In Pace Christi

Bini Tommaso

Bini Tommaso
Data di nascita : 08/03/1938
Luogo di nascita : Rivarolo Mantovano/MN/I
Voti temporanei : 09/09/1959
Voti perpetui : 09/09/1962
Data ordinazione : 30/03/1963
Data decesso : 24/11/2001
Luogo decesso : Isola della Scala/VR/I

Pochi minuti prima di essere colpito da infarto mortale, P. Tommaso Bini aveva terminato l’omelia con un grido che fece vibrare le fibre dell’anima dei fedeli: “La morte è morta perché Cristo è risorto e regna vivo e glorioso e noi viviamo con lui”. Era la messa del sabato sera, vigilia della grande solennità di Cristo Re, che concludeva le Quarantore tenute da lui a Trevenzuolo, un paese della Bassa Veronese.

P. Tommaso, dal mese di settembre aveva lasciato Cordenons ed era passato alla comunità della Casa Madre di Verona come addetto al ministero. La sua era stata una vita piuttosto travagliata, non priva di qualche sofferenza dovuta ad un’incessante ricerca del meglio e del più perfetto dal punto di vista spirituale, ma… la perfezione non è di questa terra, e “il meglio”, finirà per convincersi, si trovava nella propria comunità. Ecco la radice della sua inquietudine, che lo ha portato ad uscire e rientrare per ben tre volte dall’Istituto nel tentativo di dedicarsi alla vita contemplativa tra i Benedettini Olivetani o al servizio di tre diocesi brasiliane. Diciamo subito che, anche se non ha potuto realizzare la sua vocazione monastica a causa del suo carattere e della salute (soffriva di diabete), P. Tommaso è sempre vissuto con lo spirito del monaco, del contemplativo, cercando di realizzare l’ideale del missionario che, secondo la Redemptoris Missio di Giovanni Paolo II, deve essere un contemplativo nell’azione.

P. Tommaso era nato l’8 marzo 1938 a Rivarolo Mantovano, diocesi di Cremona e provincia di Mantova, da Osvaldo e Bianca Morelli. In quel periodo i Bini non avevano ancora la forneria per la quale oggi sono molto conosciuti nella zona. Il papà faceva un po’ di tutto: il barista, l’artigiano e l’operaio in una ditta. Tommaso, fin da ragazzino, mostrò chiare aspirazioni alla vita sacerdotale. “Lo sorprendevamo spesso – dice il fratello Vinicio – a costruire altarini sulle sedie e a celebrare Messa con un asciugamano sulle spalle a mo’ di paramenti sacri”.

Un colpo di testa

Tommaso era il secondogenito di tre maschi e, ancora piccolo, imparò a servire Messa e a tenere in ordine l’altare. Dopo le elementari entrò nel seminario diocesano. Ad un certo punto, forse influenzato dal Missionario Comboniano P. Enrico Farè che in quel periodo batteva i seminari d’Italia in cerca di vocazioni, decise di farsi Comboniano. Non sapeva come comunicare questo suo desiderio ai superiori, allora prese alla lettera ciò che il rettore aveva detto ai seminaristi al momento della loro entrata: “La porta è sempre aperta. Liberamente siete venuti, altrettanto liberamente potete andarvene”.

Il nostro giovane, senza dir niente a nessuno, lasciò il seminario e si presentò dai Comboniani a Verona chiedendo di entrare in noviziato. A questo punto la corrispondenza tra P. Leonzio Bano, incaricato delle vocazioni, il rettore del seminario di Cremona e altri sacerdoti, si fece molto fitta.

Il 2 settembre 1957 Don Angelo Grassi, parroco di Rivarolo, scrisse a Verona: “Mi vedo tornare dal seminario diocesano un mio seminarista alunno della seconda liceo dicendomi: ‘Mi sono dimesso perché parto per l’Istituto Missionario dei Comboniani’. Vuole fare subito il passo perché in casa c’è tempesta, e grossa. Pensavo che fosse già in comunicazione con loro, invece, nulla di nulla. Il Bini è un bravo figliolo che coltiva da tre anni l’idea di farsi missionario…”.

P. Bano rispose con una lunga lettera dicendo che Tommaso aveva fatto un colpo di testa facendosi dimettere in malo modo dal seminario di Cremona, senza essersi prima fatto accettare dai Comboniani. Logicamente il rettore aveva espresso un parere negativo e il vescovo aveva opposto un netto rifiuto a riammetterlo di nuovo in seminario.

Il 25 settembre Tommaso si fece vivo con una lettera dicendo che sceglieva i Comboniani per lo spirito di carità che li animava e perché aveva un grande desiderio di portare la luce del Vangelo a chi non conosceva il Signore.

Il 26 settembre l’ex arciprete di Rivarolo Mantovano, Don Giovanni Toschi, scrisse a Verona: “Assicuro che il giovane Bini Tommaso, aspirante missionario, appartiene a buona famiglia cristiana. I genitori hanno fatto parte dell’Azione Cattolica. Il giovane di cui mi chiede fu sempre un caro fanciullo che servì con amore l’altare nel piccolo clero e poi entrò in seminario dove tenne buona condotta. Ebbe sempre il desiderio di farsi missionario. Ed ora, per attuare il suo disegno, si è dimesso dal seminario. Sono convinto che l’Istituto farà un buon acquisto…”.

Dopo un susseguirsi di lettere, P. Bano convinse Tommaso a recarsi dal suo padre spirituale per chiarire la cosa, dal rettore del seminario diocesano e dal vescovo per chiedere loro scusa del suo comportamento. Cose che l’ex seminarista fece con molta umiltà. Poi, scrivendo a P. Bano il 5 ottobre 1957, disse: “Capisco che ho agito di testa mia, sbagliando. Se vuole mettermi alla porta anche lei, faccia pure. Io mi rassegno a tutto ciò che mi può capitare e l’accetto come un dono di Dio. Se gli uomini non mi comprendono, sono sicuro che Dio mi capisce e perdona…”.

P. Bano, sostenuto da P. Farè, tanto disse e tanto fece, finché ottenne dal rettore e dal vescovo un risicato lasciapassare per quel seminarista un po’ sventato. Infatti, in data 31 ottobre, il rettore scrisse: “Mons. Vescovo mi ha incaricato di farle sapere che non oppone difficoltà a che il Bini Tommaso sia ammesso nel suo Istituto. Doverosi ossequi. Dev.mo Can. Giacomo Grazioli”.

Anche i genitori diedero il loro consenso scritto e Tommaso poté finalmente entrare nel noviziato di Gozzano. Era il 14 novembre 1957. Fece la vestizione il giorno di Natale e durante il secondo anno di noviziato completò il liceo.

Qui ho trovato la mia pace

“Qui ho trovato la mia pace”, scrisse ai genitori e ai fratelli che erano rimasti in angustie nel saperlo così lontano. Il padre maestro si rese subito conto che il nuovo venuto aveva inclinazioni contemplative. Pur gioioso, arguto e scherzoso, ritrovava pienamente se stesso quando era in chiesa. Amava la preghiera, sostava volentieri davanti al tabernacolo e alla statua della Madonna. Chiese che gli fosse assegnato il compito di sagrestano. Teneva in ordine la cappella e curava con particolare delicatezza i fiori che adornavano l’altare.

“Ha lavorato con buona volontà – scrisse il suo padre maestro, P. Pietro Rossi – ottenendo buoni risultati. È animato da retta intenzione per cui ho fiducia che possa completare bene la sua formazione e fare del bene, grazie anche al suo carattere tenace e deciso”.

Emessi i primi voti il 9 settembre 1959, passò a Venegono Superiore per i primi due anni di teologia. Per i secondi due andò a Verona e frequentò il seminario diocesano.

Apostolo dei poveri

P. Tommaso venne ordinato sacerdote il 30 marzo 1963 a Verona. Dopo un breve servizio in Italia, partì per la missione del Nod-Est del Brasile e praticamente rimase legato al Brasile fino al 2000, con periodi alterni di presenza in Italia. In una sua lettera del 1980 elenca i cambiamenti di missione: “Appena ordinato sacerdote mi hanno detto: ‘Vai a Crema’ e vi sono andato. Manifestato il desiderio di partire per la missione, mi hanno mandato nel Maranhão e sono partito volentieri. Faccio notare che volevo farmi Saveriano appena uscito dal seminario di Cremona, ma avevo paura di non essere mandato in Africa, così ho scelto i Comboniani che sono i missionari d’Africa. Sono stato in Balsas un anno e mezzo, poi mi mandarono a Loreto, poi a Nova Yorque, a Mirador, a Sucupira, a Riachão, a Mangabeiras e in fine a Patos. Tanti cambiamenti in pochi anni mi hanno un po’ sconvolto psicologicamente. Tuttavia sono contento di aver sempre obbedito e di essere andato dove c’era bisogno. Ho sempre ospitato con la massima carità i confratelli di passaggio e ho cercato di condividere il più possibile la povertà della gente. Ho anche rischiato di prendermi qualche pallottola in testa quando difendevo i poveri contro i soprusi e le ingiustizie dei ricchi…”.

Nel 1968 fu destinato a Rio Grande do Sul in una zona più ricca e abitata da discendenti di contadini veneti. C’erano molte industrie e il suo cruccio fu l’inquinamento. Si adoperò anche in questo settore per tentare di salvaguardare la salute della sua gente. “Mi sento una formica contro un elefante – scrisse – ciò non toglie che si possa fare qualcosa. Tutte le cose cominciano dal piccolo”.

Trasferito in Italia nel 1974, lavorò a Pesaro e a Napoli (1974-1977). Dal 1977 al 1979 fu nuovamente nel Brasile Nord Est.

Noi sappiamo che P. Tommaso dovette fare così tanti cambiamenti per la troppa chiarezza con cui nelle prediche denunciava il comportamento dei possidenti che sfruttavano i poveri contadini. Insistendo oltre, l’Istituto Comboniano avrebbe avuto un martire in più. Dobbiamo anche dire che la sua vita in Brasile fu segnata dalle incomprensioni di coloro che non condividevano il suo metodo pastorale. Con questo, non vogliamo dire che avesse ragione lui e torto gli altri. Diciamo solo che la vita comunitaria è come un torrente le cui acque fanno rotolare i sassi costringendoli a levigarsi l’uno con l’altro. P. Tommaso, poi, con il suo carattere tenace e deciso, come aveva detto il suo padre maestro, aveva dei metodi che spesso non collimavano con quelli della comunità. Ne derivavano incomprensioni e attriti.

A servizio delle diocesi

Nel 1979 P. Tommaso era in Italia e venne mandato ad Arco dove c’erano alcuni confratelli ammalati che avevano bisogno di aiuto. In una sua lettera dal Brasile aveva scritto: “Se vengo in Italia, sono disposto a recarmi dove ci sono dei confratelli ammalati che hanno bisogno di aiuto e di assistenza”. Ad Arco fu superiore.

Dopo un anno passò a Roma per il Corso di Rinnovamento. Intanto la nostalgia della missione si fece sentire e chiese di poter tornare in Brasile. Gli scrissero che il vero motivo del suo allontanamento da quella missione era stato “la preoccupazione per la sicurezza della tua vita”.

Nel 1981 il Superiore Generale gli scrisse: “Caro P. Bini, ricordo il travaglio e le difficoltà che tu hai dovuto sopportare in Brasile… Ti ringrazio del bene che hai fatto finora, sia prima in Brasile, sia ora ad Arco e ti auguro che questo bene ti meriti la giusta pace del cuore”.

In Brasile P. Tommaso non aveva esitato a scontrarsi con i latifondisti. Sostenuto dai fratelli e dai benefattori, aveva avviato piccole cooperative sociali e acquistato del bestiame per piccole aziende. Voleva che i contadini bastassero a se stessi e potessero vivere dignitosamente, anche se in un ambiente povero. In questo modo cercava di realizzare la sua piccola riforma agraria.

Il contatto con tanta povertà lo aveva modificato interiormente per cui era nemico acerrimo degli sprechi e dei lussi. Un giorno, per esempio, vedendo che una signora si era presentata a lui con troppi anelli preziosi alle dita, le impose di toglierli. “Ne basta uno, il resto sono schiaffi in faccia ai poveri”, disse con tono che non ammetteva repliche. Quella si allontanò e non si fece più vedere.

Di fronte al rifiuto dei confratelli di accoglierlo nelle loro missioni, scrisse all’arcivescovo di São Luis, Mons. Giovanni Motta, dicendosi disponibile ad andare in un posto lontano “fuori tiro dal mirino dei pistoleros”. La sua richiesta fu accettata, così andò a Humberto do Campo e a Primeira Cruz dove c’erano 42.000 cristiani, o meglio battezzati, 53 cappelle disseminate su un territorio di 4.000 Km². Da due anni non vedevano un prete, anche perché il posto poteva essere raggiunto solo con la navigazione.

Pagò questo suo servizio staccandosi momentaneamente dai Comboniani, in modo che nessuno potesse sentirsi compromesso dalla sua presenza e dalle sue prediche “profetiche”. Rimase fuori comunità dal 1982 al 1988, passando anche alla diocesi di Caxias do Maranhão, facendo tanto bene tra i poveri.

Accanto alla sua stanza allestì una specie di cappella dove teneva il Santissimo esposto giorno e notte. Appena aveva un momento libero, era là in contemplazione. Così, quando celebrava la liturgia amava indossare i paramenti più belli che aveva. Voleva che ogni cosa risultasse solenne, magari imponente. Qualche confratello lo accusò di aver speso troppo in oggetti di lusso per un ambiente così povero. Egli rispondeva che per il Signore non è mai troppo dal momento che, per l’istituzione dell’Eucaristia, Gesù aveva voluto la sala ben addobbata e, prima di far accostare gli apostoli alla mensa, aveva loro lavato i piedi. Ciò non solo per insegnare il precetto della carità e del servizio vicendevole, ma anche per insegnarci che bisogna accostarsi all’altare puliti, in ordine e con i vestiti migliori.

Verso il monte di Dio

Un uomo così, non poteva che aspirare a qualcosa di più perfetto. Ed è proprio per questo che si spiegano i due tentativi di dedicarsi alla vita monastica presso i Benedettini Olivetani. Infatti, rientrato in Italia e inseritosi nell’Istituto, frequentò a Roma il Corso di Rinnovamento che durò alcuni mesi del 1989. Quindi, fu inviato a Messina come superiore locale e animatore missionario (1989-1993).

Intanto i disturbi alla salute si accentuarono. Egli pensava di prepararsi alla fine dei suoi giorni nel raccoglimento e nella preghiera e nel 1994 entrò tra i Benedettini Olivetani di Lendinara, Rovigo. Vi rimase due anni, dal 1994 al 1996. Il diabete che già si portava addosso costituì un impedimento a continuare. Allora tentò in un clima più salubre, presso i Benedettini Olivetani di San Miniato al Monte, Firenze, con la speranza di poter andare, dopo i voti, in un monastero benedettino della diocesi di San Paolo in Brasile, ma l’esito fu identico. Il diabete che si portava addosso gli impedì di perseverare. Lasciando quella comunità, aveva portato con sé la cocolla dei monaci che ogni tanto indossava e anche il suo camice preferito era quello col cappuccio. Lo indossava durante la processione del Corpus Domini o in altre circostanze particolari.

Durante l’esperienza benedettina, scrisse: “È vero che San Giovanni della Croce parla che è attraverso la comunità che viene levigata l’anima perché diventi un diamante purissimo, e un confratello è come una lima, un altro il martello, un altro l’incudine o la sega o le forbici. Ma io non concordo, perché troppo ho meditato secondo le nostre Regole di Vita che la comunità deve testimoniare la Famiglia Trinitaria”.

Dopo alcuni mesi trascorsi a Gordola in Svizzera nella casa che i Comboniani possedevano per accogliere gli anziani, chiese di tornare ancora in Brasile. Andò nella diocesi di Coroatà nel Maranhão alle dipendenze del vescovo, Mons. Reinaldo Punder. “Si tratta di un villaggio di 7 mila abitanti fatto per lo più di capanne di paglia e fango. La parrocchia conta 20 mila abitanti raggruppati in 52 villaggi. Se il Signore mi darà salute spero di trascorrere qui alcuni anni”, scrisse il 6 febbraio 1997.

Facendo delle considerazioni sulla teologia che si praticava in Brasile, scrisse: “Volendo liberare l’uomo dalle strutture di morte, si opera nel campo materiale e non si risponde alle esigenze più profonde dello spirito umano, chiudendolo al soprannaturale. A volte si offre al povero dell’America Latina il pane terreno, ma non offriamo sufficientemente il vero Pane di vita… Dio non è in cielo, ma nel fratello sofferente. Ad una teologia incarnata, più che i dolori della crocifissione di Cristo, interessano la passione del povero nel quale ora soffre Cristo”.

Definitivamente in Italia

In data 1° gennaio 2000 rientrò in Italia e nell’Istituto Comboniano. Andò prima nella comunità di Cordenons e, dalla fine di settembre del 2001, alla comunità di Casa Madre a Verona come addetto al ministero. Tuttavia, coltivava la speranza di poter tornare in Brasile dove aveva lasciato il suo cuore.

“Vi era venuto con semplicità ed entusiasmo – ha detto P. Primo Silvestri durante l’omelia funebre – ed egli ha percepito di essere stato accolto con gioia e ciò gli ha facilitato l’inserimento, non solo in comunità, ma anche nella Chiesa veronese, anche se è stato per un periodo di solo due mesi. Abbiamo goduto delle sue entusiastiche riflessioni particolarmente nel triduo di preparazione alla festa liturgica del Fondatore, il 10 ottobre scorso.

Si è mostrato subito disponibile al ministero, sia della predicazione (scriveva sempre le sue prediche), sia al ministero delle confessioni; anzi egli stesso aveva chiesto di mandarlo il più possibile nelle parrocchie dove c’era bisogno di ministero. La morte lo ha colto proprio nell’esercizio del ministero della misericordia divina. Aveva già accettato la predicazione di altre Quarantore per l’anno prossimo in altre parrocchie. Ci siamo resi conto del suo grande bisogno di spiritualità e di approfondimento del suo essere cristiano, sacerdote, missionario, Comboniano”.

Era uomo di grande e intensa preghiera. Nella sua ultima Messa celebrata presso le Suore Comboniane di Santa Maria in Organo, alla fine della “sua” settimana di servizio, volle dare la pace a tutte le suore presenti stringendo loro la mano ad una ad una. Nessuno poteva immaginare che quello sarebbe stato il suo ultimo saluto. In una paginetta che aveva appena scritto, aveva citato queste parole di Sant’Agostino: “Ecco, io sto per deporre questo libro e voi per tornarvene a casa. Ci siamo trovati assai bene sotto questa luce comune, questa fede che ci illumina, questa Parola che si è fatta carne. Ci siamo trovati assai bene abbiamo davvero gioito e abbiamo davvero esultato, ma, mentre ci separiamo gli uni dagli altri, badiamo bene a non allontanarci da Lui”.

La sua predicazione, fondata sulla Parola di Dio, era molto apprezzata, anche se faceva uso di frasi ridondanti e aggettivi superlativi. Sembrava che quando parlava di Dio, della Madonna, dei santi, non trovasse espressioni adeguate per esprimere ciò che sentiva dentro. Come dice San Pietro in una sua lettera, anche P. Tommaso “non andava dietro a favole, ma testimoniava ciò che i discepoli avevano visto e udito dal Figlio prediletto del Padre”. Anche per lui la Parola di Dio era “lampada che brillava nell’oscurità e nei momenti difficili della vita”. Un confratello, durante il rito funebre, ha detto che P. Tommaso mise in pratica ciò che suggeriva San Paolo al suo discepolo: “Insisti a tempo opportuno e importuno”. Qualche volta, quando era preso dal fervore, la predica poteva protrarsi fino a raggiungere un’ora. Quando qualcuno gli ha fatto osservare che avrebbe potuto dire le cose con un po’ di prudenza e garbo, si difendeva dicendo: “Prima la verità, fondata sulla sana dottrina”.

Il suo bisogno di spiritualità si accentuò negli ultimi anni della vita. Lo si vedeva con il rosario in mano che passeggiava lungo il corridoio del terzo piano, dove aveva la stanza. Ma non aveva rispetto umano a tirar fuori la sua corona mentre passeggiava lungo la banchina della stazione in attesa del treno e anche sul treno.

Al funerale c’erano rappresentanze dei paesi dove era stato per ministero recentemente. Dalle preghiere dei fedeli che vennero recitate, si poteva notare l’ammirazione che aveva suscitato in paese e l’impatto che aveva esercitato nelle anime. Il parroco di Trevenzuolo ha detto che, fin da mercoledì sera, durante l’apertura delle Quarantore, P. Tommaso aveva saputo coinvolgere la gente. Aveva l’entusiasmo della parola e ad un certo punto esplodeva, tanto è vero che, alla fine della messa, alcuni erano andati a ringraziarlo e a congratularsi per il suo modo vivace e persuasivo di esporre la verità. Sabato sera la sua predica fu un’esplosione che ha fatto rivivere in tutti il momento della “gloriosa, meravigliosa e trionfante risurrezione di Cristo”.

Il ricordo che ha lasciato e che mi ha colpito è il suo modo di vivere la giornata. È scritta in un foglietto che ho trovato nel breviario. Lo leggo: “Entro nella notte come in un santuario in cui Dio mi visiterà. È il momento di ringraziarlo della giornata, ricordare i benefici che mi ha fatto; devo trovare nella giornata ragioni per ringraziare Dio, chiedere discernimento e luce. Ho vissuto qualcosa che tu, Signore, non hai potuto vivere in me? Qui segue l’esame propriamente detto, quali le ansie e le paure che si sono scatenate in me? Ho coltivato sentimenti di odio al peccato e mi sono lasciato amare? Dove sovrabbondò l’errore, sovrabbonderà la grazia. In fine, risoluzione e propositi: la mia vita deve consistere nel consolare gli altri nella misura in cui sono stato consolato da Te”.

Non una morte, ma un transito

Al termine della Messa vespertina della vigilia di Cristo Re, erano rimasti in chiesa due giovani che desideravano confessarsi. P. Tommaso, si tolse la casula e con il camice e la stola, andò al confessionale. Riconciliò il primo e, quando entrò il secondo, vide P. Tommaso con la testa ripiegata, gli occhi aperti e il sorriso sulle labbra. Ma aveva una strana immobilità. Solo allora si rese conto che era successo qualcosa di inconsueto. Uscì di corsa e chiamò il primo giovane, Giuseppe Ferrarin, che stava pregando.

In quel momento entrò anche il parroco che era stato a celebrare in una parrocchia vicina. “Entrai nel confessionale - racconta - lo presi in braccio ed emise due leggeri respiri. Era morto. Con l’aiuto dei giovani e di qualche altra persona che era rimasta in chiesa, lo adagiammo sul pavimento mentre uno chiamava il pronto intervento che arrivò immediatamente. Cercarono di rianimarlo mentre si dirigevano a tutta velocità verso il vicino ospedale di Isola della Scala. I sanitari, prontamente accorsi, dopo qualche altro tentativo di rianimazione non poterono altro che constatarne la morte già avvenuta”.

Anche il giovane che si era appena confessato e che poi gli ha chiuso gli occhi, ha rilasciato la sua testimonianza: “Ho sempre avuto paura, anzi terrore della morte, ma da quando ho visto la morte di P. Tommaso, mi è passata. Ho capito che la morte deve essere un momento bello, addirittura di gioia. Quella di P. Tommaso non è stata una morte, ma un ‘felice transito’ come deve essere stata quella di San Giuseppe. Era bello, quasi luminoso, con un sorriso che pareva non di questa terra. E i suoi occhi! una luce, una luminosità come se prima di spegnersi per sempre avessero contemplato qualcosa di meraviglioso. Le dico la verità, indugiai a chiuderglieli, perché mi pareva di privare i presenti di qualcosa di bello, ma poi ho dovuto farlo”. “È vero – intervenne il parroco – anch’io sono rimasto ammirato dai suoi occhi, dal suo sguardo, proprio come se avessero già visto la bellezza di Dio e ne avessero attinto un raggio”.

Il funerale si è svolto in Casa Madre martedì 27 novembre con la cappella gremita di fedeli venuti non solo da Trevenzuolo, ma anche da altre parrocchie dove P. Tommaso si era recato per il ministero e aveva lasciato un segno. C’erano anche i suoi fratelli e altri parenti. Le testimonianze sono state numerose e commoventi.

Al rito funebre si sono rese presenti con i loro scritti le comunità del Brasile e dell’Italia dove P. Tommaso aveva operato, i superiori e i membri della comunità di Verona che aveva trovato in quel nuovo arrivato un confratello entusiasta, ottimista e capace di seminare serenità.

Dopo la Messa, che ha visto la presenza di tanti confratelli concelebranti, la salma è partita per il suo paese natale dove, nel pomeriggio, vi è stato un secondo funerale e l’inumazione nel locale cimitero.

P. Emilio Zanatta ha sottolineato, in P. Tommaso, la capacità di abbinare l’annuncio alla contemplazione. “Se è vero che ogni uomo è una Parola di Dio rivolta agli altri, possiamo dire che P. Tommaso lo fu in modo chiaro. P. Bini è stato uno che ha fatto vedere e gustare quanto sia buono il Signore a tante persone e ha fatto credere nel Figlio di Dio, perciò ha conquistato la vita eterna”.      P. Lorenzo Gaiga, mccj

Fr. Tommaso Bini: in the evening of 24 November the following message was sent out from Verona: “Fr. Tommaso Bini died of heart failure in the parish of Trevenzuolo, Isola della Scala, where he went for ministry. There was no time even to take him to the hospital”.

Fr. Tommaso was born on 8 March 1938 in Rivarolo Mantovano. After spending eight years in the diocesan seminary of Cremona, he joined the Comboni Missionaries. He made his novitiate in Gozzano and took his first vows on 9 September 1959. He studied theology in Venegono and Verona. Ordination followed on 30 March 1963.

Fr. Tommaso worked in Balsas, Brazil North East, from 1963 to 1974. Transferred to Italy, he worked in Pesaro and Naples (1974-1977). In 1977-79 he worked again in Brazil North East. From 1979 to 1982 he was back in Italy, first in Arco, then in Rome for a renewal course, and finally in Messina.

From 1982 to 1999 he spent most of his time outside the community and asked to be incardinated in the diocese of Caxias do Maranhão, Brasil North-East.

In 1994 Fr. Tommaso returned to Italy to join the Olivetan Benedictines of Lendinara (Rovigo). He was with them for two years, but he had to leave them on account of health: he had been suffering from diabetes for a long time. He tried again with the same Order at S. Miniato al Monte, Florence, where the climate was better, but with the same results.

In 1997 he went back to Brazil North-East, but from January 2000 he was permanently transferred to the Italian province, partly for his ill health. He was first at Cordenons and, for the last couple of months of his life, in Verona. He died at Trevenzuolo on 24 novembre 2001.

After one of his departures for Brazil he wrote: “I left in a hurry… I only had time to pack and say goodbye to my brothers, not my relatives… I suffered the winter cold of Switzerland and the damp heat of the Amazons… but thanks to God I survived. But our journey must always be marked by crosses”.

In 1981 the Superior General wrote to him: “Dear Fr. Bini, I remember the struggles and difficulties that you faced in Brazil… I thank you for the good you have done so far, first in Brazil and now in Arco and I wish that these good works will gain for you the merited peace of the heart”.

During the time of his experience with the Benedictines (August 1996) he penned some reflections on what a community should be: “It is true that St. John of the Cross says that it is through the community that the soul is smoothed over into a pure diamond, and one confrere is the file, the other is the hammer, the other is the anvil or the saw or the scissors. But I do not agree, because I have meditated even too much on our Rule of Life which says that the community must give witness to the Trinitarian Family”.

From some observations he made on theology, referring in particular to his field of activity in Brazil, he writes, “Wanting to free people from structures of death, we work in the material sphere and we do not answer the deeper yearnings of the human spirit, thus closing it to the supernatural. … At times we give earthly bread to the poor in Latin America, but we do not offer sufficiently the Bread of life… God is not in heaven, but in the suffering brother. An incarnated theology, rather than in the sufferings of the crucified Christ, takes interest in the passion of the poor in whom Christ now suffers”.

Da Mccj Bulletin n. 216 suppl. In Memoriam, ottobre 2002, pp. 1-12