Si è spento a Khartoum il 19 agosto scorso P. Paolo Grumini, missionario veronese. Senza clamore pubblicitario è stato per 47 anni insegnante, direttore di scuole e leader della gioventù. Era nato a Verona, via Rosa Morando (Borgo Venezia), il 29 gennaio 1928, terzo di sei figli. Il papà, Dante, lavorava nelle Officine Adige come capo reparto, la mamma, Pierina Merlini, era casalinga. Nel 1931 la famiglia si è trasferita nella parrocchia di San Felice Extra per motivi di lavoro del papà. Qui Paolo ha vissuto la sua infanzia e i primi anni dell’adolescenza.
Da piccolo cominciò a frequentare la chiesa e a servire la Messa. Faceva la quinta elementare quando incontrò un missionario che si era recato nella sua parrocchia per tenere la Giornata Missionaria. Nel pomeriggio c’erano state le filmine per tutti. La sorella Paola, di due anni più grande del fratello Paolo, ricorda con nitidezza quel pomeriggio. Alla fine della proiezione il missionario chiese ai ragazzi se qualcuno voleva andare in Africa per portare Gesù agli africani. Paolo, dopo una notevole esitazione perché era estremamente timido e taciturno, ha alzato la mano dicendo un esile “io”. Veramente - dice ancora Paola - avvicinandosi la fine di quinta elementare, la mamma aveva detto al figlio che era ormai tempo che si trovasse un lavoretto, ma Paolo rispondeva che voleva farsi missionario. Devo proprio concludere che il germe della vocazione è stato il Signore a metterglielo nel cuore. Un’ora dopo la fine della proiezione, il padre missionario era già in casa nostra per combinare il momento della partenza per il seminario missionario”. Il parroco diede le migliori informazioni, sia su quel suo chierichetto, umile, silenzioso e sempre disposto ad aiutare, sia sulla sua famiglia, costituita da cristiani tutti d’un pezzo.
Entrato nell’Istituto Comboniano di Padova nell’agosto del 1942, frequentò le medie e poi passò a Brescia per il ginnasio. Paolo dovette alternare gli studi con periodi di riposo in famiglia a causa di un po’ di stanchezza. Ciò è documentato dalle lettere che il seminarista scriveva ai superiori e da quelle del suo parroco che assicurava che il giovinetto si comportava bene, che lui lo faceva dormire in canonica perché potesse continuare, in qualche modo, la vita di seminario e che, durante il giorno, andava a casa dalla mamma che gli preparava dei “buoni brodetti per tirarlo su”. Teniamo presente che si era in tempo di guerra e, qualche volta, in seminario il cibo scarseggiava per cui non deve meravigliare che qualche ragazzo si indebolisse.
Alla fine della quinta ginnasio il superiore, P. Angelo dell’Oro, scrisse al parroco di Paolo: “Ho il piacere di comunicarle che Paolo è un buon figliolo, aperto con i superiori, pur essendo asciutto e riservato. Spero proprio che potrà riuscire un ottimo soggetto per le nostre care missioni così bisognose di operai bravi e santi”. A Brescia Paolo emise la “Promessa Apostolica”. Volle far precedere a quella modesta cerimonia una domanda scritta, nella quale il giovane seminarista prometteva di osservare le regole, di non mancare mai alla preghiera comunitaria e di impegnarsi a dare buon esempio ai compagni. I sentimenti che esprime dimostrano che Paolo era un giovane serio e impegnato: “Compreso di ciò che significhi la Promessa Apostolica con la quale esprimo pubblicamente il proposito fermo di emendare sempre di più i miei difetti per diventare un santo missionario…”.
Il 21 ottobre 1947, lasciò la casa di Brescia per entrare in noviziato a Firenze. “Fa con naturalezza il suo dovere - ha scritto P. Giovanni Audisio, suo maestro - e per una felice naturale disposizione affronta gli impegni del noviziato senza apparente difficoltà. È un giovane serio e sinceramente deciso di corrispondere alla vocazione. Giudizioso, fornito di senso pratico, è dotato di buona intelligenza. Come carattere è tranquillo, esatto e compito nelle sue cose”.
Paolo emise la professione religiosa il 9 settembre 1949 e poi andò a Rebbio per il liceo, ma l’anno dopo, settembre 1950, fu mandato a Sunningdale, in Inghilterra dove, con le scienze, avrebbe anche imparato l’inglese e conseguito il diploma per insegnare nei territori inglesi. Per la teologia passò a Stillington.
Anche in Inghilterra, stando alle note del superiore provinciale P. Renato Bresciani, Paolo continuò la sua formazione con quella posatezza e serietà che gli erano proprie. “Osserva i voti con esattezza e amore, si comporta bene sia nello studio che nell’assistenza dei ragazzi, non rifiuta di eseguire anche gli uffici e i lavori più umili nei quali c’è da sporcarsi le mani, è calmo ma attivo, va d’accordo con tutti, insomma, lo direi una buona pasta”.
Insegnante a Khartoum
Per l’ultimo anno di teologia, Paolo passò a Venegono Superiore dove si unì ai compagni di corso. Suo superiore era P. Giuseppe Baj. Fu ordinato sacerdote il 26 maggio 1956 e, nello stesso anno, fu mandato a Khartoum, capitale del Sudan, come insegnante nel Comboni College. Scrive P. Giovanni Vantini: “Il Comboni College, fondato nel 1929, nel primo decennio di vita si era acquistato stima e notorietà in tutto il Sudan per la formazione scolastica dei suoi ex allievi. Gli studenti che uscivano allora dal ‘Comboni’ trovavano subito impiego negli uffici, perché sapevano bene inglese, arabo, aritmetica e la tenuta dei registri. Alcune ditte si accaparravano gli studenti prima ancora che facessero gli esami. Per disposizione del governatore generale, il Comboni College non poteva accettare figli di sudanesi (arabi, musulmani): perciò i suoi allievi erano figli di immigrati da paesi del Mediterraneo (italiani, greci, libanesi, siriani, armeni, copti) quasi tutti cristiani. Durante la guerra 1940-45, il Comboni College fu chiuso perché gestito da missionari italiani e la guerra era contro l’Inghilterra, che comandava nel Sudan. Ma quando la guerra si allontanò dall'Africa (1943) il governatore generale permise - su richiesta della popolazione - che il Comboni College fosse riaperto. Anzi, per la pressione di alcuni ‘magnati’ sudanesi tolse anche il veto che impediva di accettare studenti sudanesi, cioè arabi musulmani.
Così, il numero di studenti fece un gran balzo in avanti: da 270 dell’anteguerra a 400, poi 600 e infine 1000, i sudanesi divennero la maggioranza. Non fu solo questione di numeri, ma anche la vita e l’atmosfera nel Comboni College cambiarono in concomitanza con l’evoluzione socio-politica. Nel 1956, il Sudan raggiunse l’indipendenza: il governo nazionale ovviamente pose l’accento sulla lingua araba, la cultura araba, i programmi adattati alla sua politica, fino all’ostracismo della lingua inglese quale tramite d’insegnamento (1992). E d’altronde, la politica dei successivi governi passò attraverso fasi di democrazia, dittatura, fondamentalismo islamico, con varie sfumature.
P. Paolo, in Sudan, è stato dapprima insegnante poi, da direttore di sezione e direttore generale, ha dovuto pilotare il Comboni College tra vari ‘scogli’, cioè i vari orientamenti e programmi dettati dal ministero dell’educazione, a seconda dei partiti che salivano al potere. Per la sua affabilità e gentilezza si è guadagnato l’amicizia di tanti genitori degli studenti - anche di quelli ‘altolocati’ - e questo ha permesso al Comboni College di mantenere la propria fisionomia educativa”.
Animatore di iniziative
Tra le iniziative, P. Paolo ha ravvivato nel Comboni College l’associazione scoutistica, messa in piedi negli anni trenta da P. Elia Toniolo e da Mons. Agostino Baroni che si era spenta durante la guerra. P. Paolo, lui stesso scout - scoutmaster - in mezzo a piccoli e grandi scout, si era fatto una cerchia di amici. Uno di questi, ex allievo, poi giovane ufficiale di polizia, salvò il Comboni College in un brutto momento - cioè quando una folla irritata da atti di vandalismo da parte di sudanesi cristiani (del Sud), bruciò la Missione Americana (6 dicembre 1964) attigua al Comboni College minacciando di invadere anche quest’ultimo, se quell’ufficiale di polizia, in piedi davanti all’ingresso, non l’avesse trattenuta con parole assennate. Un’altra volta, più o meno negli anni 70, arrivò alla cattedrale una lettera in arabo, anonima, nella quale si dava per scontata l’occupazione delle Sisters’ School (= espropriazione): il timore dei missionari fu grande, ma P. Paolo, col suo bel modo di fare, riuscì a smontare la minaccia e a salvare la scuola.
P. Paolo lavorò al Comboni College per 36 anni e nel 1992 gli fu affidato un compito ancora più delicato, sempre nel campo dell’istruzione. La seconda guerra civile nel Sud Sudan (1983-2003) aveva fatto affluire dal Sud al Nord almeno due milioni di sfollati un milione dei quali si erano acquartierati in baraccopoli alla periferia della capitale e molti di essi erano cristiani. I figli di questi sfollati non potevano trovare posto nelle scuole statali della capitale. Sarebbero cresciuti analfabeti, se l’arcivescovo di Khartoum, Mons. Gabriel Zubeir Wako, non avesse trovato una soluzione: lanciare un programma di scuole per sfollati, con il motto: “Salvare il salvabile”. Sono sorte così delle piccole scuole elementari (di sole 3 classi, perché il ministero dell’educazione non permetteva di più), che sono andate sviluppandosi perché, il ministero, non potendo sopperire alle necessità della scuola, permise anche la quarta e poi, che si andasse avanti fino all’ottava primaria, cioè tutto il curriculum di base. Quando c’era da ottenere qualche permesso dal ministero, per avere nuovo personale o per ingrandire qualche scuola, i superiori mandavano P. Paolo a portare le istanze dei missionari, sicuri che, con il suo modo di fare, riusciva ad ottenere ciò di cui i missionari, e soprattutto la scuola, avevano bisogno.
Anche le scuole di periferia
Nelle baraccopoli attorno alla capitale sorsero così una settantina di queste scuole con un totale di 40 mila alunni ai quali occorrevano non solo maestri e libri, ma anche la colazione a metà mattinata. L’arcivescovo chiamò a dirigere questa “impresa” P. Paolo, il quale l’ha diretta bene - con la collaborazione di un diacono permanente - fino al 2002, pur avendo subito delle operazioni al cuore e avendo avuto, negli ultimi tempi, altri disturbi che ne hanno logorato la fibra.
P. Paolo, come insegnante e ancora di più come direttore della sezione primaria del Comboni College, si è conquistato la benevolenza e l’ammirazione degli scolari e delle loro famiglie. Alcuni suoi ex-allievi sono diventati suoi collaboratori nelle attività extrascolastiche e negli scout.
“Come Gesù - ha scritto l’arcivescovo di Khartoum - P. Paolo è stato maestro, leader (responsabile) e prete tutto d’un pezzo. Ha insegnato non a centinaia, ma a migliaia di ragazzi e giovani nelle scuole primarie dove contemporaneamente è stato vice direttore. Poi per molti anni è stato direttore del Comboni College. Dal 1992 fino a pochi mesi prima della morte è stato responsabile del programma ‘scuole per ragazzi rifugiati’, cioè quelli fuggiti dal Sud dove infuria la guerriglia, circa 25.000, e responsabile degli studenti di tutta l’Arcidiocesi di Khartoum. Per molti anni è stato anche superiore mite e silenzioso della comunità comboniana del Comboni College. Come sacerdote e maestro rimane un modello e un grande lavoratore. Ha lavorato con efficienza e dedizione. E questo nonostante la sua salute fosse debole. Sulle orme di Comboni ha contribuito alla rigenerazione dell’Africa con gli africani. Sono certo che è tornato tra noi per morire e per restare in questa terra dove è rimasto anche Comboni”.
Un uomo in punta di piedi
Partito nell’aprile del 2003 per una vacanza in patria, è ritornato in luglio senza aver completato le cure, anche se i sanitari di Verona gli avevano detto che poteva partire perché tutto andava bene. Il 14 agosto ha accusato un grave malessere. Portato in clinica, non si è trovato un rimedio pronto e sicuro. Ha ricevuto i sacramenti in coscienza e con devozione, senza perdere la sua giovialità, tanto da chiedere - poche ore prima del decesso - se ci fosse stata qualche corsa di campionato d’auto, la domenica precedente! Infatti era appassionato di questo sport come anche del calcio.
Scrive P. Giovanni Ferracin: “Mi viene spontaneo descriverlo e ricordarlo come ‘un uomo che cammina in punta di piedi’. Non si faceva notare, si muoveva senza far rumore, non alzava la voce e non voleva disturbare nessuno. Riservato, dedito al suo lavoro, non esternava esigenze per se stesso. Se contraddetto, benché molto sensibile, normalmente non ribatteva, ma portava tutto dentro, mostrandosi calmo e gentile con tutti. Era quello che gli inglesi chiamano ‘gentleman’. Dobbiamo anche dire che, da quando l’amministrazione delle scuole era passata dai Comboniani in altre mani, i conti hanno cominciato a segnare rosso. P. Paolo che, in ultima analisi, era il responsabile e voleva pagare i maestri con puntualità, si è trovato in una grossa difficoltà che certamente ha influito sulla sua salute, sul suo cuore già debole.
Per il suo stile di vita, in comunità, facciamo fatica ora ad accorgerci della sua assenza. Si è rivelato così anche nella sua malattia. Da alcuni giorni conviveva con un blocco intestinale. Aveva tentato di curarsi da solo, ma senza risultato e di giorno in giorno sentiva sempre più ripugnanza al cibo. Ci siamo accorti della gravità il giorno 14 agosto, ma non voleva ancora che si consultasse un medico o lo si portasse in clinica. Il 15, giorno dell’Assunta, è subentrata una marcata aritmia cardiaca.
Lo portammo di urgenza nella clinica Sidra di Khartoum e fu sottoposto a varie cure intensive. Faceva fatica a respirare e lamentava di sentire un blocco nei polmoni. Dagli esami clinici e dalla radiografia non risultava né che ci fosse acqua nei polmoni, né gravi infezioni. A poco a poco però si è rivelata la presenza di una febbre molto alta che indicava un cedimento dei reni.
Benché fosse tornato dall’Italia circa 4 settimane prima, ed esternamente sembrasse in buona forma - aveva guadagnato circa 10 chilogrammi di peso in Italia - lui stesso ha detto che questi problemi di salute li aveva sofferti anche durante le vacanze in Italia.
Domenica, 17 agosto, ha ricevuto con serenità il Signore nell’Eucaristia; lunedì con molta disponibilità gli fu amministrato l’olio degli infermi. Nel pomeriggio di martedì, si vedeva che la situazione peggiorava. Ha ricevuto con piena consapevolezza il conforto dell’assoluzione. A questo punto ha capito che era ormai giunto il momento di lasciare questo mondo per andare con il Signore.
Nonostante si moltiplicassero gli interventi medici, verso le 22.30, è spirato, quasi in silenzio, senza farsi notare, proprio come era vissuto. Sono convinto che P. Paolo non è tornato in Sudan perché stava bene… ma per rimanere per sempre con la sua gente, i giovani, gli studenti che ha amato e a cui ha fatto dono di se stesso con 47 lunghi anni di servizio ininterrotto. La chiesa cattedrale era proprio gremita da loro al suo funerale”.
È rimasto in Africa
Dopo il decesso, il corpo è stato portato dalla clinica dove era morto alla cappella del Comboni College, dove è stato vegliato fino alle 9 del mattino. Alle 10 è cominciata la Messa in cattedrale. La chiesa era piena come nelle grandi occasioni. Mons. Daniel Adwok, il vescovo ausiliare, nonostante avesse la febbre alta, ha voluto presiedere la celebrazione (l’arcivescovo era in Europa).
Hanno concelebrato il nunzio apostolico e un folto numero di sacerdoti religiosi e diocesani. Oltre a due rappresentanti del ministero dell’educazione e ai maestri cristiani e musulmani del Comboni College, hanno partecipato larghe rappresentanze di tutte le scuole Comboni di Khartoum. Nella sua omelia il vescovo ausiliare ha sottolineato il contributo di P. Paolo alla realizzazione del ‘piano’ di Comboni . Poi la salma è stata sepolta nel vecchio cimitero vicino alla scuola di San Francesco, dove riposano tanti Comboniani e Comboniane morti a Khartoum.
I missionari hanno in progetto di dedicare un salone del nuovo edificio nell’ala sud-est del Comboni College alla memoria di P. Paolo. “Ha lasciato il segno nel cuore di tanti giovani, è giusto che resti un segno di lui anche in una costruzione che prolunga il suo carisma di educatore”, hanno detto.
Sr. Bianca Benatelli, la Comboniana che ha messo sotto il cuscino della miracolata da Comboni l’immagine del Fondatore, passando da Brescia ha detto, a chi avrebbe steso il necrologio di P. Paolo: “Scriva che era un santo, un autentico santo, un sacerdote integerrimo che nella sua vita ha sempre e solo fatto del bene, senza far chiasso, con il sorriso sulle labbra e tanta bontà nel cuore. Mi raccomando, lo dica, perché anche noi suore abbiamo usufruito molto del suo ministero sacerdotale”.
Penso che questo giudizio possa concludere le scarne note su questo nostro confratello che ha dedicato la vita a far rivivere il carisma di Comboni tra il popolo sudanese. (P. Lorenzo Gaiga, mccj)
-----------------------------
Fr. Paolo Grumini, or rather “Fr. Gurumini” as he was called by the Sudanese, was born in Italy, completed his studies in England and worked and died in Khartoum, Sudan.
Arriving in Sudan in 1956, the year of that country’s independence, he started his work in education, which he continued till his last days. He had always being involved with schools and all the activities that went with it: teaching, supervising, administration, youth groups (for years he had been one of the most knowledgeable person about the scout movement in the Catholic schools as well as at national level). Whatever he did, he always did it as a Comboni Missionary priest. Fr. Paolo, taking his inspiration from Comboni, trusted the Sudanese people. He did not “work for, but with them” in education, looking for and treasuring their collaboration.
As school director and teacher, every year he was in contact with over 600 youth of various nationalities and of a variety of religions and cultures. About thirty Sudanese teachers, the majority Muslims, were working with him, which required a collaboration and an understanding based on reciprocal respect. The teachers were following him with commitment and admiration, bound by a deep sense of friendship, a friendship that was extended to many of the students’ families.
He was tireless at his work. Though always busy, he managed to find time to take care of people’s special and difficult requests. He faced the various events without over reacting or showing fear. He was one of those Comboni Missionaries who knew how to relate to everyone, from the president of the country to the minister of education and to the “most simple and unremarkable” people.
Though he was a great organiser of activities and of sport competitions, he gave the impression of not being personally involved in any sport, instead he was a very good tennis player. Music was another one of his interests, as he conducted the cathedral choir and the school musical groups. Outside the school, he assisted religious people, Sudanese as well as foreigners, with catechesis and religious instruction.
Fr. Paolo became identified with the Comboni College and has contributed to its history. In 1964 there was the expulsion of all the Comboni Missionaries from Southern Sudan. The Comboni College gave hospitality to the 203 priests, Brothers and Sisters who, expelled from the South, were waiting for the plane to fly them to Europe. The Khartoum government had signed the decree of expulsion also for the missionaries of Northern Sudan, but the document had providentially remained locked away in a drawer, allowing the Christian presence in Northern Sudan to care for the seed hidden under the sand and which, in time, produced the good fruits that we are witnessing now.
In October of that same year (1964) there were demonstrations that led to the massacre of thousands of Southern Sudanese who had run away from the South and found refuge in Khartoum. On that occasion the American mission was burned down. This was very near the Comboni College, which, though, did not suffer the same fate only because some Sudanese students convinced the revolutionaries not to enter the school grounds and burn it down. It was a very near escape also for an unknown large number of people from Southern Sudan who had found refuge in the school. On that occasion Fr. Paolo was among the last ones to leave the College and only because forced by some students who got him into a car that took him to the safety of the cathedral, one of the few buildings not touched by the upheaval. The school was also saved, but the project already in progress to introduce courses at university levels had to be procrastinated.
In 1970 the schools were being nationalised. By direct intervention of the president of the republic, Numeiry, the “Comboni” schools were not nationalised. For Fr. Paolo, principal of the CCK and secretary of the Catholic Schools, began the subtle diplomatic game with the ministry of education, which was controlled by the Muslim Brothers, an extremist religious group that did not see well the work of the Christian schools.
In the 1970’s the migration of the populations from Southern Sudan to the north, and especially to Khartoum, had started: first a trickle, then a river, creating serious problems to the aid structures of the Church, in particular to the secretaries of the schools who had to find a way to offer the possibility of education to the children of the immigrants, in the great majority Christian or Christian-oriented. In 1985 famine and war caused the migration of millions of people to Khartoum from Western and Southern Sudan, looking for security and food. It was a migration of biblical proportion. Just in Khartoum the UN Organisations calculated that in 1987 there were 300.000 school age children. The Catholic Church rose to the challenge with the project “To Save the salvable”. Fr. Paolo was the one responsible of the education’s sector from 1991 to the day of his death.
Da Mccj Bulletin n. 222 suppl. In Memoriam, aprile 2004, pp. 87-96