La vocazione missionaria di Fr. Santo Bonzi è collegata a quella del cugino, P. Antonio Zuccali, quasi suo coetaneo, e anche alla visita in paese di un Missionario Comboniano che parlò ai giovani della vocazione dei Fratelli missionari. Il suo parroco, Don Domenico Carissoni, rettore di San Gallo, come venne a conoscenza del proposito del giovane, lo incoraggiò.
Nei giorni in cui Santo stava decidendo la sua partenza per il noviziato, papà Valerio tornò dalla Francia, dove si recava periodicamente per lavorare. Quando sentì che il figlio voleva farsi missionario, disse: “A dire la verità io ero tornato con il proposito di portarti via con me. In Francia c’è lavoro assicurato e si è anche pagati bene, purché si sia disposti a scendere sotto terra nelle miniere di carbone. Se, però, hai deciso diversamente, io sono contento e tornerò da solo”. In noviziato, a Venegono, Santo fu accolto da P. Antonio Todesco. Dopo qualche giorno, notando che il nuovo venuto, pur essendo generoso e sempre contento, era piuttosto impacciato, lo chiamò in stanza e gli disse: “Noi qui recitiamo le preghiere in latino. Tu conosci il Padre Nostro in latino?”. Santo rispose perplesso: “No, Padre, io recito le preghiere in bergamasco come me le ha insegnate la mia mamma”. “Benissimo, il Signore capisce anche il bergamasco però, se dobbiamo pregare insieme, devi imparare anche quelle in latino”. Dopo un attimo di silenzio il maestro disse: “Prova a farmi sentire il Padre nostro in bergamasco”. Santo, raccogliendosi e con le mani giunte cominciò: “Pater Noster qui es in caelis…”. “Ma guarda che questo è latino” lo interruppe il maestro. “Latino? Non sapevo che la mia mamma sapesse il latino”.
Santo si mise con impegno per acquisire le virtù di un futuro Missionario Comboniano. Aveva parecchi difettucci da correggere, soprattutto quell’incapacità a fare silenzio. Di silenzio, in noviziato ce n’era tanto, ma lui, quando incontrava un confratello, non poteva non rivolgergli un saluto, dirgli una parola.
“In un primo tempo – scrisse il padre maestro – dimostrò un po’ di superficialità, ma ora va sempre meglio progredendo e nella pietà e nel complesso dei suoi doveri. Mostra di amare molto il lavoro, il sacrificio, la sua vocazione ed è assai generoso nel compimento del suo lavoro. Con i superiori è assai sincero e obbediente. Sì, è ancora un po’ bambino, ma sta maturando molto bene”.
Campagnolo e cuoco
A proposito di lavoro, in noviziato, Santo, in un primo tempo, fu incaricato della campagna e della stalla. Si alzava prestissimo al mattino per pulire, dare il foraggio e mungere le mucche prima che i confratelli cominciassero la normale giornata comunitaria.
Quando suonava la campana per la preghiera, egli era inginocchiato al suo posto in chiesa, pronto ad unirsi al gruppo. In un secondo tempo imparò il mestiere del cuoco.
Il cambio da “campagnolo” ad aiutante cuoco è avvenuto per un fatto umoristico. Nel prato c’era il fieno pronto per essere raccolto e messo sul fienile, quando il cielo si coprì di nuvoloni neri che minacciavano un temporale. Fr. Santo, senza pensarci due volte, andò nella sala di studio dove i novizi studenti erano intenti alla lettura spirituale e disse ad alta voce: “Il padre maestro dice che veniate tutti con me a raccogliere il fieno prima che si bagni”. Gli studenti balzarono dalle sedie e via. In men che non si dica, il fieno era al sicuro nel fienile quando si scatenò l’uragano. Il maestro, vedendo tutto quel trambusto, chiese che cosa era successo: “Abbiamo eseguito il suo ordine”, rispose un novizio. “Quale ordine?” “Quello di andare con Fr. Santo a raccogliere il fieno”. “Ah sì, Fr. Santo!”. E appena lo vide gli diede una buona lavata di capo. “Mi creda, padre, non c’era cattiveria o desiderio di mancare alle regole, è stato solo l’amore alla congregazione e al lavoro che mi ha fatto sbagliare. Ma non lo farò più”. Lo disse con una faccia tale che il maestro dovette girarsi in fretta per non farsi vedere sorridere. Poi, sforzandosi di diventare serio, disse a quel novizio un po’ troppo intraprendente: “Da domani andrete in cucina come aiutante cuoco”.
Una spiritualità semplice e sostanziale
È interessante attingere dalle lettere che Fr. Santo scrisse in questo periodo per carpire qualche scintilla della sua spiritualità. Verso la fine del noviziato, in data 1° settembre 1946, così si espresse al Superiore Generale dell’Istituto: “Non può immaginare la gioia che provo pensando al giorno ormai vicino in cui potrò consacrarmi anima e corpo al servizio del Signore. Con sincerità le dico, Padre, che preferisco morire piuttosto che venire meno alla mia vocazione e ai miei doveri di religioso e di missionario. La Madonna santissima mi assista e mi abbia a mostrare sempre il suo cuore di madre…”. Scrivendo da Rebbio di Como nel giorno della Madonna del Carmine, 16 luglio 1947, disse: “Sento ogni giorno di più il desiderio di perseverare nella mia santa vocazione. Durante quest’anno non ho avuto dubbi o incertezze, anzi mi sono trovato contentissimo in tutto. È vero, qualche volta ho trovato dura l’obbedienza, ma mi pare di aver fatto di tutto per essere disponibile ai voleri dei superiori. Mi pare di essere nella disposizione d’animo di fare ovunque e sempre la volontà del Signore espressa dal volere dei superiori.
Se lei, carissimo padre, vedesse in me qualche difetto o manchevolezza, la prego di avvisarmi ed io procurerò con tutta la mia buona volontà di emendarmi in modo da rendermi sempre più degno di servire il Signore nella nostra diletta congregazione…”.
Da Pesaro, il 3 agosto 1948, scrisse: “Mi trovo molto contento della vita abbracciata e che ora conosco meglio. Con la grazia di Dio e con la mia buona volontà ho sempre superato le piccole difficoltà finora incontrate. Io desidero perseverare in questa santa vocazione per santificare me stesso e per essere strumento adatto nelle mani del Signore per fare del bene agli altri”. Santo aveva capito che non si deve diventare santi solo per se stessi, ma per gli altri, per portare le anime al Signore. Questo è proprio l’anelito missionario.
Fr. Santo Bonzi emise la professione religiosa il 7 ottobre 1946, festa della Madonna del Rosario e poi fu inviato come cuoco a Rebbio di Como. Vi rimase un anno, fino al 1947, quindi passò a Pesaro con lo stesso incarico.
“Fr. Santo – scrisse P. Emilio Ceccarini, superiore dei seminari comboniani d’Italia – è un bergamasco schietto anche se un po’ trascurato nel suo esteriore e nel trattare. Di grande cuore e sacrificio. Ama il lavoro e non si tira indietro di fronte ai sacrifici. Come religioso è fedele alla sostanza, ha la lingua piuttosto refrattaria al morso del silenzio. In missione farà molto bene come ha fatto a Rebbio e a Pesaro”. Nel 1950, terminato il suo servizio a Pesaro, i superiori gli dissero che c’era bisogno di lui a Venegono Superiore.
In Sudan meridionale
Nel settembre del 1953 arrivò l’ordine per Fr. Santo di salpare per l’Africa. S’imbarcò alla volta del Bahr el Ghazal, in Sudan Meridionale, insieme a P. Osvaldo Colussi.
Prima destinazione di Fr. Santo fu la missione di Rumbek. Vi rimase due anni come addetto ai lavori. Conclusi i lavori a Rumbek, Fr. Santo ricevette l’ordine di trasferirsi a Wau. Mons. Edoardo Mason aveva iniziato la costruzione della cattedrale di quel vicariato, occorreva aiuto per portare a termine i lavori. La cattedrale di Wau, con la sua cupola alta 36 metri, sarebbe risultata l’edificio più grande di tutto il Sudan.
La scuola di Fr. Mario Adani fu fondamentale per Fr. Bonzi. Quando, più tardi, egli stesso divenne costruttore di cattedrali, gli chiesero da chi avesse imparato quell’arte: “Guardando ciò che facevano quelli che erano più bravi di me”. Dobbiamo dire che l’incontro con Fr. Adani fu davvero provvidenziale per Fr. Santo. Nel 1958 troviamo Fr. Santo a Mayen, la missione in territorio denka fondata nel 1946. Trovandosi in una zona paludosa, era infestata da zanzare, mosche e tafani. L’apostolo di Mayen era P. Silvio dal Maso che concluderà i suoi giorni martire in Uganda nel 1979.
Fr. Santo fu incaricato delle costruzioni, ma nella zona era difficile trovare il legname e quindi, per procurarlo, bisognava andare piuttosto lontano. Con un gruppo di bravi operai, tornò al lavoro della sua infanzia: il boscaiolo.
Nel periodo della pioggia, poi, la zona si trasformava in una palude con l’acqua che spesso arrivava al cintola di chi voleva spostarsi. Dalla fine del 1959 al 1962 Fr. Santo fu richiesto nella missione di Warap, sempre nel territorio denka.
Fr. Santo si adoperò per la costruzione di alcune scuole. I ragazzi dei dintorni accorrevano sempre più numerosi attirati dalla “magia della carta”. Ma in quella zona ci fu anche la fame per cui, alle volte, Fr. Santo doveva sospendere i lavori, prendere il camion e andare a Thiet o in altre missioni in cerca di cibo. Era contento quando tornava con sacchi di durrah, sesamo e miglio.
Oltre alla carestia, specie in certi periodi dell’anno, e alle piogge che trasformavano la zona in palude, c’era anche la malaria cerebrale che in poche ore causava la morte. Anche Fr. Santo ne fu colpito e si temette seriamente per la sua vita. Fortunatamente si riprese e poté riprendere e portare a termine i lavori.
L’ultima missione che vide la presenza di Fr. Santo in Sudan fu quella di Tonji, iniziata nel 1953. Egli vi giunse nel 1962. Questa volta si incaricò dell’orto. Il clima politico si era già fatto preoccupante, i permessi per costruire non arrivavano più, e i missionari si limitavano a conservare ciò che esisteva. La cronaca del tempo diceva: “Per l’edilizia continua la stasi generale”. Ma anche la vita cristiana ne risentiva. “I ragazzi cristiani vengono a Messa nonostante la proibizione del maestro, e dopo il rosario cantano canzoncine (teniamo presente che le scuole di missione erano state nazionalizzate nel 1957). Questo fa arrabbiare il maestro e gli amici musulmani che mettono in prigione i cristiani e tentano di mettervi anche il catechista”.
Nel 1964, due anni dopo il suo arrivo a Tonji, anche Fr. Santo ricevette il benservito. Non solo veniva espulso da quella missione, ma dallo stesso Sudan insieme a tutti i missionari e le suore che si trovavano al Sud.
Costruttore in Spagna
Nel 1959 i Comboniani aprirono a Madrid e nel 1964 si sentì il bisogno di costruire il noviziato. Il posto scelto fu Moncada (Valencia).
Per la costruzione del noviziato, i superiori inviarono in Spagna un gruppo di Fratelli missionari, tutti espulsi dal Sudan. Tra essi c’erano: Luigi Paris, Ulisse Mendola, Pietro Dusi, Francesco Donelli, Giovanni Cattaneo, Giorgio Poletti, Luigi Coronini e Santo Bonzi. Dirigeva i lavori Fr. Giovanni Pedrinolli. I lavori proseguirono alacremente perché più di sessanta novizi attendevano di entrare nella nuova casa.
Il Missionario Comboniano spagnolo, P. Ramón Eguíluz Eguíluz, racconta l’inizio della sua vocazione, consolidatasi grazie all’esempio di Fr. Santo. Lo ascoltiamo: “Era il 10 agosto 1964. Io avevo deciso di entrare nel noviziato comboniano, ma ero ancora troppo giovane (sono nato nel 1947). I miei genitori avevano accettato la mia decisione, però non conoscendo l’Istituto di cui avevo loro parlato, mi proposero di visitare una loro casa. Così siamo andati a Madrid e poi a Moncada.
A Madrid ci accolsero molto bene, ma non abbiamo visto niente di speciale nel breve colloquio sostenuto sia col superiore provinciale che con l’incaricato delle vocazioni; lo stesso accadde a Moncada dove c’era il noviziato. Mio padre, che era un uomo abbastanza pratico, domandò se nelle vicinanze c’era un’altra comunità comboniana. Gli risposero che non troppo lontano di là, c’era un gruppo di Fratelli missionari che stavano preparando il posto per la costruzione del nuovo noviziato. Decidemmo di andarci per vedere il luogo dove sarei entrato e per incontrare i Comboniani che lavoravano.
Erano le sei del pomeriggio. Davanti alla porta della vecchia casa dove abitavano i Fratelli, ce n’era uno che stava lavandosi i vestiti che aveva usato nel lavoro. Ci accolse con molta cordialità e mio padre gli fece alcune domande sul suo lavoro e sulla missione. Mio padre domandava in spagnolo, l’altro rispondeva in italiano, ma ci capivamo molto bene. Nelle parole e nel comportamento di quel Fratello, c’era ‘qualcosa’ che ci diede un grande senso di pace e di fiducia. Mio padre concluse che l’Istituto dei Comboniani era molto serio. Per spiegare questo ‘qualcosa’ devo rifarmi alla sincerità delle sue parole, allo sguardo cristallino e sincero dei suoi occhi, all’entusiasmo che trasmetteva quando parlava della missione.
Seppi che Fr. Santo Bonzi, questo era il suo nome, era uno degli espulsi dal Sudan. Io cercavo un Istituto serio dove potessi realizzare la mia vocazione missionaria e potessi vivere il mio sacerdozio con generosità. Interessante! Chi mi ha convinto ad entrare tra i Comboniani non è stato un sacerdote, è stato un Fratello, Fr. Santo, colui che abbiamo trovato in quella proprietà a Moncada”.
In Congo
Rientrato a Verona, Fr. Santo trovò una gradita sorpresa. Il Superiore Generale gli andò incontro, lo salutò e gli disse: “Quando è morto P. Zuccali mi parve di averti sentito dire che saresti andato volentieri al suo posto in Congo”. “È vero, l’ho detto e sono ancora dello stesso parere”. “Va bene, Fr. Santo. Sei destinato al Congo e proprio alla missione di Rungu dove la terra è ancora bagnata dal sangue di P. Antonio”. Partì in gennaio del 1968 insieme a P. Lorenzo Farronato e P. Pietro Lombardo.
La prima opera di Fr. Santo a Rungu fu la costruzione della scuola del “cycle d’orientation” che portò a termine in un tempo record (da gennaio a dicembre del 1968). Restava ancora una scuola da costruire, ma l’avrebbe fatta dopo. Dal gennaio all’agosto del 1969 andò a Nangazizi per la costruzione della chiesa. Trovò dimora in una vecchia capanna, attorniato dai suoi attrezzi e da montagne di sacchi di cemento. Quando il Superiore Provinciale andò a trovarlo, Fr. Santo non c’era più: era a Ndedu dove aveva già posto le fondamenta di una nuova chiesa. “Ma Fr. Santo non è solo direttore dei lavori – scrisse P. Elio Piasentier - o un semplice cervello elettronico. Egli è anche il medico, il direttore spirituale, il consolatore di tutti. Nel suo magazzino-stanza i sacchi di cemento si confondono con le scatole di latte in polvere, i chiodi con le supposte, il fil di ferro con le corone…
Un breve accenno alla sua vita di comunità. Era semplicemente un piacere vivere insieme a Santo. Dal suo bagaglio di esperienze tirava fuori sempre cose nuove e antiche, e non di rado ci si trovava a pendere dalle sue labbra come i bambini da quelle della nonna.
Radicale era il suo concetto di povertà intesa come rinuncia ad ogni benessere e comodità. Delle tante belle case da lui costruite non fu mai beneficiario. Nel cibo era parco, castigatissimo nel bere, di tendenze piuttosto erbivore, non disdegnava una bella coscia di gatto arrostita o una tenera bistecca di vipera cornuta.
Esemplare anche la sua vita religiosa. Sulle vestigia degli antichi padri, la sua fede era solidissima. Riservava una devozione particolare alla Madonna che lo aveva protetto quando era ancora nel secolo. La sua maniera di pregare era un po’ tradizionale, ma non per questo meno profonda e autentica”.
Il sangue dei martiri
Nel 1973 alcuni Fratelli Comboniani ebbero il permesso dal governo del Sudan di rientrare nelle zone che erano state abbandonate nel 1964. Il permesso veniva concesso ai Fratelli (non ai sacerdoti) perché erano considerati dei tecnici. E di personale specializzato c’era grande necessità.
I superiori scrissero anche a Fr. Santo Bonzi chiedendogli se desiderasse tornare nelle sue vecchie missioni del Sudan.
“Io so che tu sei andato in Congo con grande entusiasmo per continuare lo zelo e l’opera di tuo cugino P. Zuccali, e che ora nel Congo ti trovi bene e realizzi la tua vocazione missionaria, ma ci sarebbe anche la possibilità, per te, di tornare in Sudan…”. Chi scriveva era P. Luigi Penzo.
In data 22 febbraio 1973 Fr. Santo rispose: “Dato che non si tratta di un comando e mi lascia libertà di scelta, il mio pensiero è questo: qui in Congo non mi trovo male e il lavoro è molto. E poi, caro padre, questa terra è stata bagnata dal sangue dei nostri missionari. Perciò sarei del parere di restare qui, sempre che l’obbedienza non disponga diversamente”.
Come si vede, era “il sangue dei confratelli”, in particolare di suo cugino P. Antonio, che esercitava sul cuore di Fr. Santo una forza tale da fargli mettere in secondo ordine il Sudan, che pure era stato il suo primo amore.
Alcune opere
In quanto alle opere di Fr. Santo ci sarebbe da scrivere molto. Chiese e cattedrali, scuole e ospedali, abitazioni e pozzi, con un vasto campionario di stili. Per le abitazioni, lo stile era improntato alla sobrietà, alla praticità, alla funzionalità e all’economia, mentre per le chiese i progetti erano sempre elaborati.
La disponibilità e l’adattabilità di Fr. Santo nel continuo spostarsi da una missione all’altra, nelle inevitabili tensioni nell’iniziare sempre nuovi cantieri, nel creare “corpo” tra operai vecchi e nuovi, sono doti non comuni.
Nel riassumere qui le principali costruzioni eseguite da questo umile e intraprendente Fratello, ci limiteremo a quelle del Congo, come ce le ha indicate P. Francesco Ceroni: la cattedrale di Dungu, diocesi di Bondo; le chiese di Sant’Anna, Bamokandi, Aba, Gombari, Nangazizi, Ndedu, Bambilo, Mungbere, Nepomeda, Mangbele, Digba, Nekondada; i seminari di Dungu, il filosofato e postulantado di Kisangani; i noviziati di Magambe, San Martino de Porres, Wamba; le missioni di Sant’Anna, Faradje, Nangazizi, Ndedu, Gombari, i conventi di suore di Sant’Anna, Gombari, Mungbari, Nangazizi, Ndedu; gli ospedali di Mungbere, Nangazizi, Duru; le scuole di Sant’Anna, Mungbere, Gombari, Nangazizi, Pawa, Rungu; aule per il catechismo a Nangazizi e a Dondi.
Questo elenco non comprende tante opere minori eseguite sempre in Congo né tutto il lavoro svolto in Sudan e in Spagna.
L’uomo di Dio
“Mi sono domandato tante volte – scrive P. Francesco Ceroni - da dove veniva l’amore alla missione in Fr. Santo. Mi pare che la risposta sia nella sua vita spirituale caratterizzata dalla semplicità, dalla fedeltà e dall’intensità nella preghiera. Erano, queste, le caratteristiche che nutrivano la sua consacrazione missionaria. Ricordo che, oltre al suo amore all’Eucaristia e la fedeltà alla confessione quindicinale, riempiva i tempi liberi con la recita di alcuni rosari. Santo conosceva le preghiere che gli aveva insegnato la sua mamma e che aveva imparato in noviziato. A quelle preghiere fu sempre fedele. Si alzava molto presto al mattino, incominciava la sua giornata di lavoro alle sei e mezzo. A Kisangani, le prime ore del giorno sono le più adatte al lavoro, perché dopo fa molto caldo, perciò lui ne approfittava, ma prima aveva fatto la meditazione e partecipato alla santa messa.
Nonostante i suoi lavori fossero urgenti, non l’ho mai visto aver fretta. Anzi, nella messa voleva che il celebrante tenesse una piccola spiegazione della Parola di Dio perché – diceva – ci avrebbe ‘pensato sopra’ durante il giorno.
Nella preghiera dei fedeli interveniva sempre con invocazioni concrete nelle quali metteva le necessità della missione e delle famiglie dei suoi operai. Era commovente sentirlo quando raccomandava al Signore le necessità dei suoi operai. Mi sembrava proprio Mosè che prega per il suo popolo.
Ho già detto che il rosario era una delle sue devozioni più care. Col rosario iniziava la giornata, poi ne ripeteva uno nel pomeriggio e, alla sera, dopo essersi lavato, lo si vedeva ancora con il rosario in mano. È difficile stabilire un suo orario per la preghiera del rosario perché lo recitava di continuo, durante tutta la sua giornata, ed era diventato per lui, così come per i religiosi orientali, la preghiera che accompagnava ogni respiro”.
Promozione umana
Fr. Santo, di promozione umana, non parlava mai, ma tutti sono concordi nel riconoscere che l’ha vissuta e praticata sempre. Alcuni dei suoi giovani hanno imparato così bene il mestiere che hanno potuto iniziare delle attività autonome. Anche quando lavoravano in proprio, Fr. Santo non li abbandonava mai, ma restava loro vicino con il consiglio e anche con l’aiuto se era necessario, in modo che “facessero sempre bella figura”.
In ogni missione si potevano trovare validi muratori e carpentieri preparati e formati da Fr. Santo. Sapeva riconoscere e valorizzare i talenti di ciascuno. E sapeva indicare ad ogni singolo la strada giusta per una buona riuscita. Era amato e stimato, e da lui i giovani sapevano accettare anche i rimproveri e i richiami.
Fr. Santo è stato eletto più volte consigliere provinciale e non è stato un caso. In Congo c’era un bel gruppo di Fratelli; ma quando si trattava di sceglierne uno per il Consiglio Provinciale, tutti pensavano a Santo: per la sua saggezza, per la sua capacità di fare fraternità e comunione e perché sapeva trasformare la vita comunitaria in un ottimo ambiente di famiglia.
Non era facile convincerlo ad accettare quell’incarico. Diceva di essere fatto per il lavoro, non per i discorsi e che, inoltre, non aveva tempo per lasciare il cantiere e trasferirsi a Dungu, dove normalmente si tenevano i consigli. Solo la forza dell’obbedienza riusciva a piegarlo. Pur non facendo parte del gruppo di formatori del postulato, gli incaricati di quell’ufficio ascoltavano i suoi suggerimenti e, in caso di dubbio, andavano da lui per chiarimenti su questo o quel postulante: non sbagliava nei suoi apprezzamenti.
Gli anni passati in Africa, il contatto con gli africani e le buone relazioni con la gente facevano di lui un perfetto conoscitore della mentalità dei postulanti e dei giovani africani.
Non solo muratore
Fr. Virginio Manzana scrive: “In Congo Fr. Bonzi ha compiuto miracoli. In qualunque situazione se la cavava sempre. Anche per questioni di cibo non aveva la minima pretesa. In fatto di povertà voleva per sé sempre l’ultimo posto. Anche quando era con me a Mungbere per allargare la chiesa volle per sé il magazzino pieno di topi per dormire. Ma anche quando era nella sua missione, quindi con la sua stanza come gli altri missionari, se arrivava un confratello di passaggio, cedeva la sua stanza all’ospite e andava nel magazzino o in sagrestia a dormire. Lavava la sua biancheria e non voleva che altri eseguisse questa operazione. Per questo alla domenica si alzava alle quattro del mattino in modo da fare il bucato, comprese le lenzuola, prima di andare alla Messa”.
“Se qualcuno pensa che Fr. Santo sia stata un bravo muratore, o un progettista e basta, si sbaglia di grosso – scrive P. Romano Segalini –. Fr. Bonzi è stato un costruttore di comunità, della comunità comboniana in cui viveva, prima di tutto. Capitava che i confratelli sacerdoti qualche volta tardassero a rincasare alla sera per impegni di ministero. Fr. Bonzi non mancava di richiamarli benevolmente al loro dovere di comunità: ‘Almeno alla sera è bene che i fratelli si trovino insieme a comunicarsi le loro esperienze, a ridere, a raccontarsi qualche barzelletta e a fare qualche partitina a carte’, diceva.
Il suo ‘fare comunità’ investiva anche la parte concreta. Qualche volta trovava una scusa per mandare a casa propria il cuoco in modo che lui potesse sostituirlo. E allora si poteva star sicuri che si facevano pranzi e cene veramente squisiti”.
“Quanto alla sua povertà – scrive Fr. Duilio Plazzotta - non ricordo di aver visto né radio, né macchina fotografica, né tanto meno macchina da scrivere (solo la domenica si prendeva del tempo per scrivere qualche lettera ai familiari o ai confratelli), né altre cose ritenute da lui superflue. Aveva solo tutto l’occorrente per le costruzioni, senza troppe esigenze anche in questo”.
Rientro in Italia
Dopo il rientro in Italia nel settembre del 1997 in seguito ad un grave incidente sul lavoro (un grosso tronco d’albero gli passò sopra ) e una guarigione che tutti ritennero miracolosa, Fr. Santo tornò nuovamente in Congo e continuò a lavorare.
L’ultima grande opera di Fr. Santo è stata la cattedrale di Bondo. Poi andò a Bambilo, sempre in diocesi di Bondo, per costruire la chiesa. Quella sarebbe stata proprio la sua ultima fatica perché il tumore al pancreas, già in stato avanzato, lo stava uccidendo.
Ormai Fr. Santo era avanti con gli anni: ne aveva 78, eppure lavorò fino a pochi giorni prima di morire. Trascinandosi a fatica, andava con i suoi operai, non per dare direttive dato che, ormai, non ne avevano bisogno, ma solo per stare con loro.
“Io l’ho conosciuto bene fin dal 1953 – scrive P. Francesco Rinaldi Ceroni – quando eravamo insieme a Wau, lui per la costruzione della grande cattedrale insieme a Fr. Adani ed altri, io come vicario di quella parrocchia. Dico sinceramente: sentirei un rimorso per il resto della mia vita, se non dessi anch’io la mia testimonianza su ciò che ho visto e toccato con mano a proposito della vita missionaria di Fr. Santo, missionario-Fratello e religioso, Figlio del Sacro Cuore.
Ciò che colpiva più di tutto colui che l’osservava, era il suo grande e intelligente amore al lavoro. Passò i primi anni di vita religiosa tra una pentola e l’altra e, durante il tempo libero, nell’orto per procurare ai confratelli ‘erba sempre fresca’, come diceva lui. Dal 1953 fino alla morte, tutta la sua vita fu dedicata alle costruzioni. Non solo costruì case, chiese, scuole e ospedali, ma anche fornaci per mattoni, strade, dighe, ponti. Per raggiungere le missioni con il camion, doveva aprirsi la strada nella foresta, un lavoro improbo, ma necessario.
Santo fu uomo di pace fra i suoi operai e i confratelli e anche con i sacerdoti locali e la gente che ricorreva a lui per consigli. E i suoi consigli erano seguiti perché nelle parole di Fr. Santo sentivano la Parola di Dio.
Anche con la sua morte Fr. Santo ha disturbato poca gente. Tutto si è concluso in due settimane. Pur essendo morto a Milano, la gente di Bambilo dove stava costruendo la chiesa, ha detto: “Santo è morto da noi” e ha fatto tutto come se realmente fosse morto lì. Terminati i tre giorni della matanga (lutto) e dopo aver fatto la cerimonia della sepoltura, il vescovo di Bondo ha celebrato la Messa nella chiesa che Santo aveva appena terminato. Anche a Bondo, Isiro, Dungu e in tutte le missioni dove Santo ha lavorato, sono state celebrate esequie solenni. I vescovi delle rispettive diocesi hanno mandato le loro condoglianze al Superiore Generale dei Comboniani.
“Fr. Santo – scrive Fr. Dusi – è stato un grande missionario, non per quello che ha fatto – che è tanto – ma soprattutto per quello che era, l’uomo per gli altri, sempre attento e preoccupato per le necessità altrui, uno che metteva se stesso all’ultimo posto per lasciare spazio ai confratelli. Io l’ho conosciuto in Sudan. L’ho visto passare da una missione all’altra, dove era richiesto il suo aiuto, con il sorriso sulle labbra, con la massima disponibilità nel cuore. I sacrifici e le privazioni non lo spaventavano, anzi sembrava che andasse a cercarli. Poi sono stato con lui in Spagna. La sua semplicità e il suo spirito di povertà andavano a braccetto con la competenza e l’instancabilità nel lavoro. Era certo di contribuire alla costruzione del Regno di Dio con il lavoro delle sue mani. Voleva costruirlo bene, ma anche in fretta.
Ricorderò sempre quando, col suo bel modo e con semplici parole, mi aiutò ad uscire da un momento di grande prova e sofferenza. Nessuno si era accorto del brutto momento che stavo attraversando; egli invece se ne era accorto perché era sempre attento agli altri come una mamma con i suoi figli. Non solo era capace di dire parole di incoraggiamento, ma pregava e offriva sacrifici per i confratelli in difficoltà. Sì, con la sua vita, Fr. Bonzi ha realizzato in pieno il suo nome di battesimo: Santo”.
Riposa a San Gallo
All’inizio del mese di maggio 2002, il superiore provinciale lo mandò in Italia nella speranza di rivederlo in missione presto e ben ristabilito. Anche questa volta tutti speravano in un particolare intervento della Madonna in favore del suo servo. La Madonna venne, ma, questa volta, per portarselo in cielo. E questo è stato l’ultimo miracolo, il più bello, di Fr. Santo Bonzi.
Dopo la sua morte, sono giunte ai Superiori dei Comboniani varie testimonianze scritte da sacerdoti congolesi e anche da missionari di altre congregazioni. Dopo le espressioni di ammirazione per Fr. Santo, chiedevano “l’immaginetta-ricordo di questo santo Fratello”.
Nella lettera di condoglianze scritta dai missionari del Congo alla famiglia Bonzi c’è la voce della gente delle parrocchie, delle autorità civili e religiose, dei sacerdoti e delle suore. Tutti avevano attinto alla bontà di Fr. Santo ed ora lo riconoscevano.
In Congo vi sono state celebrazioni con veglie, preghiere e canti e, al momento della benedizione, molte testimonianze. Hanno parlato i suoi operai, i fedeli, le suore, i sacerdoti congolesi, i confratelli e anche Mons. Madrapile, amministratore diocesano. Ventiquattro sacerdoti e 32 suore erano attorno all’altare.
Per l’occasione, dei giovani – Santo era anche il missionario dei giovani – hanno preparato un cartellone con la foto di Fr. Santo mentre lavorava, con questa frase: “Fratel Santo, la parrocchia di Sant’Anna non ti dimenticherà”. I missionari hanno preparato anche un foglietto-ricordo che è stato distribuito alla gente.
Fr. Santo si è spento nel centro per missionari ammalati “Giuseppe Ambrosoli” di Milano il 2 giugno 2002, verso le ore 11.00.
Dopo il funerale nella chiesa della Madonna di Fatima, tenuta dai Comboniani, la salma di Fr. Santo è stata traslata a San Gallo di San Giovanni Bianco. Il parroco ha detto: “La nostra parrocchia da oggi possiede un patrono in più. Invochiamolo. Non mancherà di farci sentire il suo aiuto”. P. Lorenzo Gaiga, mccj
Bro. Santo Bonzi was born in San Giovanni Bianco, Bergamo, on 10 November 1926. He joined the novitiate in Venegono in 1944 and took his first vows on 7 October 1946. Till 1953 he was busy in various communities in Italy as a brother ad omnia. From 1953 to 1964 he served in the missions of the Sudan where he learned to be a builder. After being expelled from the Sudan, together with all the confreres who were working there, he took part in building projects in Spain, particularly in Moncada. In 1967 Bro. Bonzi arrived in Congo where he began the activity that was only interrupted by his death. Because he was a builder, he had the opportunity to meet many young men and teach them his trade. Some of them learned well enough to start their own business. To them he was a real "brother" who knew how to listen, guide and give sound advice.
He built at Rungu (schools), Ndedu, Nangazizi, Isiro (St. Anne, Cathedral), Gombari, Mungbere, Dungu (Bamokandi), Dungu (Uye), our houses of formation in Kisangani and Magambe, the churches belonging to the White Fathers of Aba, Durba and Makoro, without forgetting Faradje, Bondo, Bambilo, his last places of work. To all these places he went in a spirit of obedience to his superiors and with his typical zeal. He would leave for work early in the morning, at about 4:30 or 5:00, with “his truck,” the workers and the needed equipment. Bro. Santo also knew how to bring life to the community and was often willing to perform extra services in order to promote Christianity. His activities were supported by regular and numerous prayers, especially in the mornings and in the evenings.
It is not surprising then that, when the news of his death spread, many people asked that he be remembered as one of their own and organised funeral services in the Congolese tradition. One of the most striking was the celebration held in Bambilo. The local Christians said that he had died “in their home” and proclaimed a three days mourning period which was concluded with the celebration of the Eucharist, for the first time, in the new church that Bro. Santo had just finished building.
We remember Bro. Santo for the intensity of his prayer life, fidelity to his vocation, serenity and wisdom.
Da Mccj Bulletin n. 216 suppl. In Memoriam, ottobre 2002, pp. 126-139
NB. Di Fr. Santo Bonzi è stata scritta una piccola biografia
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I MIRACOLI DI FRATEL SANTO
Il 2 giugno scorso si è spento a Milano fratel Santo Bonzi, un missionario bergamasco che ha trascorso la vita in Sudan meridionale e in Congo. Era nato a San Giovanni Bianco nel 1926. A 18 anniha lasciato il paese per lanciarsi nell’avventura missionaria. Chi è vissuto con lui ha la convinzione di essersi trovato fianco a fianco con un uomo di Dio, con un santo di nome e di fatto. Alcuni fatti della sua vita lo confermano.
Rungu è una missione di antica fondazione che si trova a Nord-Est del Congo. Il primo evangelizzatore di quella zona fu un missionario domenicano belga che era anche ingegnere. Egli, vedendo che la zona era ricca d’acqua e di legname, costruì una centrale idroelettrica con la quale, oltre al resto, fece funzionare una segheria.
Nel 1964 il Congo, e la zona attorno a Rungu, fu devastata dai Simba che causarono una folta schiera di martiri tra i missionari, le suore e gli stessi laici. Proprio in quell’anno la missione passò dai Domenicani, ormai pochi di numero, ai Comboniani e fr. Santo vi fu inviato come tecnico della segheria.
Un giorno si recò nella foresta per portare a casa alcuni grossi tronchi d’albero che erano stati precedentemente tagliati e scorzati. Quando stava per sistemare l’ultimo sul pesante rimorchio, per un improvviso cedimento del terreno, il tronco gli scivolò addosso colpendolo in pieno. Gli operai, presi dal panico, fuggirono e, solo dopo alcuni minuti tornarono pensando di trovare fr. Santo spaccato in due. Inspiegabilmente fr. Santo era incolume.
“Mentre il tronco mi veniva addosso, ho invocato la Madonna ed ella è venuta e lo ha sostenuto con le sue mani appoggiandolo su un ceppo di palma. Io ero sotto, ma illeso. Solo qualche graffio qua e là”.
A fr. Santo c’era da credere perché era un uomo che parlava con Dio faccia a faccia come Mosè. Iniziava la sua giornata sostando a lungo davanti al tabernacolo e la terminava davanti alla statua della Madonna. Nei momenti liberi tirava di tasca il rosario e pregava, tanto che gli africani dicevano: “Fr. Santo parla con Dio” e i più volonterosi si univano a lui nella preghiera.
Il superiore, per assicurarsi che quei “graffi” non fossero pericolosi, lo mandò in Italia e fu ricoverato all’ospedale di Negrar, Verona. I medici gli fecero una TAC e realmente trovarono che all’interno c’era qualcosa di rotto.
“Questo finirà su una sedia a rotelle se non interveniamo subito”, dissero i sanitari, ma il Fratello si oppose con tutte le sue forze dicendo che si sentiva guarito.
“Io sto bene – ripeteva – perché la Madonna è venuta e ha sostenuto l’albero con le sue mani. L’ho vista, sapete!”. Il medico, sentendo questo discorso, disse al tecnico della TAC di esaminargli anche la testa.
L’esito fu sorprendente: delle fratture precedentemente riscontrate, non c’era più neanche l’ombra, per cui fr. Santo lasciò l’ospedale e parti al più presto per la sua missione.
Qualche mese dopo arrivò all’ospedale una fotografia che ritraeva il Fratello sopra l’impalcatura di una chiesa. La didascalia diceva: “Questi è colui che, secondo la scienza, doveva finire su una sedia a rotelle”.
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In vista della loro festa (solennità dell’Immacolata), le suore chiesero a fratel Santo di dare una mano di calce alla povere stanze della loro abitazione. Egli si recò volentieri e, prima di passare con la pennellessa, volle chiudere le crepe che si erano formate nei muri e che erano ricettacolo di insetti e di serpentelli. Battendo sulla parete, sentì che all’interno c’era del vuoto. Volle andare più a fondo per vedere cosa si nascondeva all’interno della parete. Con stupore trovò una grande lancia ben affilata.
Solo a questo punto una suora anziana si ricordò di aver sentito raccontare da chi era arrivato prima di lei che, all’inizio della missione, il capo del villaggio, convertitosi al cristianesimo, aveva portato la sua lancia al missionario, come dono per il suo battesimo, con la promessa che non l’avrebbe mai più adoperata per uccidere chicchessia. Ma di quella lancia nessuno aveva mai più saputo niente. Il missionario, ovviamente, l’aveva murata nella casa che poi passò alle suore.
Fratel Santo raccontò il fatto ad alcuni giovani che scorazzavano qua e là con il mitra tra le braccia, sempre pronti a sparare, dicendo che, come il loro antenato, anche loro avrebbero dovuto murare le armi per dedicarsi ad opere di pace e di ricostruzione.
“Hai ragione, Fratello, - gli risposero – questa stupida e crudele guerra civile che distrugge noi e le nostre famiglie deve finire”. E consegnarono le armi al posto di polizia.
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L’ultima grande opera di fr. Santo fu la cattedrale di Bondo. Un uragano tropicale di eccezionale vigore, l’aveva ridotta a un cumulo di macerie. Il Vescovo, sconsolato, si rivolse a fratel Santo chiedendogli se fosse in grado di compiere uno dei suoi miracoli: ridargli la cattedrale.
“Il vento è stato forte, ma la nostra pazienza è più forte ancora, Eccellenza. Basta mettere una sasso sopra l’altro e un mattone accanto all’altro, e la cattedrale risorgerà”. Chiamò i suoi operai, ne aggiunse degli altri del posto, e cominciò… L’anno dopo poté consegnare al Vescovo la cattedrale bella, maestosa ed elegante, una delle migliori del Congo.
Ormai fr. Santo era su con gli anni, 78 ne aveva, eppure lavorò fino a pochi giorni prima di morire. Trascinandosi a fatica, andava con i suoi operai, non per dare direttive ché, ormai, non ne avevano bisogno, ma solo per stare con loro.
All’inizio del mese di maggio 2002 il superiore lo mandò in Italia nella speranza di rivederlo in missione presto e ben ristabilito. Anche questa volta venne la Madonna, ma per portarselo in cielo. E questo è stato l’ultimo miracolo, il più bello, di fr. Santo Bonzi. P. Lorenzo Gaiga