Lunedì 29 dicembre 2025
Al confine col Sudan, devastato dalla guerra, il Sud Sudan teme il conflitto e vive in povertà. Così per i cristiani il Natale diventa ancora più vero. Mons. Christian Carlassare, vescovo della diocesi di Bentiu, racconta che “la gente, se possibile, vive il Natale in modo ancora più vero, perché la storia di Gesù è quella di un bambino che nasce povero, in una situazione di fragilità”.
Nel Sudan i venti di guerra soffiano forte e lo scontro tra SAF e RSF per accaparrarsi il controllo delle risorse naturali sta portando alla distruzione del Paese. Una situazione che rischia di coinvolgere anche il Sud Sudan, che già indirettamente subisce le nefaste conseguenze di un conflitto che sta portando ancora più miseria in un territorio già povero di suo.
In questo contesto, dove i vescovi di entrambi i Paesi indicano il cammino della pace invocando un negoziato, Christian Carlassare, vescovo della Diocesi di Bentiu, racconta che la gente, se possibile, vive il Natale in modo ancora più vero, perché la storia di Gesù è quella di un bambino che nasce povero, in una situazione di fragilità. E le persone che vivono in Sud Sudan sanno cosa vuole dire: è la loro storia. Da lì nasce una speranza che coinvolge anche chi è di fede diversa.
La guerra in Sudan non diminuisce di intensità, c’è il pericolo che coinvolga il Sud Sudan?
La guerra in Sudan vive una nuova fase: i due principali gruppi armati si stanno consolidando nei rispettivi territori, di fatto spaccando il Paese in due. Il Sud Sudan è coinvolto, anche se non in modo diretto: per Juba risulta più conveniente mantenersi neutrale nel conflitto.
Tuttavia, non può restarne completamente estraneo, a causa della necessità di esportare il petrolio attraverso il territorio sudanese. Il conflitto ha già provocato interruzioni dell’oleodotto e significative perdite di reddito per il Sud Sudan, aggravando una crisi economica già profonda. A ciò si aggiunge il massiccio afflusso di rifugiati – l’ONU stima oltre 1,2 milioni di arrivi – in un Paese con servizi e risorse limitati. Un ulteriore fattore di rischio sono le tensioni lungo il confine di Abyei, territorio conteso tra i due Paesi.
Il conflitto sta comunque già colpendo anche il Sud Sudan?
Sì, il conflitto sta già avendo ripercussioni dirette sul Sud Sudan. La tensione nella regione di Abyei è elevata, sia a causa della recente spaccatura all’interno dell’esercito sud-sudanese tra i militari fedeli al presidente e quelli legati al leader dell’opposizione, sia in seguito all’attacco delle forze governative alla base ONU, durante il quale alcuni caschi blu hanno perso la vita. Nell’Alto Nilo la situazione umanitaria è particolarmente critica: la povertà è estrema a causa del massiccio afflusso di rifugiati, che spesso non ricevono gli aiuti necessari. Questa condizione alimenta frustrazione e rabbia tra la popolazione locale.
I vescovi dei due Paesi confinanti hanno lanciato un appello per la pace: su quali basi può essere costruita?
L’appello dei vescovi di Sudan e Sud Sudan per la pace si fonda su tre pilastri principali. Il primo è un cessate il fuoco seguito da un dialogo inclusivo tra le parti in conflitto. In particolare le forze del governo SAF e la milizia RSF devono sedersi al tavolo negoziale per discutere soluzioni politiche al conflitto. Il Paese non può essere governato da eserciti che non hanno attenzione per la dignità umana e non sono in grado di garantire il diritto. Un cessate il fuoco dovrebbe anche garantire corridoi umanitari dove le agenzie possono raggiungere la popolazione in grave bisogno di aiuti.
Quali sono le altre condizioni per la pace?
Il secondo pilastro è smascherare i grandi interessi economici di questi gruppi armati in combutta con Paesi pronti a fornire armi per mettere le mani sulle risorse del Sud Sudan. Sono necessarie sia sanzioni mirate contro i leader responsabili di crimini disumani, che l’embargo effettivo sulle armi verso le fazioni in guerra. Ma in questo mercato molti dei nostri Paesi sono coinvolti nonostante sia immorale.
E il terzo pilastro?
Il terzo è il coinvolgimento di tutti come interlocutori per la pace, non solo chi combatte (SAF e RSF). I negoziati devono includere rappresentanti civili, i gruppi etnici, uomini e donne, anziani e giovani, coloro che ora sono le vittime di questo conflitto, i rappresentanti politici e i governi regionali riprendendo il cammino precedente al colpo di Stato dell’esercito. C’è bisogno di un governo civile che dia vita a un percorso di dialogo nazionale e riconciliazione a tutto campo.
Come ha inciso questa situazione nel modo di vivere il Natale quest’anno?
La situazione che stiamo vivendo incide molto sul modo di celebrare il Natale in Sud Sudan. È un Natale che nasce dentro una realtà segnata da fatica, insicurezza e povertà. Eppure, proprio per questo, il Natale non viene svuotato, ma diventa più vero. Qui la nascita di Gesù non è un’immagine romantica: è la nascita di un bambino fragile, in una situazione di violenza, di instabilità, di fuga. È una storia che la nostra gente comprende profondamente, perché è la loro storia.
La speranza che ha il suo fondamento nella nascita di Gesù quanto è sentita nella comunità cristiana e cosa dice alla vita delle persone che devono fare i conti con una realtà difficile?
La speranza cristiana non è l’illusione che tutto andrà bene, né la negazione della sofferenza. È la certezza che Dio non ci abbandona, che entra nella nostra storia così com’è, anche quando è segnata dalla guerra e dall’ingiustizia. Questa fede dà una forza indicibile alle persone: non toglie i problemi, ma permette di non esserne schiacciati. Nelle comunità cristiane vedo una speranza molto concreta: non grandi parole, ma la capacità di resistere, di condividere quel poco che si ha, di continuare a pregare insieme, di non cedere all’odio o alla vendetta. Questo è già un modo di costruire la pace.
Questa speranza viene riconosciuta anche da chi non è cristiano?
Sì, in verità il Natale è la festa di tutti. Mi sorprende vedere tutta la cittadinanza riversarsi in Chiesa a Natale, non solo i cattolici ma anche chi è di fede diversa perché il Natale è una celebrazione che richiama la comunione e la preziosità della vita che va riconosciuta e custodita da tutti.
Il Natale è una festa di pace autentica. Come viene vissuto in Sud Sudan questo valore, anche nel dialogo con le altre comunità?
La pace qui non è uno slogan: è un bisogno quotidiano, legato alla possibilità di vivere senza paura, di lavorare, di mandare i figli a scuola, di ricostruire relazioni ferite. E questo desiderio di riconciliazione e comunione accomuna tutti i gruppi etnici e le comunità religiose. Il dialogo non nasce da grandi incontri ufficiali, ma dalla vita quotidiana: dalla convivenza, dall’aiuto reciproco, dal rispetto. Questo crea legami che aiutano a prevenire tensioni e a costruire fiducia.
Cosa sta facendo concretamente la Chiesa per favorire la pace?
La Chiesa cattolica lavora per la pace in modo concreto. Lo fa con la presenza capillare nelle comunità: parrocchie, scuole, centri sanitari, programmi di formazione. Accompagna le persone, promuove l’ascolto, incoraggia perdono e riconciliazione, soprattutto in contesti segnati da divisioni etniche o politiche. Un impegno importante è la formazione delle coscienze attraverso la scuola: educare alla responsabilità, al rispetto dell’altro, alla partecipazione pacifica alla vita del Paese. La Chiesa sostiene iniziative di dialogo comunitario e collabora con altre Chiese e organizzazioni per rafforzare una cultura di pace. Gli ostacoli da superare sono molti, ma il Natale ci ricorda che la pace non nasce dall’alto, né dalla forza, ma da cuori che si lasciano cambiare. È un processo paziente. La Chiesa non offre soluzioni immediate, ma continua a seminare: crede che anche in un contesto difficile la pace sia possibile.