato a vedere la realtà con ottimismo, con lenti positive e non con pessimismo: “Oggi abbiamo bisogno di distribuire gratuitamente degli occhiali nuovi intorno a noi per scoprire i segni di speranza, i semi di vita nuova presenti nel nostro gruppo. Perciò, sforziamoci per creare ed annunziare speranza” .
In questo senso mi sembra interessante ricordare la storia del vigile che nelle città antiche restava durante la notte sulla torre e dalla piazza qualcuno gli gridava: “Custos, quid de nocte?”. Vigile, a che punto è la notte? Sì, siamo nella notte, lo sappiamo già. Quali sono però, i raggi di luce che annunziano l’arrivo del nuovo giorno?
Carissimo P. Pietro, in obbedienza al mio padre maestro, prometto di fare uno sforzo per essere un ottimista realista, però lasciami anzi tutto constatare alcuni segni della notte in cui ci troviamo, prima di evidenziare alcuni raggi di luce del nuovo giorno.

1. Alcuni segni
Prima di tutto, bisogna riconoscere che tra quelli che finiscono la formazione di base, abbiamo dei giovani preparati bene e identificati con loro vocazione, con il carisma e con la missione.
E il segno più grande di speranza di fronte a questa sfida, sta nel fatto che una grande maggioranza dei membri nell’Istituto – di tutte le età, nazionalità e continenti compresi - sentono e si impegnano a vivere con maggiore radicalità e autenticità la propria consacrazione e fedeltà alla missione.
In secondo luogo direi che bisogna riconoscere la nostra debole memoria storica. Infatti, durante la formazione di base si fa uno sforzo per studiare, meditare e pregare con il Comboni, però la memoria storica dei nostri missionari, uomini e donne che nel passato lontano o recente hanno incarnato il carisma comboniano nelle situazioni concrete e diverse della missione, brilla per la sua assenza. E questo é ancora più vero per quanto riguarda la memoria delle figure significative dei formatori comboniani: P. Asperti SJ, P. Vianello, P. Bertenghi, P. Giacomo Andriollo, P. Patroni, P. Giovanni Giordani e Fr. Biasin Giuseppe, per limitare la lista ai confratelli già morti. Ora, la memoria della storia dell’Istituto e della formazione comboniana deve essere una delle luci che illuminano la nostra formazione oggi. Perciò impariamo a bere dal proprio pozzo perché senza una chiara coscienza della nostra storia e tradizione formativa, rischiamo di rinforzare una mentalità in cui ciascuno crede di essere punto di partenza e di riferimento del carisma.
Infine con la diminuzione delle vocazioni andiamo sempre di più verso l’unificazione delle strutture formative (noviziati continentali, scolasticati e CIFs intercontinentali ed oggi si parla di postulati continentali). Il fatto è che questo sistema formativo è molto frammentato, si basa sull’ esperienza del seminario minore come punto de partenza e comporta grandi salti culturali. Alla fine non si riesce a capire chi conosce veramente il giovane che deve essere ammesso ai voti. Il Consiglio Provinciale e il Consiglio Generale si trovano normalmente davanti ad alcune pagine scritte e devono decidere sull’idoneità o non di un giovane alla consacrazione ad vitam.

Dei “virus”
P. Teresino Serra, superiore generale, è solito enumerare un certo numero di “virus” che, secondo lui, minacciano la nostra missione (spiritualità superficiale, il divorziare dall’Istituto, il complesso messianico, la mancanza di rinnovamento, essere animatori senz’anima, confidare troppo nei mezzi e la tendenza alla missione “facile”).
È in questo senso che mi avventuro a constatare ed enumerare alcuni “virus” presenti nella realtà di ogni giorno delle nostre comunità di formazione e alcune sfide strutturali, pur riconoscendo l’orientamento dell’Istituto di mettere la FP come centro di un processo di crescita e di rinnovamento che comprende tutta la vita (DC ’97, 119ss).
Non pretendo dire che tutto sia sbagliato nel nostro sistema formativo o ignorare gli aspetti positivi e i passi fatti nelle diverse situazioni in questi ultimi anni.
Personalmente attribuisco a questi “virus” l’importanza di segni di allerta e di sintomi di una realtà più profonda della nostra vita di consacrati, sia come di certi aspetti della nostra prassi formativa.

1. “Il noviziato è già finito” : constatiamo una certa resistenza a momenti formativi comunitari, alla direzione spirituale e all’accompagnamento personale. È l’atteggiamento dell’impermeabilità, di chi si crede già arrivato. La conversione va bene per gli altri.
2. “Tutto quello che facciamo è preghiera” : si afferma, con una certa facilità, l’importanza della preghiera nella propria vita, però è difficile trovare il tempo per pregare. Normalmente ci accontentiamo della preghiera comunitaria. Coloro che dedicano tempo personale alla preghiera, qualche volte diventano motivo di scherzi nella comunità.
3. “Qui facciamo così” : i nuovi arrivati devono adattarsi all’abitudine o “modus vivendi” del gruppo. Certe volte si arriva a delle situazioni di ipocrisia e mancanza di trasparenza, però la legge del silenzio funziona. Quando invece non si possono più negare i fatti, allora si scopre con una certa sorpresa che quasi tutti sapevano del problema.
4. “Qui siamo tutti eguali” : siamo tutti adulti e ciascuno è responsabile d se stesso. Come scrisse P. Manuel Augusto nel suo articolo: Formazione è missione: “Per più che si voglia valorizzare la corresponsabilità e il dialogo, non si riesce ad evitare l’impressione che i ruoli si stanno invertendo nel concetto d’iniziazione: colui che dovrebbe iniziare finisce per trovarsi a rimorchio da coloro che debbano essere iniziati” . Non è per caso che oggi vi siano delle difficoltà per trovare dei confratelli che accettino di fare il superiore locale.
5. “Noi, voi, essi” : è un linguaggio che manifesta certe dinamiche di esclusione e delle difficoltà a vivere l’interculturalità.
6. “ Sono i miei soldi” : ogni anno in occasione della programmazione, si spende un sacco di tempo per discutere la rivendicazione di aumento della mesata (pocket money). Rischiamo, in verità, di favorire una mentalità in cui alcuni sono incaricati di provvedere i soldi ed altri a spenderli.
7. “Quello che conta è celebrare con la gente” : le professioni religiose, i voti semplici, sono in genere coronati con molta festa. Senza negare l’importanza di queste occasioni per la PV, ci preoccupa e ci fa pensare, però, la mancanza di silenzio e di interiorità in questi momenti forti e decisivi della nostra vita,
8. “Sono deluso dell’Istituto” : sembra che alle volte la cosa più importante alla fine del noviziato sia di saper calcolare bene come fare le opzioni per gli scolasticati/CIF. La destinazione a certi scolasticati è accolta come un premio da alcuni e come un castigo da altri. Questo vale anche per la prima destinazione alla missione.
9. “Diamo un’altra opportunità” : in alcuni casi si vede sin dall’inizio che qualcosa non funziona, però si passa la palla avanti: ma sì, ci sono ancora due anni di noviziato, o allora, ci sono ancora quattro anni di scolasticato/CIF e così via. Non possiamo negare infatti le buone intenzioni, però rimane sempre il fatto di un “discernimento pietà” che trasferisce responsabilità e non aiuta a nessuno. É la logica del buttare la patata bollente nelle mani degli altri
10. “Per quale progetto mi vuole tale provincia?” : è la domanda che alcuni si fanno prima di essere destinati. È come se uno dicesse: sono disponibile a partire per la missione, però a condizione di poter realizzare il mio sogno e i miei progetti.
11. “Se è così, allora chiedo un anno di assenza dalla comunità” : è in crescita il numero dei giovani che fanno questa richiesta. Nella maggioranza dei casi, di fronte alla prima difficoltà si sceglie di saltare fuori, in genere per non affrontare il vero problema.
12. “Tu non capisci la mia cultura” : tante volte ci nascondiamo dietro la nostra cultura, o cerchiamo delle scuse culturali per non assumere e affrontare certi problemi personali.
Forse avranno ragione coloro che si chiedono se la nostra formazione oggi giorno invece di formare persone adulte e responsabili , non corra il rischio di infantilizzarle.

Tutti ci siamo certamente confrontati con alcune di queste contraddizioni durante la nostra vita. Ma non è questo il vero problema, visto che la vita è un continuo cammino di conversione e di sorprese (Gv 8,7). Quello però che suscita preoccupazione, sono i sintomi di una certa fragilità dell’identità carismatica comboniana e di un certo relativismo nel confronto con i valori fondamentali: l’esperienza di Dio, la sobrietà, l’opzione per i più poveri, i voti e l’evangelizzare come comunità.

Nel nostro Istituto abbiamo una tradizione di riflessione, di revisione e di programmazione nel campo della formazione. Però, il fatto di prendere coscienza dei problemi e delle difficoltà, scegliere delle priorità e nuove metodologie non provoca da solo certi cambi o conversioni.
Infatti, in questi ultimi anni, quanti di noi, responsabili diretti o indiretti nel campo della formazione abbiamo partecipato a delle assemblee, incontri, esercizi, ecc, e dopo tornando a casa abbiamo continuato a fare le medesime cose che facevamo prima?
D’altra parte, è anche vero che un certo numero dei nostri giovani in formazione si adattano e si conformano alle regole e precetti, rispondendo alle nostre aspettative, per lo meno fino ai voti perpetui. Dopo tutto cambia. Perché? È forse un problema dei giovani? Oppure un problema dei formatori? O anche la conseguenza di una prassi carismatica generica?

2 – XVI Capitolo Generale
Il XVI Capitolo generale non ha affrontato specificamente il tema della formazione di base, però ha sottolineato le difficoltà e le sfide che stiamo vivendo nell’Istituto per quanto riguarda la formazione permanente e di base dei nostri missionari. (DC ’03, nn. 22; 23; 73-74)
Ma ha ricordato che il presente del nostro Istituto ci rivela alcune sfide: “Ripartire dal Vangelo di Cristo e dalla Regola di Vita come fonti di ispirazioni delle nostre scelte, dando più enfasi all’essere missionari che al fare missione”. (DC ’03, 52.1).
Ascoltando coloro che lavorano nella promozione e formazione, alcuni dicono che il problema maggiore oggi giorno non è la mancanza dei principi o di documenti, ma piuttosto la mancanza di determinazione nel metterli in pratica.
Altri dicono che il problema vero si trova nell’attuale crisi d’identità del consacrato e religioso missionario: Chi è? Perché e per chi consacra la sua vita? Per cosa fare?
Altri si chiedono invece, se il problema non si trovi nella mancanza di chiarezza del carisma. Diventiamo sempre più generici e perciò confusi nell’applicazione dei criteri di discernimento. Forse troppe cose dipendono dalla sensibilità, carattere o carisma personale del o dei formatori.
Credo che queste osservazioni sono pertinenti e a mio avviso, i cosidetti “virus” o “modus vivendi” sopra menzionati, non fanno altro che confermare questa problematica più profonda che è la questione dell’identità vocazionale e carismatica della consacrazione religiosa e missionaria nella dinamica della Sequela Christi.
Credo che dobbiamo stare attenti per non essere vittime della casistica, dalle pressioni di moda e lasciarsi illuminare e guidare da fattori secondari, rischiando di confondere la chiamata di Dio e la consacrazione con il desiderio di aiutare i poveri; il sacerdozio con il ministero sociale e l’inculturazione e la contestualizzazione con l’adattamento ed il relativismo carismatico.
“Seguimi” resta sempre la chiamata fondamentale e il vero asse o fondamento intorno al quale tutto questo dovrebbe essere affrontato e rinnovato: è la persona di Gesù Cristo, il carisma e la missione.

Facendo allora uno sforzo per vedere con ottimismo la nostra realtà formativa, ricordo dei tempi belli delle CEBs in Brasile, quando cercavamo di vedere la realtà con ottimismo e coraggio, e rispondere con speranza, alle difficoltà e sfide alla luce dalla Parola di Dio.

3. Gesù ha svegliato in loro un sogno: “Diventare pescatori di uomini”
Con la parabola del seminatore (Mt 13, 3-8). Gesù ha paragonato il cuore umano ai vari tipi di terreni. Quello però che impressiona in questa storia è il fatto che Gesù non si serve di certi parametri come: errore e certezze, successi o insuccessi per classificare i suoi discepoli, ma valuta il cuore umano dalla sua recettività, distaccamento e disposizione per imparare.
Il suo desiderio non era di correggere comportamenti o riprodurre delle persone che reagiscono come robot. Lui in verità piantava dei semi: Parola, libertà, amore, rinuncia, fede, passione, croce, fedeltà e sogni – facendo che questi trasformassero la personalità, tutto il corso della loro vita.
Constatiamo dunque che Gesù ha allenato i suoi discepoli ad essere fedeli alla loro coscienza (Lc 18, 9-14), a sentire la forza dello Spirito(Lc 4,18), a rinunciare (Mt 10, 37-39; Lc 2, 48-52), a pregare nel silenzio (Mc 14, 36-39), a servire (Gv 13, 12-15), a parlare di se stessi (Mc 14, 33-34), a riconoscere i propri limiti (Mt 26,75), a lavorare in equipe (Mc 6,7), ad amare i peccatori ( Lc 19, 1-10; Gv 8, 1-11), a rischiare la propria vita (…) e a partire senza paura (Mt 28, 16-20).

4. Carisma
Il patrimonio spirituale dell’Istituto include le sane tradizioni che hanno nutrito la vita dei membri, la storia del suo lavoro di evangelizzazione e il ricordo di quei missionari la cui vita ha offerto la migliore semplificazione del carisma originario (RV, 1.4)

Personalmente credo che dobbiamo riprendere seriamente la Regola di Vita, non soltanto per quanto riguarda il servizio dell’autorità e l’economia, ma specialmente per riscoprire ed approfondire la nostra spiritualità e identità missionaria. Infatti, se non ci aggrappiamo a questo “asse” di riferimento per il gruppo, rischiamo di diventare o lefevriani o borghesi. È importante non dimenticare che la nostra Regola di Vita è stata fatta alla luce del Concilio Vaticano II e come la nostra carta di identità deve essere oggetto di studio, meditazione e approfondimento.
Dal punto di vista dalla formazione, mi sembra che le cinque priorità di Pesaro nel 1999 sono in piena sintonia con una linea formativa che s’ispira nella radicalità evangelica, nel carisma e nella missione. Bisognerebbe rinforzare il riferimento alla dimensione “ad gentes”.

5. Che cosa chiede oggi la missione alla formazione?
Secondo P. Libânio SJ, teologo, il nostro tempo si caratterizza per un “impasse” di speranza, visto che si trovano nella stessa arena, i progressi e le chiusure del Concilio Vaticano II. Il futuro, a breve termine, non è chiaro. Anche se si crede, a lungo termine, nel vigore dello spirito iniziale del Vaticano II, che in verità ha capitalizzato una certa somma di forze innovatrici di almeno due secoli. E le reazioni di riordinamento e di ridimensionamento hanno forza e consistenza.
Troviamo allora da una parte, questo spirito di ricerca di nuove esperienze e il desiderio di rispondere alla contemporaneità dei problemi.
D’altra parte, crescono i timori che la Chiesa cattolica perda la sua identità, si sfasci, ribassi le esigenze cristiane, assumendo lo spirito del mondo, secondo il vangelo di Giovanni.
Sempre P. Libânio evidenzia alcuni raggi di luce che ci aiutano a rimanere lucidi ed a continuare a sperare e a sognare: “Siamo chiamati a sviluppare lo “spirito de libertà”, di capacità di confronto con i problemi sempre nuovi, di esperienze nuove e creative, di comunione e partecipazione, di dialogo interreligioso, delle tradizioni religiose, di altre visioni ideologiche intorno ai valori universali, per vivere in un mondo pluralista, di dialogo, di tolleranza e di rispetto all’autonomia degli altri” .
Dunque, alcuni di questi segni del nostro tempo, insieme alle nuove esigenze della missione, devono illuminare la nostra formazione.
La Redemptoris Missio definisce il consacrato come un “contemplativo in azione”(RM 91), giacché la preghiera come ricerca di Dio è una dimensione essenziale della spiritualità missionaria.
Ora senza vita di preghiera, senza esperienza di contemplazione, il missionario rischia di essere un diffusore e non un annunciatore e testimone di Gesù Cristo e del suo Vangelo.
“Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (Gv, 20,21). La missione di Gesù non è finita con l’evento della Pasqua. Cristo continua ad essere il missionario del Padre e noi missionari e missionarie siamo chiamati a rendere visibile e operativa nel mondo la missione dell’Emmanuele, il Figlio di Dio fatto uomo.

I missionari di domani
Da qui, la domanda: come preparare i nostri futuri missionari? Ho l’impressione che attualmente stiamo preparandoli ad una missione generica. Comboni metteva il candidato davanti alla sfida dell’Africa. L’Istituto esigeva la consacrazione all’Africa. Invece oggi con la mentalità che tutto è missione, ci troviamo persi in un certo senso, e i dialoghi interminabili confermano questa genericità. Ai superiori resta la difficile missione del convincimento, quando questo è possibile.

La missione in Africa e anche nelle Americhe, per quello che conosco, passa per un profondo processo di cambiamenti. Di padroni della palla, gli stranieri devono diventare servi, cioè, evangelizzare senza dipendere economicamente da fuori, senza imporre gli schemi del primo mondo, cambiare da agenti delle Ongs per vivere la fraternità senza aver bisogno di appoggio politico o economico. Evitare la tentazione del “menager di progetti”, cioè, portare avanti la missione a forza di progetti. Infatti, se non prendiamo certe decisioni in questo senso, rischiamo di avere degli scolastici che sognano di diventare missionari impresari. Questo esige però, una rivoluzione missionaria.
Che tipo di missionario esige, per esempio, la missione in Asia? Che non accada che la scelta di andare verso l’oriente ci costringa ad essere dei cappellani degli occidentali che vivono in questi posti o semplici amministratori di parrocchie o per diffusione dell’Istituto. Vale la spesa lasciare tutto e per questo rischiare la propria vita ?
Facciamo tante cose nella missione, però di fronte alla sfida del dialogo interreligioso, alla cultura locale, alle situazioni di guerra e all’indifferenza religiosa: come deve manifestare oggi la sua identità il MCCJ?
È soltanto il Signore e il suo progetto che ci rendi significativi. Perciò, il discepolo di Gesù deve essere iniziato al ministero dell’ascolto e del dialogo, della contemplazione, dell’annuncio e della conversione (Cammino catecumenale), della compassione e della pazienza (Fare causa comune) e imparare a relativizzare tante certezze proprie della sua cultura.
Nell’assemblea dei superiori provinciali/delegati in Cairo, è uscita l’espressione: “L’Istituto forma”, che in verità è l’altra parte della medaglia: “La missione forma”. Cioè, la vita odierna dei missionari comboniani dovrebbe essere il luogo dove si possono toccare e vedere i frutti dei valori annunciati e proposti ai giovani in formazione.
Perciò, il mio desiderio è che l’incontro di Palencia ci aiuti ad aprire cammini per una formazione più esigente alla luce del Vangelo: “Si vuoi, lascia tutto e seguimi”. Questo vale particolarmente per il celibato, poiché il voto di castità ha senso unicamente nella prospettiva di rischiare la vita per Gesù Cristo e per la missione. Fuori di questo, non c’è senso.
Mi sembra importante definire con chiarezza alcune priorità dal punto de vista pratico e metodologico del nostro processo de discernimento, specificando anche i diversi livelli di responsabilità.

6. Alcune proposte
Chi sono i giovani che vengono da noi?

É necessario prendere in considerazione la realtà concreta dei giovani che oggi arrivano da noi. É su questa realtà che dobbiamo costruire. È su questo terreno che siamo chiamati a seminare e a coltivare. Siamo invitati ad allenare i giovani che vengono da noi ad una profonda esperienza di Dio, alla passione per la missione e alla radicalità evangelica nella Sequela Christi. Credo che il primo passo per arrivare a questo è credere nelle vocazioni autoctone ed essere veramente disposti a vivere e a lavorare assieme avendo come base comune la consacrazione religiosa e il carisma comboniano, tutti chiamati a coltivare sempre l’atteggiamento del discepolo disponibile ad imparare ed insegnare, dare e ricevere dalla ricchezza dell’altro.

Maggiore gradualità nel processo formativo: le nostre strutture di scolasticati e CIFs esigono dai nostri giovani salti culturali mortali, in più delle grosse differenze che ci sono già all’interno di una propria nazione. (razza, cultura, lingua, tribù, ecc). Così com’è, rischiamo di arrivare alla fine della formazione di base senza che nessuno conosca veramente e in profondità il giovane che viene presentato all’ammissione ai voti perpetui. Dunque è urgente intervenire in questa frammentazione del processo formativo per favorire un maggiore accompagnamento e contatto con i giovani in formazione dalla parte dei provinciali e delegati. Lo scolasticato per esempio, potrebbe essere affidato alla responsabilità più diretta del superiore provinciale locale.

Assumere chiaramente la formazione come processo d’iniziazione: (da iniziati a iniziandi).
L’iniziazione cristiana: La consacrazione del comboniano è radicata in quella battesimale, di cui è un’espressione più perfetta(radicale). Scegliendo di vivere la vita cristiana in maniera radicale, egli diventa testimone più efficace del messaggio evangelico che è mandato ad annunciare.(RV 20.1) Fino agli anni 80 era il seminario minore che garantiva, bene o male, l’iniziazione cristiana dei nostri giovani che oggi, invece, tante volte diamo per scontata. L’esperienza di fede e l’incontro con la persona di Gesù Cristo vanno proposti e riproposti attraverso un cammino catecumenale.
L’iniziazione carismatica : esige conoscenza, preghiera e studio della vita del fondatore e della storia dell’Istituto. Ma soprattutto dei testimoni della missione dopo il fondatore. Siamo invitati a bere al proprio pozzo, facendo memoria soprattutto dei nostri missionari la cui vita ha offerto la migliore semplificazione del carisma originario.
É importante che sin dall’inizio la proposta vocazionale sia chiara e che siano ammessi ai primi voti dei giovani che dimostrano segni chiari di motivazioni di fede, di aver fatto una forte esperienza di Dio, e di essere radicalmente disposti a vivere in una comunità comboniana secondo la Regola di Vita e con i voti religiosi.
Dunque una formazione integrale centrata nella dinamica dell’iniziazione cristiana e carismatica e che dia una attenzione particolare alla dimensione umana, esige formatori che siano timbrati dalla missione, uomini di preghiera e anche con una certa preparazione per questo servizio.
Non avere paura di sfidare i giovani: la radicalità del vangelo, della vita consacrata e del carisma comboniano esigono chiarezza nella proposta e sincerità nella risposta. Perciò, la proposta vocazionale non può essere presentata sin dall’inizio che nella sua radicalità evangelica e carismatica. Cosa comporta la Sequela Christi nel carisma comboniano? Cosa significa l’opzione per i più poveri ed abbandonati? Cosa vuol dire essere disponibili a partire per la missione, scegliendo le situazioni più difficili? È quel fuoco che ha portato Comboni, comboniani e comboniane lungo la nostra storia a vivere il grido “Africa o morte” fino in fondo. È questo il lievito che deve far crescere in noi e nei cuori dei nostri giovani la passione e l’amore per la missione.
Infine, c’è un proverbio che dice: “Nelle cose grandi presentiamoci come meglio ci conviene, ma nelle cose piccole, riveliamo quello che veramente siamo”. Perciò impegniamoci a rivedere subito certe cose:
- Chiudere al meno un altro scolasticato al Nord
- Rivedere l’attuale sistema di scolasticati e CIFs intercontinentali (più gradualità)
- Rivedere la figura del formatore integrale
- È urgente rivedere l’attuale metodologia delle valutazioni (rinnovo dei voti e Voti Perpetui)
- Rivedere le opzioni per gli scolasticati
- Rivedere la pratica del pocket money
- Rivedere le celebrazioni dei voti semplici
E finisco facendo memoria di un comboniano:
un sognatore degli anni ‘60, credeva potere cambiare il mondo, ammiratore di Che Guevara, solidale con i poveri e attivo nel movimento “Mani Estese” e nell’accampamento che raccolse le vittime del terremoto nel Sud dell’Italia. Alle volte contraddittorio (alcuni lo classificavano di sinistra, altri dicevano invece, che era diventato mistico o quasi carismatico).
I suoi formatori a Chicago, chiesero che facesse un’esperienza in Messico prima della sua ordinazione sacerdotale. In Brasile, ha scelto di fare causa comune con i Senza Terra e con gli Indios Yanomani - in Rondonia, dove fu ucciso il giorno 25 di Luglio del 1985 all’età di 32 anni.
P. Ezechiele Ramin, Lele per gli amici, alle volte contraddittorio, è diventato un martire missionario comboniano, e una persona che lo conosceva abbastanza bene, lo descrive così: “Ezechiele era un giovane normale, inquieto, sognatore, di un’affettività molto viva, grazie a Dio, e in certe situazioni si mostrava abbastanza contraddittorio. Posso testimoniare che Ezechiele cercava dentro di sè le motivazioni vere per un impegno ad vitam, forse ancora con attitudini di un adolescente che sogna. Ma le sue contraddizioni rivelano che il martirio è un dono del Signore” .
In comunione con tutta la famiglia comboniana, preghiamo perché possiamo trovare nel Cuore trafitto di Cristo, Buon Pastore, il modello, la sorgente e la forza per donare la nostra vita ai più poveri, facendo con loro causa comune.


Roma, 03 di Giugno 2005
Festa del Sacro Cuore

P. Odelir José Magri, mccj

P. Odelir José Magri, mccj