In Pace Christi

Capra Vincenzo

Capra Vincenzo
Data di nascita : 03/10/1932
Luogo di nascita : Alba
Voti temporanei : 09/09/1951
Voti perpetui : 09/09/1957
Data ordinazione : 31/05/1958
Data decesso : 23/12/2004
Luogo decesso : Verona

P. Vincenzo Capra è nato ad Alba, Cuneo, secondo di tre figli. Da ragazzino, nella recita per la giornata della Santa Infanzia che si celebrava in parrocchia, toccò a lui fare la parte del “povero moretto disgraziato, dalle barbarie ignobili purtroppo tormentato”. “Il resto – prosegue P. Capra nel racconto della sua infanzia – non lo ricordo più, solo rammento che indossavo una camicetta azzurra, avevo la faccia e le mani pitturate di nero, proprio nero, e recitavo all’oratorio parrocchiale”.

Proveniva da una famiglia profondamente cristiana. Papà Marco era contadino, mentre la mamma, Canta Clara, si era totalmente dedicata ai tre figli, ma trovava il tempo per partecipare alla messa anche nei giorni feriali e aiutare il marito nel lavoro dei campi.

Dopo aver frequentato le scuole elementari in paese, Vincenzo entrò nel seminario diocesano di Alba dove, terminata la quinta ginnasio, racconta: “Mi decisi ad entrare nel noviziato comboniano di Gozzano, pesciolino fresco fresco di P. Egidio Ramponi. Mio padre disse: ‘Se è solo per essere un prete, è meglio che resti a casa’. Mia madre, che vedeva svanire tutti i suoi sogni di avermi vicino per sempre, mi disse: ‘Se non te la sentirai più di andare avanti, ricordati che questa è sempre casa tua’. Il vescovo fu altrettanto chiaro: ‘Quando vorrai tornare, la porta è sempre aperta’. Feci il passo e, finora, non mi sono mai pentito, anche se ho dovuto stringere i denti più di una volta”.

La vocazione missionaria
Nel periodo del seminario, Vincenzo maturò la vocazione missionaria, favorita dall’ambiente dove c’era un gruppo missionario molto attivo. Il nostro giovane desiderava dedicarsi completamente all’evangelizzazione e al servizio dei poveri.

La domanda per essere accolto tra i Comboniani è del 15 luglio 1949: “Reverendissimo Superiore, la prego di volermi accettare tra i Figli del Sacro Cuore, affinché si realizzi il mio ideale: diventare sacerdote missionario. Ho terminato i corsi ginnasiali con l’esame pubblico di quinta. Dopo un lungo periodo di riflessione e di intesa col mio padre spirituale e col P. Egidio Ramponi ho deciso: mi farà sacerdote missionario…”.

Così, a 17 anni entrò tra i Comboniani. Nell’omelia funebre, il provinciale, P. Francesco Antonini, ha paragonato quei 17 anni a quelli di Comboni che esattamente un secolo prima e alla stessa età prendeva la stessa decisione. “Fu nel 1849 quando, studente di 17 anni, ai piedi del mio veneratissimo superiore Don Nicola Mazza, promisi di consacrare la mia vita all’apostolato dell’Africa centrale; e con la grazia di Dio non mi è accaduto di divenire infedele alla mia promessa”. Questa è solo la prima similitudine tra la vita di P. Capra e quella del Fondatore.

Novizio a Gozzano
P. Giovanni Giordani, maestro dei novizi a Gozzano, accolse il giovane seminarista e cominciò a formarlo alla vita religiosa. “Si mostra affezionato alla vocazione e lavora per attirare altri seminaristi. Carattere piuttosto flemmatico, è calmo, riflessivo, riservato e non si lascia trasportare da vani entusiasmi, insomma è un perfetto piemontese. Pur essendo intelligente, si applica maggiormente nei lavori materiali e poco allo studio. È socievole, di buona compagnia e capace di arguzie intelligenti. Dà poca importanza alle piccole cose; ha piuttosto il fare dell’anziano che si è fatto ormai la propria mentalità. Accetta, però, le osservazioni con umiltà e ne riconosce la convenienza. Ha tutti i presupposti per essere un bravo e zelante missionario”.

Emise i primi voti a Gozzano il 9 settembre 1951, poi passò a Verona per il liceo. Sono particolarmente interessanti le osservazioni di P. Leonzio Bano a proposito dello scolastico Vincenzo: “Il fondo è molto buono, ma non sempre lo si vede. Non è il modello della regolarità; non va tanto per il sottile, specie in cose esterne. Ma la sostanza c’è. Quanto all’obbedienza sarà uno di quelli che, col suo bel modo di fare, riuscirà a far fare agli altri quello che vorrà lui. Per la povertà, è un maneggione, ma credo che un giorno farà bene gli interessi della Casa e della Congregazione, anche se non sentirà tanto il bisogno di chiedere permessi per piccole cose. Va d’accordo con tutti e tutti, credo, con lui. Ha un bel carattere che gli permetterà di fare tanto bene. È molto laborioso, specie in cose materiali. Ha una forte attitudine alla predicazione col suo bel vocione. Andrà come assistente ai seminaristi di Sulmona e credo che farà molto bene”.

Infatti, dopo due anni di permanenza nella città scaligera, venne mandato dai superiori a Sulmona come assistente dei ragazzi dove rimase due anni, dal 1953 al 1955. E fece molto bene, proprio come P. Bano aveva pronosticato.

Concluse la teologia a Venegono Superiore (1955-1958). Nella domanda dei voti perpetui s’intravede un po’ l’anima di P. Capra. Scrivendo al Superiore Generale, diceva: “Anni fa venivo a lei per fare la mia domanda di ammissione al noviziato, spinto da un forte ed ardente desiderio di farmi missionario. Ora nuovamente vengo a lei con quell’ardore, unito ad un vivo desiderio di essere tutto e solo di Gesù e delle anime, per porgerle la domanda di ammissione ai voti perpetui. Essi, con l’unirmi più intimamente a Gesù per copiarlo e ritrovare la sua figura, mi saranno certamente di validissimo aiuto per giungere al sacerdozio meno indegnamente, più santo e più disposto a ricevere la grazia del Sacro Cuore…”.

Fu ordinato sacerdote a Milano il 31 maggio 1958 dall’arcivescovo Montini.

Economo a Verona
Dopo l’ordinazione fu destinato a Verona come economo. In quel periodo si stava costruendo la casa di villeggiatura per gli scolastici a Valdiporro. P. Capra ebbe il suo da fare per sovrintendere ai progetti e, soprattutto, per cercare i soldi per mandare avanti i lavori. P. Neno Contran, suo compagno, ricorda un fatto curioso.

“Di P. Capra economo a Verona ricordo questo episodio. Seguiva i lavori della casa di Valdiporro e faceva del suo meglio perché si arrivasse a finirla. Succedeva che qualche superiore (la Direzione Generale era a Verona) salisse a Valdiporro e formulasse delle critiche o dei suggerimenti che, agli occhi di P. Capra, altro non facevano che modificare il piano già approvato e ritardare i tempi.

Un giorno mise sul vassoio del caffè che P. Zini portava a metà mattina alla Direzione Generale in Consulta cinque buste che contenevano un identico messaggio, in cui pregava i membri della Direzione di astenersi da interventi e suggerimenti che turbavano i lavori o addirittura obbligavano ad abbattere muri già fatti.

P. Briani lo fece più tardi chiamare e gli disse: ‘Quello che ha scritto nella lettera è vero, però non mi sembra un modo conveniente di trattare i superiori. Andrà, quindi, a dire la colpa in refettorio, dicendo che ha mancato di rispetto all’autorità’. Da quegli anni ad oggi ci siamo incontrati poche volte, ma ogni volta abbiamo riso di gusto ricordando quella storia veramente di un altro secolo, anzi di un altro millennio”.

P. Capra, in una sua memoria, ha sottolineato questo periodo veronese con le seguenti parole: “Successivamente rimasi inchiodato in Casa Madre per tre anni con l’ufficio di economo della casa o, per intenderci meglio, economo della cassa sempre vuota, per via delle maratone aventi come fine le giornate missionarie a corta, media e lunga distanza. La maggior parte del ricavato entrava in due sacchi senza fondo: le tasche di Giuffrè e la casa di Valdiporro. Cosicché, dopo tre anni, mi guadagnai la cartolina precetto per il Mozambico. Terminavo il primo round formativo con buoni peli sullo stomaco, spalle robuste e chiappe di cuoio. Attrezzatura indispensabile per affrontare 30 anni di guerra in missione”.

Una vita per il Mozambico
Dopo un soggiorno in Portogallo, P. Capra partì per il Mozambico. C’era con lui Fr. Giovanni Grazian. Sua prima tappa fu la missione di Lunga (1962-1966) dove svolse l’incarico di vice parroco. Lunga era stata fondata nel 1959 e aveva fatto grandi passi nell’evangelizzazione e nella promozione umana. Bastano alcuni dati registrati all’arrivo di P. Capra per rendersene conto: “Il personale è composto da P. Giovanni Zani, superiore, P. Capra e Fr. Giuseppe Restani. I cristiani sono 1.387 di cui 55 europei e 336 catecumeni. Le scuole sono 16 e gli alunni 1.882 di cui due terzi sono ragazzi e il resto ragazze. Cerchiamo di intensificare l’assistenza alle scuole per aumentare i catecumeni, seguire sempre più i cristiani e solennizzare le funzioni.

Desideriamo finire i due internati, terminare il pozzo, continuare a disboscare per estendere la piantagione e comprare un trattore per il lavoro dei campi. Al presente sono stati disboscati 40 ettari, quindici dei quali sono seminati a granturco e manioca. La piantagione comprende cajù, palme da cocco, caffè, aranci, mandarini e ananas.

In gennaio 1963 P. Capra ha amministrato 20 battesimi… Due leoni si prendono il lusso di sbafarsi un nostro maialetto nel bosco dietro il cimitero. P. Capra riesce ad impedire in tempo che un finto fidanzato sposi una ragazza per poi passarla ad un uomo sposato.

In marzo comincia la desobriga. L’ultimo di marzo P. Capra ha la sua avventura di viaggio. Partito al mattino presto con la Landrover, vede scomparire la strada tra l’erba alta e al primo torrente un tronco blocca il camioncino. Non c’è anima viva, allora prosegue a piedi. Sorpreso da un temporale attraversa il Muatala con l’acqua alla cintola…”.

Il diario prosegue: “P. Capra si è dedicato anima e corpo alla scuola sulle orme di P. Zani che ha eretto 14 scuole, una residenza, un internato femminile e un vasto frutteto. I frutti si vedono anche a livello religioso. Nel pomeriggio del Giovedì santo vengono molti cristiani delle scuole esterne. Tutti hanno il turno di adorazione e di confessioni. La partecipazione è numerosa e ordinata.

Sembra che il 1964 cominci poco bene per P. Capra. Partito in moto, al guado di un torrente finisce in una buca con la moto e tutto il resto. Se la cava solo perché non era la sua ora… Il 1964 si chiude con qualche nube sotto l’aspetto religioso: c’è una guerra subdola e sorda dei musulmani contro la nostra opera. Cerchiamo di vincerla con la preghiera e il sacrificio”.

La missione di Lunga ha costituito per P. Capra una magnifica esperienza. I gruppi di battezzandi si susseguivano a ritmo sempre più serrato e sempre più numerose; i matrimoni cristiani si moltiplicavano, le nuove famiglie cristiane mostravano vero fervore e le scuole erano sempre più frequentate.

Fondatore di Alua e di Namapa
Nel 1966 P. Capra si recò nel territorio di Alua e diede inizio ad una nuova missione, cominciando col disboscare un appezzamento di terreno e andando avanti a costruire la casa dei missionari, le scuole, la chiesa e i dormitori per accogliere i catecumeni. Un lavoro poderoso, ma P. Capra era un uomo di grande prestanza fisica, di grande energia, di coraggio e di sangue freddo anche nelle situazioni più difficili (come al tempo della fine della colonia in Mozambico con le espulsioni dei missionari e le minacce quotidiane).

L’impressione che ha lasciato in tutti è stata quella di un missionario dall’identità vocazionale chiara, missionario di un unico amore, forte, chiaro e dalla fede solida. Come Comboni, anche P. Capra mostrava di non poter vivere che per l’Africa. Per gli africani era capace di grandissimi sacrifici. Alla sera, dopo una giornata intensa di lavoro, insieme a Fr. Lamberto Agostini, anche lui dalla voce possente, attaccava pezzi d’opera che suscitavano l’ammirazione dei ragazzi e facevano rintronare il soffitto della piccola scuola dove abitavano.

Nel 1971 lo troviamo a Namapa come parroco. Anche qui dovette iniziare da zero e la sua attività piantò radici profonde e vitali. Quando, dopo l’indipendenza e sotto la stretta del Frelimo, si offrì di lasciare Namapa e andare a Iapala era conosciuto ed amato da tutti, perché egli stesso amava tutti, rispettava tutti ed era a servizio di tutti.

A Iapala, zona lontana, nessuno lo conosceva, ma era rimasta senza un missionario perché l’ordine religioso che la serviva aveva abbandonato la zona. P. Capra, quindi, si offrì come insegnate per poter garantire alle comunità cristiane, fustigate dai tempi nuovi dell’indipendenza e dell’ideologia marxista, la presenza missionaria.

Quegli anni furono duri per tutti, ma P. Capra continuò ad essere ottimista e positivo. Mai scoraggiato, mai disfattista, niente era impossibile per lui, non esistevano ostacoli in grado di fermare il suo entusiasmo.

Quattro missioni per 42 anni
P. Capra si trovò immerso in vari tipi di guerre. Egli stesso li enumera: “Da quella fredda a quella calda, dalla santa alla diabolica, dalla coloniale alla popolare, razziale, ideologica, scolastica, sanitaria, ambientale… E tutto per causa di un grandioso progetto missionario firmato Daniele Comboni, di cui m’innamorai perdutamente. Di modo che al grido ufficiale di ‘Nigrizia o morte’ che popolarmente significa ‘NON si salvi chi può’ mi pare di aver preso sul serio il lavoro missionario seguendo Cristo sulla via del Calvario e del Tabor.

Le quattro missioni nelle quali mi sforzai di dare il meglio di me stesso sono: Lunga, Alua, Napala, Iapala, appartenenti a quel tempo alla diocesi di Nampula. Niente di speciale anche se ognuna con le sue caratteristiche. Nuove di fondazione le prime tre e con una ventina di anni la quarta. Credo di aver amministrato una media di 700 battesimi all’anno.

Dove però mi sembra di aver buttato la maggior parte delle mie energie mi pare sia stata la scuola, in un periodo specialmente ingrato, anche se molto valido dal punto di vista religioso. Dovevo insegnare il marxismo-leninismo, il socialismo scientifico ed il materialismo storico e dialettico con spesso il commissario politico in sala o sulla porta…

Un bel giorno avvennero le nazionalizzazioni. Parola di Dio per alcuni, parolaccia per altri. Addio duecento belle vacche, Landrover, conto in banca, ospedaletto, chiesa, residenza, scuola cappella. Tutto inventariato, firmato ed autenticato col timbro della Commissione liquidatrice. Poi mi mettono in mano un verbale che dice: ‘La stanza n. 4 è riservata al professor Vicente Capra il quale ha accettato di collaborare alla costruzione del socialismo scientifico nel nostro paese, come professore di storia, geografia e disegno tecnico’.

La pratica dei voti
‘La stanza che mi è stata assegnata contiene i seguenti mobili: un letto con materasso e cuscino, una scrivania, due sedie, un armadio con uno scaffale di libri e fossili. Tutta proprietà dello Stato. Sono di sua proprietà gli effetti personali seguenti: tre paia di scarpe, quattro paia di calze, tre camicie, un maglione, due paia di pantaloni, quattro paia di mutande, quattro magliette interne, sette fazzoletti.

Il pagamento mensile di 300 scudi gli darà diritto ad una refezione giornaliera con gli altri compagni professori che abitano nella casa’. E così quel giorno cominciai a ricordarmi del mio voto di povertà. Era il 24 luglio 1975”.

La via crucis, però, aveva anche un’altra strada parallela: corsi di perfezionamento a cui anche il “professor Vicente” doveva partecipare per la ginnastica mattutina, il lavoro comunitario, l’ora di politica, le attività culturali. Il tutto alternato con qualche giorno di prigione, lavoro manuale domenicale, dormitorio in comune, pulizia dei gabinetti… e poi la scuola con 25 o più ore settimanali, interrotte spesso dalla fuga nel bosco per evitare gli attacchi dei guerriglieri. C’era anche il lavoro nei campi: si vedeva il “professor Vicente” passare davanti alla chiesa con la zappa sulle spalle. E sempre zitto.

“In questo clima sentivo la necessità di relazioni umane più autentiche e fraterne. Ho avuto la fortuna di fare comunità con confratelli generosi e consorelle che mi hanno aiutato a comporre l’equilibrio. Si pregava in comune, qualche partita a carte la sera, magari una cantatina: ‘Son missionario, questa è la gloria, che fa ridenti questi miei dì… Son missionario, morrò così…’. Il tutto spesso interrotto da spari e da feriti che arrivavano alla missione. E qui lasciate che sturi il salmo 133: ‘Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme…’.

È il Signore che dona la vita anche quando, poco prima del funerale, ho fatto in tempo a scagionarmi. Il morto che c’era nella cassa non ero io, ma l’altro padre della missione, anche se sopra il feretro c’era scritto il mio nome: uno sbaglio dei militari che avevano raccolto il corpo per strada. Si trattava del buon P. Alirio [della Società Missionaria Portoghese, n.d.r.], che il buon Dio l’abbia in gloria: gli piacevano tanto le sardine alla brace.

Non parliamo dell’obbedienza: è facile obbedire se hai da una parte un compagno e dall’altra un guerrigliero con l’indice sul grilletto… Ora che l’epatite B mi ha rovinato il fegato ed il parkinson mi blocca i movimenti, non mi resta altro che depositarmi in una poltrona col Corano tra le mani per preparare la lezione di islamologia che devo tenere nel seminario diocesano. Allora finalmente sarò testimone di Cristo in croce. Ma allora, perché non farci anche una cantatina? Son missionario, morrò così!”.

Espulso, bastonato, quasi fucilato
“Se da una parte il ministero dell’educazione mi concedeva ogni anno il premio dell’emulazione socialista, come miglior professore, dall’altra la politica mi collezionava tre espulsioni: due rientrate e una effettuata. La prima fu con un gruppo di confratelli con in testa il vescovo per via di un certo documento anticolonialista.

La seconda la evitai per un briciolo, perché 10 minuti prima dell’imbarco riuscii a convincere il partito che i soldi che possedevo erano della missione e non dell’educazione. La terza fu organizzata durante la guerra civile da una sollevazione popolare che chiedeva l’espulsione, dopo una buona carica di legnate, secondo l’uso ed il costume militare. E tutto per aver reagito contro il reclutamento della gioventù tra i Naparama che venivano vaccinati contro le pallottole. Insomma, ero un bandito qualificato.

Per fortuna la cosa arrivò alle orecchie del governatore che, in assemblea di tutto il popolo, domandò, da buon cattolico amico di Santa Madre Chiesa, ai membri del partito ed alla commissione militare dove avevano studiato, se avevano già dimenticato tutto, anche il buon senso.

Intanto era andata in porto un’altra scuola secondaria. Era stata battezzata dalle autorità scolastiche come ‘scuola pirata’. Le autorità non la potevano vedere e fecero di tutto per farla chiudere perché era in una zona di guerra al 100 per 100 ed avevano paura di venire a visitarla. Difatti il primo giorno di scuola ci fu un forte attacco alla cittadina distrettuale di Namapa, ed anche l’edificio fu bombardato e parte del tetto distrutto”.

Formatore dei futuri Comboniani
“Lascio all’immaginazione di chi legge la cronaca di 10 anni di guerriglia che ogni tanto mi coinvolgeva, ora sulle strade, ora nel letto, ora in scuola o in chiesa, oppure visitando le comunità. Cose da dimenticare, come quella volta in cui la mia testa era già nel mirino di una decina di fucili i quali si abbassarono al grido del sergente che aveva riconosciuto all’ultimo momento la macchina della missione.

Ora sono vecchio, sono debole di vista, i denti mi fanno tribolare, sono stato operato al fegato, strascico i piedi e perdo facilmente l’equilibrio, mentre le gambe gonfie denunciano cattiva circolazione. Anche per questo mi è stato assegnato il lavoro di formatore dei postulanti Comboniani mozambicani. Spero di non tirarli su al mio livello fisico altrimenti… il battello fischia, ma non leva più l’ancora. ‘Marci ma sani’, diceva quella buon’anima di P. Gaetano Semini, coprendosi la testa pelata col boné dei fratelli… Ed io in questa situazione cosa devo dire? Ecco cosa dico: Signore, ti ringrazio proprio tanto e di tutto...”.

Cara mamma – le scriveva per il suo novantesimo anno di età (29 agosto 1996) – cerca di avere ancora un po’ di pazienza: ho ancora bisogno di te; dobbiamo tirare su un gruppetto di buoni missionari. Cercherò, con le tue orazioni, di fare del mio meglio. Così, dopo, verremo a convertire gli italiani”.

Questa è la testimonianza che P. Capra ha scritto di suo pugno sulla sua vita missionaria. Altri, nelle sue condizioni, avrebbero fatto un passo indietro attendendo tempi migliori. Per P. Capra non è stato così. Più le difficoltà diventavano grosse, più la sua grinta missionaria acquistava spessore. “Vedo un futuro radioso per l’Africa” ripeteva facendo sue le parole del Fondatore, e la storia gli ha dato ragione.

Guardare in positivo
P. Capra aveva una visione positiva ed efficiente dell’uomo; dava fiducia e chiedeva responsabilità. Aiutava, ma per promuovere, per rimettere in piedi le persone, per far venir fuori la dignità a volte offuscata, umiliata o semplicemente rassegnata. La sua fede tendeva a far crescere il figlio di Dio che si nascondeva in ogni uomo, non il dipendente o l’eterno bambino.

Missionario pioniere, era uomo di grande simpatia, creatore di comunione tra i missionari; anche nella malattia non si è mai messo a piangere su se stesso e non ha mai smesso di fare piani, dare idee per la missione. Era famoso per la sua visione ampia e le idee nuove che continuamente sfornava in sintonia con i tempi. Potremmo chiamarlo un sognatore, ma sognatore concreto e capace di realizzare.

Dopo l’esperienza di Iapala dove era stato parroco e professore, era tornato ad Alua (1988-1989), la missione che occupava un posto particolare nel suo cuore, poi a Namapa (1989-1995), come addetto al ministero. Dal 1995 al 2001 lo troviamo a Matola come formatore nel postulato studenti.

Fece le vacanze in Italia per rimettere in sesto la salute (ma ormai c’era ben poco da fare). Per riposarsi un po’ andava nella casa comboniana di Gozzano.

Ecco la testimonianza dei laici comboniani di Gozzano: “Stupiva molto, in P. Vincenzo, il suo sereno ottimismo. Conoscendo le traversie che aveva dovuto affrontare durante gli anni dell’indipendenza del Mozambico, ci lasciava senza parole la sua capacità di riderci sopra e di ringraziare il Signore perché aveva potuto condividere la sorte del popolo mozambicano. ‘La gente è cresciuta molto, la fede si è rafforzata, i cristiani si radunavano attorno alla Parola di Dio e si chiedevano cosa diceva loro il Signore in quel tempo di persecuzione’, raccontava a noi, nascente gruppo di Laici Comboniani. Ci incoraggiava a non temere le difficoltà, anzi a leggerle come un segno di Dio per una maggior comunione con Lui e con i popoli sofferenti. Anche se aveva qualche anno sulle spalle, il suo spirito era giovanissimo. Gli abbiamo chiesto di rimanere in Italia, la sua guida sarebbe stata preziosa per il nostro gruppo. Ma la sua vita era per l’Africa, suo unico amore. ‘Quando in missione esco fuori dalla porta di casa, tanti mi vengono incontro. Mi siedo sotto un albero e non sono mai solo, la gente mi conosce, mi vuole bene, mi racconta gioie e dolori. Per non rimanere lontano dagli studenti, ho accettato di insegnare Islam un’ora alla settimana, non l’avrei mai immaginato, eppure il Signore ha voluto anche questo’. E così ci ha invitati ad occuparci degli immigrati islamici, a conoscere la loro cultura senza paura o pregiudizi. Quando doveva ripartire per l’Africa, ci ha chiesto di accompagnarlo a visitare un luogo bello, da portarsi dentro come ricordo. Siamo andati a Santa Caterina del Sasso, un piccolo gioiello incastonato nella roccia sul Lago Maggiore, in provincia di Varese. Quando siamo arrivati, ci siamo ricordati che P. Vincenzo soffriva del morbo Parkinson. Come poteva affrontare una discesa di circa 100 gradini? Con aria indifferente, comincia a scendere. A metà discesa dice: ‘Se riesco ad arrivare in fondo e a risalire, posso andare in Africa e tornare!’. E così è stato”.

Poi è tornato al suo postulato, a Matola. Ha tirato avanti, stringendo i denti, per due anni (2001-2003) poi, ha dovuto fare un’altra cura in Italia.

Aveva il desiderio di morire in Africa e di essere sepolto in quella terra. Così, dopo l’ultimo controllo a Verona, è ripartito insistendo per tornare ad Alua dove era stata costruita la bella chiesa-santuario dedicata a Maria Madre dell’Africa. Lui, come padre fondatore, avrebbe fatto il confessore, la guida spirituale, l’anziano. I superiori gli dissero che Alua era posto di zanzare cattive, apportatrici di malaria, ma non volle sentir ragioni. Quando la malaria lo ha fatto entrare in coma, è stato ricoverato all’ospedale di Nampula, ma ad un certo punto i medici hanno alzato le mani. Allora è rientrato in Italia in lettiga e, dopo un viaggio lungo e faticoso, è stato ricoverato all’ospedale di Negrar, nel reparto di malattie tropicali: ma era troppo tardi e la sera del 23 dicembre ha spiccato il volo verso il cielo.

Intercede per il Mozambico
Il Signore lo ha chiamato a 72 anni come servo buono e fedele che ha fatto fruttificare ampiamente i talenti ricevuti per il bene di tante persone.

P. Capra è stato testimone del passaggio del Mozambico da colonia del Portogallo a nazione libera e indipendente. Il passaggio è avvenuto fra tanti travagli, guerre e sofferenze come abbiamo sentito nella sua testimonianza. Eppure egli non è mai venuto meno al suo ideale. Uomo forte e ottimista, sapeva infondere in tutti fiducia e pazienza, sicuro che le cose sarebbero cambiate e sarebbero andate verso il meglio. E così è stato.

Il provinciale, alla fine del funerale, lo ha salutato per l’ultima volta con queste parole: “Grazie, Signore, per la vita di P. Vincenzo, vita piena, generosa, faticosa ma felice, vita contrassegnata da un unico amore: l’Africa e gli africani. Adesso che è con te, proteggi e benedici in modo speciale il popolo mozambicano al quale lo avevi inviato. Gli hai chiesto anche di non morire in Mozambico, di non essere sepolto in quella terra, come ardentemente desiderava. Anche in questo ha detto il suo sì. Lo ha detto nella certezza che ti prenderai cura del suo popolo. Signore! Adesso tu non puoi deluderlo: in paradiso ti guarderebbe male. Noi ci fidiamo di te”.

Per riassumere il suo metodo missionario diciamo che P. Capra ha impostato il suo ministero su quattro pilastri fondamentale: il catecumenato, la comunità cristiana, la scuola e la sanità, il tutto condito da un grande amore al popolo mozambicano. Tra i Missionari Comboniani del Mozambico rappresenta un punto di riferimento, un padre della fede e della promozione umana. Ha segnato il cammino del gruppo comboniano in Mozambico, perciò rientra a buon diritto nel numero delle personalità fondanti. Ci ha insegnato che il missionario autentico è colui che sa vivere e anche morire per il Signore, ma gioiosamente.
(P. Lorenzo Gaiga, mccj)
Da Mccj Bulletin n. 226 suppl. In Memoriam, aprile 2005, pp. 71-82