Alfonso era uno dei 12 figli della grande famiglia Segato, povera di pane, ma ricca di fede e di virtù cristiane. Papà Bernardo lavorava la terra, troppo poca per tutte quelle bocche. La mamma, Carmela Funto, era occupata a crescere la numerosa prole, tuttavia trovava il tempo anche per qualche lavoretto extra.
Alfonso nacque gracile e più di una volta sembrava volersene andare da questo mondo. La mamma, per sostenerlo, si privava spesso del necessario per darlo a lui. Da grande, Alfonso dirà: “La mia mamma ha patito la fame perché io potessi mangiare a sufficienza”.
Ad un certo punto i genitori decisero di lasciare il Veneto, allora povero e depresso, per trovare fortuna a Bosto, Varese, dove, grazie alla Provvidenza e a tanta voglia di lavorare, la famiglia ha trovato un discreto benessere.
A 17 anni, dopo l’incontro con un missionario che era andato nella sua parrocchia, Alfonso decise di farsi missionario. Il parroco, Don Agostino Riboldi, scrisse che il giovane, di condizione operaio, “è di buon carattere, ha sempre tenuto una condotta morale edificante, si accosta quotidianamente alla comunione e desidera farsi missionario mosso dal desiderio di collaborare all’opera missionaria per la salvezza degli infedeli”.
Alfonso entrò dai Comboniani all’età di 17 anni. Era il 12 gennaio 1938 e fece la vestizione il 5 agosto 1938. Il suo esempio generoso sarà seguito dalla sorella che ha lavorato per tanti anni in Sudan come Suora Comboniana.
Suo maestro in noviziato fu P. Antonio Todesco. Scrisse di lui: “Pur mantenendosi alquanto bambino nel suo carattere, pure diede segni di grande impegno e serietà nei suoi doveri. La sua convinzione verso la vocazione crebbe e si perfezionò. Il suo spirito di pietà è assai buono, così pure la sua sincerità e il suo spirito di sacrificio. Qualche volta, però, scatta se qualche cosa lo contrasta e, dopo un insuccesso, prova un po’ di scoraggiamento. Come carattere è gioviale: gli piace ridere, scherzare e qualche volta anche chiacchierare durante il silenzio. Ha intelligenza, criterio e molta voglia di lavorare”. In noviziato Alfonso fece anche il contadino. Con la falce in spalla partiva con altri confratelli al mattino presto e andava a falciare il fieno per le mucche. Poi dava una mano nell’orto e in cucina. Non sapeva cosa gli sarebbe stato richiesto in missione e allora cercava di impratichirsi in tante cose.
Sarto, cuoco e tuttofare
Fr. Alfonso emise i primi voti il 7 ottobre 1940. Aveva 20 anni. Sognava l’Africa, ma a causa della guerra, per andarvi dovette attendere fino al 1949. Intanto venne inviato nel piccolo seminario comboniano di Como (che allora si trovava ancora in via Borgo Vico 114) come cuoco. Era la prima sosta di una Via Crucis che pareva non finire più. Infatti, nel 1941 fu mandato a Thiene come addetto alla campagna e nel 1942 venne dirottato a Brescia con l’incarico di portinaio. L’anno dopo, 1943, passò a Verona in sartoria e vi rimase fino al 1947. Tra il 1947 e il 1948 fu a Trento come ortolano, e da qui, tra il 1948 e il 1949, venne inviato a Firenze perché avevano bisogno di un sarto.
Mentre si trovava a Verona gli capitò una disavventura che poteva avere conseguenze deleterie per lui. Scrisse il fatto accadutogli in una lettera del 1946: “Due anni fa fui accusato presso il molto Rev.do P. Agostino Capovilla di avere abbracciato un giovanetto. Ma le cose non sono andate come sono state riportate. Il fatto avvenne una sera quando, improvvisamente, suonò l’allarme perché si avvicinavano gli aeroplani per bombardare. Tutti, di corsa, ci dirigemmo verso il rifugio. Appena giunti all’imboccatura, mi venne incontro un fanciullo spaventato che piangeva e invocava aiuto. Il momento era terribile. Io, senza neppur pensarci, gli misi una mano sulla spalla per fargli coraggio e lo introdussi nel rifugio. Tutto qui. Ma questo mio modo di agire fu riportato ai superiori da uno che era presente ed io ne ebbi una paterna ammonizione. Nessuno può immaginare quanto sia stata grande la mia pena per quell’accusa infamante. E pensare che avevo agito per compiere un atto di carità verso un ragazzino spaventato…”. In calce alla lettera c’è una riga scritta proprio da P. Capovilla: “Do voto favorevole per l’ammissione ai voti perpetui”.
In Libano e in Egitto
Nel 1949 anche per Fr. Alfonso si aprì la strada per la missione. Fu inviato a Zahale, in Libano, dove c’era una comunità comboniana di padri che si dedicavano allo studio dell’arabo. Il primo incarico di Fr. Alfonso, tanto per fare un po’ di rodaggio, fu quello di sagrestano e spenditore. In questo modo poteva venire a contatto con la gente e imparare un po’ di arabo parlato e di francese.
In una nota di P. Giacomo Andriollo, superiore a Zahle, si dice: “Fr. Alfonso fa miracoli per il piccolo clero”.
Dal 1950 al 1955 Fr. Alfonso fu al Cairo. Oltre che sagrestano e spenditore, fu incaricato della gioventù maschile e, all’occorrenza, faceva anche il cuoco della comunità. “Ha occhio per tutto e non gli sfugge niente. Lavora con impegno e si sforza di imparare le lingue che qui si parlano e che gli sono necessarie per svolgere un po’ di ministero tra i giovani”, registrò il superiore. I confratelli notarono subito la disponibilità e la gentilezza di questo nuovo arrivato, sempre pronto a dare una mano a chi fosse nel bisogno.
Dopo 6 anni di vita missionaria in Africa, Fr. Alfonso dovette tornare in Italia per la salute un po’ carente. Andò a Thiene come addetto alla casa e poi a Milano, in via Saldini, con l’ufficio di cuoco e di spenditore. Rimettendosi in salute, sentì il desiderio di tornare in missione.
Bassa California
“Ho pregato tanto la Madonna che mi aprisse una nuova via per la missione”, disse ad un confratello. Ed ecco che nel 1961 poté partire per la Bassa California e lì rimase per quasi 30 anni lavorando in varie missioni e dando il meglio di sé. All’inizio fu nella Città dei Ragazzi di La Paz, poi passò a Santa Rosalia (1962-1971), a Cuernavaca (1971-1975), quindi nuovamente a Santa Rosalia (1976-1981) e a Bahia Tortuga.
Scrive Fr. Giuseppe Menegotto: “Ho avuto la possibilità di conoscere Fr. Alfonso a Ciudad del los Ninos de la Paz dove formò comunità con P. Carlo Toncini, direttore della Ciudad e parroco del santuario di Nostra Signore di Guadalupe. Fr. Alfonso si trovò a suo agio dato che c’era lavoro per tutti, ed inoltre ebbe la possibilità di portare avanti iniziative e progetti.
Nel santuario si occupò soprattutto della liturgia e dei chierichetti, cose per le quali aveva una naturale inclinazione. Nella Città dei Ragazzi si occupò con molto impegno e zelo nella falegnameria e nella meccanica, dando un tocco artistico all’officina.
Un’altra delle attività cui si dedicò fu lo sport, sia quello organizzato, sia quello inteso come tempo libero o come attività ricreativa da svolgere con i ragazzi. Ricordo che in questo settore si dimostrava un ottimo arbitro, soprattutto durante le partite di calcio. Giacché aveva il vantaggio di essere un po’ sordo, ci toglieva dal prendere decisioni imbarazzanti perché non fischiava quasi mai e se gli gridavano qualcosa, si scusava dicendo semplicemente: ‘Non ci sento, non ci sento’. Credo, tuttavia, che si distinguesse per acume e vivacità e perché sapeva trovare il lato umoristico in tutti gli eventi sia in quelli meno importanti, come in quelli dolorosi. Per Fr. Alfonso fu una grande gioia quando gli fu chiesto di dedicarsi alle costruzioni”.
Costruttore
Nel 1971 scriveva dalla Valle di Vizcaíno: “Come vede sono in una nuova missione che fa parte di Guerrero Negro, dove c’è la grande salina. Ora questo deserto è diventato Valle perché è stato dichiarato zona agricola. Le cose, però, vanno molto adagio e qui i poveri campesinos vanno avanti come i gamberi, però con il tempo la zona diventerà un centro importante.
Intanto noi stiamo costruendo una grande cappella con la casa del parroco di sette locali. Dopo tanto sospirare mi hanno messo a fare il muratore; ciò vuol dire che sono stato promosso nella categoria dei fratelli costruttori.
Qui la vita è abbastanza dura per il clima e la povertà. Il sacerdote ci visita ogni settimana e ci lascia l’Eucaristia. Durante la settimana noi ci comunichiamo a vicenda. Sono tanto felice che non ne ha l’idea. È proprio vero che non sono le comodità e le agiatezze che fanno felice l’uomo…”.
Quando era a Bahia Tortuga gli capitò un’avventura un po’ particolare. Un giorno giunse in missione la notizia che donna Melchiade, una vecchietta che viveva sola, povera e abbandonata, era morta, ma nessuno la voleva seppellire perché era troppo sporca e stracciata. Che fosse morta lo aveva detto il medico che, però, aveva scritto la sentenza senza vedere l’ammalata. P. Mario Menghini chiese a Fr. Alfonso di andare a vedere come stavano le cose e, caso mai, di dare cristiana sepoltura alla povera donna. Fr. Alfonso andò, avvolse la defunta in una coperta (avrà pesato 40 kg) e fece per metterla sul furgoncino. A questo punto sentì dei lamenti. In un primo tempo pensò che fossero i cani randagi che giravano nei dintorni, ma poi, tendendo l’orecchio, sentì la morta che gli disse: “ Hermanito, sei tu?”: “Sì, sono io. Ora ti porto alla missione”. “Oh grazie, grazie”. E invece di dirigersi verso il cimitero, tornò a casa dove P. Menghini aveva messo in piedi un ospizio per vecchi abbandonati.
Le suore si presero cura volentieri della nuova venuta che, un poco alla volta, si riprese. La sua malattia era… denutrizione. Dopo qualche mese morì davvero, ma questa volta ben assistita e accompagnata dai conforti religiosi. Fr. Alfonso concluse: “Prima di allora avevo una certa paura dei morti. Da allora, però, la paura mi passò per sempre”.
Aiutante a Rebbio
Verso la fine del 1989, il Superiore Generale gli scrisse invitandolo a rientrare in Italia… “Abbiamo bisogno anche in Italia di Fratelli per permettere ad altri, che non hanno mai fatto la missione, di potervi andare. Fratelli che siano esperti nella guida, che sappiano arrangiarsi nelle spese e nel disbrigo degli affari occorrenti in una comunità. Tu, dopo quasi 30 anni di lavoro in Bassa California potresti essere uno di questi Fratelli. So che questa proposta ti arriva come un fulmine a ciel sereno, però, è una proposta che viene fatta anche ad altri che sono già stati in missione per molti anni.
E poi c’è anche da partecipare al Corso di Aggiornamento di Roma che comincia dopo l’Epifania e finisce prima di Pasqua. Ci sarà un’ampia informazione sull’Istituto, e in particolare su Comboni, un buon approfondimento sulla Bibbia e una bella esperienza di vita di comunità e di preghiera. Il tutto finirà con un mese in Terrasanta…”.
Nel 1990 Fr. Alfonso era a Roma. Di tanto in tanto diceva: “Devo cercare di non abituarmi a stare in Italia perché il benessere attira”. Invece gli fu chiesto di andare a Rebbio per dare una mano ai confratelli anziani. Fr. Alfonso obbedì e si trovò bene.
Al servizio dei confratelli, mise in pratica il motto di San Benedetto: “Prega e lavora”. Si può dire che Fr. Alfonso non sapeva cosa volesse dire stare in ozio.
“Un giorno, passando vicino alla grotta della Madonna di Rebbio – ricorda P. Giuseppe Farina – l’ho visto con la corona in mano. Gli chiesi cosa stesse facendo lì, solo, tanto più che era ormai buio.
‘Caro Padre – rispose – se non preghiamo che missionari siamo?’. Fr. Alfonso aveva capito che per salvare se stesso e le anime bisognava parlare molto col Signore per mezzo della Madonna”. Quando gli acciacchi aumentarono, dovette passare a Milano presso il Centro Ambrosoli dove è deceduto per una cirrosi epatica.
“Siamo quasi compaesani – disse P. Marcello Panozzo durante il funerale - siamo entrati in noviziato a pochi giorni di distanza e abbiamo fatto la professione nello stesso giorno. Poi la vita missionaria ci ha divisi, ma ci siamo ritrovati insieme dopo tanti anni in Bassa California.
Sei sempre stato intraprendente. Sei stato muratore, sagrestano, meccanico e anche idraulico ed elettricista. Facevi il lavoro per bene e lo facevi con amore. La gente ti voleva tanto e tanto bene. Ora vedi Dio e la Madonna che tanto hai amato. E abbiamo cercato di farla amare da tutti. Grazie degli esempi che mi hai dato e arrivederci”. Fr. Alfonso Segato è stato sepolto nel cimitero di Gavirate (VA), accanto ai suoi parenti. (P. Lorenzo Gaiga, mccj)
Bro. Alfonso Segato was born in Dueville, Vicenza, on 19 July 1920. At age 20 he took his first vows in Venegono and, after serving in Italy for nine years, went to spend a year in Zahle, Lebanon. From 1950 to 1955 he worked in Cairo, Egypt. Back in Italy, he worked for six years at Thiene and Milan. In 1961 he left for Mexico where he remained until 1989, offering his missionary service in La Paz, Santa Rosalia, Cuernavaca and Bahía Tortugas.
In 1990 he returned to Rebbio, Italy, where he remained till his death.
This is what Bro. Giuseppe Menegotto writes about him: “In 1961, after several years of service in Italy and in Egypt, Bro. Alfonso arrived in Mexico where he remained for 28 years, about 20 of which spent working in Baja California. I got to know him well at the “Ciudad de los Niños” of La Paz where he was with Fr. Carlo Toncini, director of the Ciudad and parish priest of the Shrine of Our Lady of Guadalupe.
“Bro. Alfonso felt at home, since there was enough work for everyone and he had the opportunity to be in charge of various activities and projects.
“At the shrine he took care mostly of the liturgy and the altar servers, activities to which he felt particularly attracted. At the Ciudad he took care mostly of the carpentry and mechanics, lending an artistic touch to the workshops.
“He was also very involved in sports, both organized and recreational, as activities in which to involve the boys of the ‘Ciudad’. I remember him as a good referee, especial during soccer games, since he had the advantage of being a little deaf. He was sparing us and himself from having to take embarrassing decisions, because he very seldom blew the whistle and, when we complained, he would simply say: ‘I can’t hear you! I can’t hear you!’
“To close this brief sketch, on the basis of what I got to know about Bro. Alfonso, I can say that he distinguished himself for his intelligence and liveliness. He could find the humorous side of any situation, both of those not too important and of those that were painful, such as not being able to go back to Egypt. He spent the last years of his life in Rebbio, alternating joyful moments and sad moments, carrying his cross up to the day when the Lord called him.
“A Brother, whom we loved and remember with affection, has gone. May he rest in peace as he awaits the resurrection.”
Da Mccj Bulletin n. 220 suppl. In Memoriam, ottobre 2003, pp. 63-69