In Pace Christi

Zambruni Pietro

Zambruni Pietro
Data di nascita : 03/07/1925
Luogo di nascita : Casalmaggiore/CR/I
Voti temporanei : 07/10/1944
Voti perpetui : 23/09/1949
Data ordinazione : 03/06/1950
Data decesso : 01/12/2012
Luogo decesso : Milano/I

“P. Pietro era una persona semplice, amava la gente e la gente lo amava, perché lo sentiva vicino. Sapeva arrivare ai bisogni di tutti, senza che lo chiedessero. Quante preghiere ha fatto su musulmani e nubiani, imponendo loro le mani!” (suor Angèle Bishai, missionaria comboniana)

Gli anni della formazione
P. Pietro Zambruni era nato il 3 luglio 1925 a Casalmaggiore, provincia di Cremona. Fece il ginnasio nel seminario diocesano. Nell’estate del 1942 entrò nel nostro Istituto di Firenze, dove il 7 ottobre 1944 emise i primi voti. Studiò teologia a Verona. Fece la professione perpetua a Venegono il 23 settembre 1949 e fu ordinato sacerdote a Milano il 3 giugno 1950. Dopo un breve periodo in Francia, si fermò in Italia fino al 1953, per insegnare nella Scuola apostolica di Crema. Nel 1953 fu destinato all’Egitto.

In Egitto
Dopo un anno a Zahle, in Libano, per studiare l’arabo, arrivò in Egitto nel 1954 e vi rimase fino al 1982. Il suo campo di apostolato furono Assuan (ventitré anni), dove lavorò soprattutto come coadiutore tra i copti cattolici, e Il Cairo (cinque anni), dove fu superiore e parroco della chiesa del S. Cuore.
Scrive P. Pierino Landonio: “P. Pietro, Abuna Butros in arabo, rimase ad Assouan dal 1954 al 1977. La sua vicenda come comboniano è legata a questa comunità e alla Chiesa comboniana fondata da Mons. Antonio Roveggio. Nella parrocchia di Assuan, fino al Concilio Vaticano II, si usava il rito latino. I cattolici non erano molti: in pratica, erano i membri di tre famiglie che venivano da Luxor o dal villaggio di Hagaza per lavoro ed erano per lo più impiegati nelle ferrovie”.
Esisteva quindi il problema del rito da usare proprio perché la parrocchia era circondata da persone di rito copto: ‘Se escludiamo le suore, la totalità dei cristiani cattolici della zona di Assuan segue il rito copto’, scriveva Abuna Butros al Superiore Generale. Quando era arrivato in Egitto, infatti, la pratica raccomandata dai superiori era che i cristiani copti si creassero una loro parrocchia, con sacerdoti ortodossi locali, evitando nella casa e comunità comboniana una convivenza fra sacerdoti e altre persone con usanze, tradizioni e consuetudini diverse. Abuna Butros aveva fatto di tutto per accostarsi alla situazione concreta, cercando di superare concetti come “nazionalismo” e “straniero” e chiedendo – pur rendendosi conto delle difficoltà – di poter stabilire un rapporto di apostolato diretto. Per questo, fin dal 1957, si era recato per un periodo a Nagada per apprendere il rito da un sacerdote copto cattolico. Ritornò da Nagada portando con sé Samuil, il nuovo sacrestano che fungeva da collaboratore domestico, cantore e diacono per le messe copte, padre di Angèle Bishai, futura suora comboniana, che attualmente lavora in Sudan. Samuil fu il braccio destro dei Comboniani per quasi 50 anni… e Abuna Butros ebbe modo di imparare perfettamente la lingua e il rito copto. Naturalmente, per alcuni, continuavamo ad essere Khawaga, cioè stranieri (forse erano anche sobillati da qualche prete ortodosso), tanto che alcuni parrocchiani chiedevano un parroco copto cattolico. Il primo fu Tomas Ibrahim Riad, divenuto poi comboniano. Questo di Assuan, è stato l’unico esperimento, in Egitto, di presenza e collaborazione nella stessa parrocchia tra un Istituto religioso e il clero locale, con tutti i suoi vantaggi e svantaggi”. Nel 1977 Abuna Butros passò al Cairo, nella chiesa Cordi Jesu, dove rimase fino al 1982.

Testimonianza
Fr. Agostino Cerri, che nel 1980 si trovava a Zahle per studiare l’arabo, racconta: “Il ricordo personale più bello di P. Pietro risale al mio periodo in Libano. P. Paolo Adamini era il superiore della nostra piccola comunità a Zahle. Non so il motivo per cui P. Pietro si trovasse lì da noi. La guerra in Libano era da poco terminata. Una sera, un gruppo di giovani cristiani libanesi venne a trovarci. Volevano un sacerdote per la celebrazione di un rito penitenziale al loro villaggio. P. Pietro si offrì ed io lo condussi in macchina in quel piccolo villaggio tra le montagne. Arrivati sul posto, fummo circondati dagli anziani, i leader del villaggio, che volevano una Messa per chiedere perdono a Dio: durante la guerra alcuni di loro avevano combattuto e ucciso dei soldati siriani. Ci raccontarono che durante il conflitto, i siriani scendevano di notte a derubare le case abbandonate. I proprietari, però, erano nascosti nelle vigne e sparavano per difendere i loro beni.

Quella sera, dunque, volevano pregare per chiedere perdono a Dio per le persone che avevano ucciso. Gli anziani dissero a P. Pietro che volevano un’omelia lunga. Questo mi sorprese: di solito capita l’opposto! ‘Questa sera – dissero – non abbiamo fretta di terminare la preghiera: siamo qui solo per questo’. La piazza del paese divenne la nostra chiesa e sotto uno stupendo cielo stellato iniziò la celebrazione. P. Pietro appoggiato al leggio parlò in arabo, lingua che possedeva così bene da meravigliare gli stessi arabi. Parlò a lungo senza difficoltà con la sua voce pacata: vidi uomini e donne piangere. La guerra era finita, ma le ferite dell’anima erano ancora aperte e le parole di P. Pietro erano come un balsamo salutare su quelle piaghe”.

In Sudan
Dopo quasi trent’anni di missione in Egitto, il 1° gennaio 1982 P. Pietro fu destinato al Sudan. Prima, però, si fermò a Roma per il Corso di Rinnovamento.
P. Salvatore Calvia, nel destinarlo, lo incoraggiò dandogli fiducia, sicuro che P. Pietro, da missionario esperto qual era “potrà contribuire grandemente a questa promettente missione”. L’idea era di farlo lavorare nel centro catechetico (Palica) di Rumbek sia nella formazione dei catechisti sia in alcuni progetti di sviluppo. Subentrarono però alcuni problemi di salute che preoccuparono P. Pietro e lo resero un po’ riluttante ad accettare un ambiente molto diverso: era timoroso di dover affrontare un clima malsano e imparare la lingua denka. Fece una buona cura ed eccolo trasformato: “Mi sentii subito bene, cambiato, risuscitato!”. Le cure si protrassero alcuni mesi, ma ad agosto P. Pietro annunciò che si sentiva bene e che sarebbe arrivato in Sudan verso la metà di settembre: “Un grazie al Signore che mi ha dato la sanità (non quella latina!), segno che vuole che lavori ancora per il suo Regno. Lo farò volentieri ovunque ce n’è bisogno”.

Arrivò a Khartoum nel 1983, assegnato alla cattedrale di El Obeid. Verso la fine del 1985 fu nominato superiore della comunità. Nel 1988 gli fu affidato l’incarico di seguire le trattative per l’acquisto della nuova casa e la sua sistemazione. Intanto, anche la parrocchia richiedeva un grande impegno per l’afflusso di molti rifugiati, a causa del triste conflitto con il Sud che da alcuni anni si era inasprito. P. Pietro fece del suo meglio per alleviare le sofferenze della gente.

Alla fine del 1989 arrivò, per dare una mano, P. Vittorio Barin che fu nominato parroco e superiore della comunità. P. Pietro continuò ancora per molti anni a lavorare a El Obeid sia nel ministero che nella comunità dove ebbe l’incarico di economo.  I confratelli lo ricordano come una persona schiva e timida, che evitava di mettersi in mostra. P. Benito Buzzaccarin racconta: “Ho avuto per lui grande stima per più di un motivo. Primo, il suo rispetto per il prossimo, specie per i confratelli. Il suo carattere allegro e vivace gli permetteva di esprimere lievi critiche sempre con il sorriso sul volto. Secondo, era molto benvoluto dalla gente e anche i preti locali lo apprezzavano per il suo modo di fare cameratesco e le sue battute in un arabo perfetto. Terzo, per il fatto di essere arrivato in Sudan dopo qualche decina d’anni di esperienza pastorale con i copti in Egitto e di aver avuto quindi contatto con gente di cultura diversa, per cui seppe gestire saggiamente il cambiamento, senza rendere visibile la fatica, ma adattandosi alla nuova situazione e alle persone. Con lui, ho avuto un rapporto bello e fraterno”.

Nel 1999 gli si presentò un altro serio problema di salute e fu trasportato a Milano dove arrivò quasi in coma: aveva un doppio ematoma al cervello. L’intervento chirurgico riuscì perfettamente. Il giorno dopo, P. Pietro riconobbe P. Lorenzo Tomasoni che pregava accanto a lui. Dimesso dal S. Raffaele, dopo un paio di mesi era già in piedi e pronto a ritornare. A fine ottobre, con ammirevole dedizione, era già nuovamente in Sudan. Continuò a servire nella comunità di El Obeid fino al 2003 quando, per un peggioramento della salute, fu trasferito alla casa provinciale di Khartoum Bahri, dove rimase solo pochi mesi.

Trasferimento in Italia
Rientrato in Italia per cure, a novembre, scrisse al provinciale P. Luigi Cignolini chiedendo di essere assegnato alla provincia italiana. La salute peggiorava e faceva fatica a camminare: “Proprio quest’anno compio 50 anni di servizio missionario tra l’Egitto e il Sudan: ringrazio tanto il Signore. Anche per questo vi assicuro del mio continuo servizio missionario attraverso la preghiera e con le eventuali offerte”. P. Cignolini rispose che il Consiglio Provinciale non aveva nulla in contrario alla sua richiesta: “Ci dispiace un po’, questo sì. Per i tuoi anni passati tra noi, per il tuo servizio a El Obeid vuoi in Cattedrale, vuoi nella nostra comunità, per il tuo carattere allegro che smussava le tensioni… per il tuo arabo. Ti chiediamo però di non abbandonarci, di non dimenticarti di noi... prega per noi e anima la tua prossima comunità a fare altrettanto”.

La notizia della morte a El Obeid
“Ho portato in cattedrale – ha detto Fr. Agostino Cerri – la notizia della morte di P. Pietro. Tutti indistintamente mi hanno raccontato episodi riguardanti la figura di questo nostro confratello amato e stimato da cristiani e musulmani di El Obeid. Il portinaio della cattedrale mi ha raccontato che era stato P. Pietro a trovargli una casa e un lavoro. Una donna nubana, Afifa, mi ha parlato di una sua amica lebbrosa venuta da Kadugli a El Obeid per farsi curare. Afifa l’aveva ospitata in casa sua con un certo timore. Poi ne aveva parlato a P. Pietro che si era preso cura di questa donna, le aveva procurato delle medicine e aveva rassicurato i suoi amici che la evitavano per paura del contagio. La donna era guarita ed era ritornata a Kadugli felice di aver vinto una malattia che tutti pensavano incurabile. Tanti cristiani ricordano la Suzuki bianca guidata da P. Pietro che scorrazzava per le strade dissestate e sabbiose di El Obeid. La sua presenza era segno di aiuto e sostegno a tanti poveri”.

Dalla lettera dei nipoti
Riportiamo una frase della lettera che i nipoti di P. Pietro gli hanno scritto, alla notizia della sua morte: “Carissimo zio Pierino, la tua vita e il tuo operato missionario in Africa ci hanno sempre affascinato e inorgoglito così come i racconti che facevi delle tue peripezie africane, quando ogni tre o quattro anni, di ritorno in Italia, venivi a passare un paio di mesi con noi a Milano: la sera, dopo aver recitato insieme il rosario, noi ragazzi aspettavamo impazienti di sentirti raccontare le realtà della vita di missione, arricchite da episodi divertenti e al limite della sopravvivenza”.
Da Mccj Bulletin n. 254 suppl. In Memoriam, gennaio 2013, pp. 94-99.