P. Antonio Colombo ha coronato una vita buona con un lungo periodo di sofferenza, quasi di martirio, vissuto su una sedia a rotelle, mentre il suo corpo andava via via disfacendosi. Eppure, ha saputo affrontare la situazione con un coraggio incredibile, ma è meglio dire con una fede da vero missionario, consapevole che le opere di Dio nascono, crescono e si sviluppano ai piedi della croce.
Secondogenito del carpentiere e magazziniere Giovanni, che lavorava a Milano in un’impresa edile, visse la sua infanzia tra casa, chiesa, scuola e oratorio. La mamma, Anna Castiglioni, era brava con la macchina da cucire, non solo per la propria famiglia, ma anche per le signore del vicinato. Entrambi i genitori erano cristiani convinti e assidui praticanti per cui instillarono nel cuore dei tre figli quei principi che li avrebbero aiutati a diventare buoni cristiani e cittadini esemplari.
Nel 1945, subito dopo la guerra, la famiglia si trasferì a Milano. Ma Antonio era già entrato a Crema affascinato dalla vocazione missionaria maturata nell’ambiente dell’oratorio. Lo strumento di Dio per la “chiamata” fu il coadiutore di Locate Varesino, Don Giuseppe Berra, un sacerdote dal cuore che palpitava per le missioni. Il parroco, nella lettera di accompagnamento, scrisse: “Aiuta sempre nell’oratorio feriale; è sempre presente e zelante, assiste quotidianamente alla messa, si comunica e si confessa regolarmente e non manca mai di fare una visita a Gesù nel pomeriggio. Lo vedo un ragazzo maturo e riflessivo, anche se non sempre ha iniziative sue. È obbediente ed umile, dà ottimo affidamento di riuscita”.
“Eravamo chierichetti – scrive il fratello Peppino – le visite dei missionari di Venegono Superiore in parrocchia erano frequenti, con accompagnamento di filmine e di racconti che ci incantavano. Dire: ‘Vengo anch’io’, sembrava la cosa più ovvia di questo mondo. In famiglia eravamo orgogliosi di avere un fratello che studiava per diventare missionario e lo dicevamo a tutti come la notizia più bella che riguardasse la famiglia. La nostra gioia era anche più grande perché vedevamo che Antonio andava avanti bene ed era sempre più contento della scelta che aveva fatto”.
Un giovinetto limpido e beneducato
Terminate le medie a Crema, il giovinetto passò a Brescia per il ginnasio poi andò a Firenze per il noviziato che terminò a Sunningdale, in Inghilterra. Non è che non abbia mai avuto dubbi sulla sua vocazione. Lo deduciamo da alcuni biglietti nei quali chiedeva colloqui con il superiore, sia di Crema che di Brescia, per “chiarire alcuni dubbi che mi vengono a proposito della mia vocazione e che non riesco a sciogliere da solo. Credo di averla la vocazione, però nei momenti in cui sono un po’ triste, mi viene voglia di tornare a casa mia… Qualche volta mi sento completamente deciso a seguire questa via, alle volte invece sono indeciso, quasi attratto dalle cose di questo mondo…”. Insomma, Antonio era un ragazzo che rifletteva e che voleva andare avanti ben motivato.
Il superiore di tutte le scuole apostoliche, P. Emilio Ceccarini scrisse di lui: “È un giovinetto ben sviluppato, gioviale, dignitoso e pieno di rispetto, dal fondo timido e impressionabile. Pur avendo qualche manifestazione fanciullesca, è forte in lui l’equilibrio e la rettitudine. Trattando con lui si ha l’impressione che non conosca o almeno non abbia ‘sofferto il male’ tanto si manifesta limpido e sereno. Come intelligenza è sufficiente e per applicazione ottimo”. P. Ceccarini lo conosceva bene perché, dopo l’eccidio di Socotà, in Etiopia, in cui era stato ucciso P. Alfredo Delai, era stato a Crema e, come altri missionari, aveva introdotto i piccoli seminaristi allo studio e alla preghiera per le missioni. A quel tempo, inoltre, c’era la lodevole usanza che ogni seminarista pregasse e facesse fioretti per un singolo missionario che si trovava in Africa e che tenesse con lui corrispondenza epistolare.
Nella domanda per l’ammissione al noviziato, Antonio dimostrò una maturità e una chiarezza d’intenti ben lontane dai frequenti ripensamenti – e in età molto più matura – che si sperimentano oggi: “Dopo aver frequentato i cinque corsi di ginnasio in questo Istituto, conosciuto lo spirito che deve animare chi vuole servire il Signore quale missionario dei Figli del Sacro Cuore, dopo essermi consultato col mio padre spirituale, indirizzato dai miei superiori, intendo e chiedo di essere ammesso al noviziato. Comprendo la mia indegnità di fronte a tanta grazia, tuttavia confido nella infinita misericordia del Signore e nella bontà della paternità vostra...(Solato 18 agosto 1950)”. Antonio aveva 17 anni.
Novizio impegnato
Antonio Colombo ebbe due padri maestri. Il primo, a Firenze, dove entrò il 26 settembre 1950, fu P. Giovanni Audisio; il secondo, in Inghilterra, P. Agostino Baroni. I giudizi di questi due formatori coincidono e sono positivi. “Mi sembra animato da buoni sentimenti. L’ufficio di bidello esige da lui parecchio sacrificio personale, che compie con molta disinvoltura. È attento all’osservanza delle regole; ben fermo nella sua vocazione e desideroso di corrispondervi fedelmente impegnandosi seriamente all’acquisto delle virtù. Va molto bene anche nei rapporti con i compagni” (Audisio).
“Pietà sentita, di mente aperta e di molta applicazione allo studio e al lavoro. Riflessivo, delicato nei modi, caritatevole, socievole, allegro” (Baroni).
Dopo i voti temporanei, che emise il 9 settembre 1952, continuò gli studi filosofici a Londra. I suoi formatori, P. Guido De Negri e P. Renato Bresciani, non fecero che sottolineare i giudizi già espressi in noviziato. Quanto a salute, P. De Negri nel 1954 scrisse: “Gli è stata trovata un’ulcera allo stomaco ed è stato curato all’ospedale con buon effetto. Ora è un po’ delicato e ha bisogno di qualche riguardo”. P. Pietro Ravasio, suo compagno, dice: “Ritornò dall’Inghilterra non solo con una perfetta conoscenza dell’inglese, ma anche con una raffinata educazione, una natura dolce, naturalmente portato alla comprensione e all’amicizia”.
Per la teologia Antonio frequentò le lezioni alla PIF, presso il seminario diocesano di Venegono Inferiore, conseguendo la Licenza in teologia e il Certificato in Scienze Psico-Pedagogiche.
Fu ordinato sacerdote nel duomo di Milano dal Card. Giovanni Battista Montini il 14 marzo 1959. Quindi partì nuovamente per l’Inghilterra. In un primo tempo fu a Stillington come promotore vocazionale (1959-60) e poi a Mirfield (1960-64) impegnato nello studio e nella formazione dei futuri missionari di quel seminario minore.
Missionario in Uganda e in Kenya
Nel 1964 arrivò il via per l’Africa con destinazione Uganda. Trascorse un paio d’anni ad Arua come addetto al ministero e occupato nello studio della lingua. Poi passò a Koboko come insegnante. Nella zona degli Alur animò un gruppo giovanile molto attivo e si distinse subito per la sua capacità di incidere sui giovani che seguiva con attenzione e affetto.
Fu proprio questo successo con loro che scatenò le ire del protestante Obote che vedeva in quel movimento giovanile una fucina di possibili oppositori al suo regime. Così, nel 1967, P. Antonio fu espulso dall’Uganda con una decina di altri confratelli.
Dopo un anno trascorso nel seminario missionario di Brescia e ad Asti (1967-1968), passò a Firenze e poi a Carraia come superiore e padre maestro dei novizi. Vi rimase due anni. I due anni più tribolati della sua vita, caratterizzati più dalla crisi di autorità nei superiori che dalla crisi giovanile. Scrive P. Pietro Ravasio: “Ricordo poi la bufera di Firenze con la contestazione del 68, il susseguirsi dei padri maestri che, uno più disperato dell’altro, dovevano abbandonare il terreno e battere in ritirata. Lui fu quasi travolto perché era colombo di nome e di fatto, in più, aperto e leale com’era, venne frainteso. In ogni modo questa esperienza traumatica gli servì per maturare”.
Dal 1970 al 1973 riparò nel seminario di Crema dove aveva studiato da ragazzo e dove gli parve di ritrovare la serenità e le motivazioni che lo avevano animato negli anni giovanili. Trovò che anche i ragazzi erano cambiati rispetto a quelli del suo tempo, ma era ormai allenato per capirli ed aiutarli.
Nel 1973 squillò per lui nuovamente il segnale che gli indicava la partenza per l’Africa. Questa volta andò in Kenya. Con P. Agostino Zanotto iniziò la nuova missione di Makindu dove lavorò anche P. Adriano Bonfanti. Fu un lavoro da pionieri non privo di avventure e di sorprese. In quegli anni la mamma, che aveva 70 anni (il papà era morto di infarto nel 1971) andò, da sola, a Makindu a dare man forte al figlio. Fu così contenta che vi ritornò per tre anni consecutivi, fermandosi più di un mese.
La cosa più importante che P. Antonio riuscì a fare fu quella di condividere la vita con la sua gente e tirare fuori il lato positivo da ogni situazione. Era ben voluto da tutti e il suo parlare arrivava dritto al cuore delle persone. “Ho avuto la gioia di vederlo anch’io sul suo campo di lavoro – scrive il fratello Peppino –, vi sono andato con mia moglie nel 1976. Abbiamo visto come si vive in Africa insieme alla povera gente, abbiamo gustato quanto sia gratificante parlare di Dio, padre di tutti, che conosce ogni situazione personale, a gente che crede davvero e che, pur nella povertà di mezzi umani, è sempre contenta e ricca di altri valori. Ricordo la bontà e la generosità di questa gente che non aveva niente e che nella preghiera chiedeva solo un po’ di pioggia. Che lezione per noi che abbiamo tutto e non siamo mai contenti lo stesso! Ricordo anche i momenti difficili per la salute di Antonio, eppure era sempre sereno, abbandonato in Dio che sentiva come padre”.
Superiore provinciale
Dopo Makindu, dove rimase fino al 1976, passò a Nairobi-Langata, come formatore nel seminario minore.
I confratelli notavano il suo equilibrio, la sua gentilezza, la sua costante serenità e le sue capacità per cui, quando si trattò di eleggere il superiore provinciale, puntarono su di lui. Egli assunse l’incarico con spirito di servizio e si ritirò nella casa provincializia di Nairobi, ma nello stesso tempo volle essere vice parroco in parrocchia. Nel 1978, mentre era superiore provinciale del Kenya ebbe una grave emorragia allo stomaco. Era la vecchia malattia che si risvegliava. Fu salvato dalle trasfusioni di sangue. Diceva che aveva sangue Masai nelle vene ed era contento di questo.
Parlando di questa sua esperienza scrisse nell’ottobre del 1979: “Alcuni dottori mi hanno detto chiaramente che la cura migliore è quella di cambiare mestiere. Altri mi hanno detto che anche se mi faccio operare, ma continuo nello stesso incarico, dopo breve tempo mi potrebbe tornare di nuovo, proprio perché è questione di tensione e di elementi psicologici. Ho già avuto esperienza di alcuni confratelli che non mi parlano più chiaramente e subito di tutti i problemi per la paura di farmi riaprire l’ulcera. Perciò è meglio che dia le dimissioni e che si pensi ad un altro regionale”. Tanto per adombrare appena i grossi problemi che lo angustiavano, basti citare una sola frase da una sua lettera: “Anche con la diocesi la situazione non è chiara, e non la risolviamo soltanto dando case, fabbricati e soldi. Mi pare che la vera Chiesa del presente e del futuro consista nell’essere insieme, uniti. Tra l’altro poi gli individui cambiano (sia loro che noi) ma i valori e la Chiesa no. A me dispiace se non riusciamo a capirci e se non siamo capaci di vivere e lavorare con gli africani”.
Il Consiglio Generale accettò le dimissioni “con rincrescimento perché sappiamo quanto bene tu hai fatto e fai in Kenya e perché sappiamo che questo atto, pur essendo compreso dai confratelli, procurerà loro un grande dispiacere” (P. Salvatore Calvia).
“Fu provinciale e capitolare – scrive P. Ravasio – molto amato e comprensivo. A lui si potrebbe applicare il linguaggio antropologico, cioè del modo di presentarsi, di sorridere, di conversare con calma, di gestire le situazioni più difficili… in modo naturale, come un dono che gli attirava la fiducia.
Il suo è stato un esercizio sereno dell’autorità, quella benedetta autorità che ha sempre rifuggita e accettata come obbedienza. Anche quando la malattia si era impadronita di lui, un confratello (Fr. Fulvio Lorenzini) disse: ‘Se P. Colombo si candida a provinciale verrà subito rieletto’. Ma non volle ricandidarsi preferendo il ruolo di soldato semplice. Pensando alla sua vita, ritorna alla mente la tesi in base alla quale ogni Comboniano ha il compito di attualizzare/realizzare un aspetto del piano di Comboni. P. Antonio ha saputo entrare nelle culture e nel cuore della gente: questa è la pre-disposizione per ogni azione apostolica valida”.
Dopo alcuni anni (1980-1984) come parroco a Makindu, la sua prima missione in Kenya, venne inviato a Leeds (1985-1988) in Inghilterra come animatore missionario e poi ad Ardrossan in Scozia (1988-1990) impegnato nella promozione vocazionale. Togliendolo dal Kenya, il Superiore Generale gli scrisse: “So tutto il bene che hai fatto per l’Istituto e per le missioni, conosco la tua disponibilità e tutto questo mi è garanzia che anche per il futuro tu continuerai ad essere utile alle missioni in qualsiasi posto sarai assegnato”.
Nel 1990 lo troviamo nuovamente in Kenya come parroco a Kariobangi; dal 1993 al 1993 passò alla scuola politecnica di Gilgil…
La lunga malattia
Nel 1993 era ritornato dal Kenya accusando disturbi alle gambe. Al “Besta” di Milano ipotizzarono la malattia del motoneurone con probabile sclerosi laterale amiotrofica che, normalmente, nel giro di tre anni porta alla morte.
Il motoneurone è una malattia che “rompe” i nervi dai muscoli, portando a paralisi e alla morte. Si prevedeva un decorso della malattia non molto lungo. Invece P. Antonio, con una forte volontà che gli proveniva da un’intensa vita spirituale e con grande coraggio (in questo aiutato molto dalla signora Maureen, una sua amica inglese che lo assistette fino alla morte) cominciò a lottare contro la malattia che tentò di curare in Inghilterra, nella clinica riabilitativa di Lanzo di Intelvi e al Galeazzi di Milano dove sperimentò la camera iperbarica.
“I medici hanno fiducia di tirarmi fuori, ma io non riesco a notare dei miglioramenti, anzi mi sembra di fare un po’ più fatica a camminare e a reggermi bene sulle gambe, però per intanto non voglio ancora arrendermi e quindi ce la metto tutta” (2.12.93).
Si ritirò a Venegono Superiore dove divenne socio del padre maestro. I novizi divennero la ragione della sua vita e della sua sofferenza. Amava celebrare con loro e condividere la Parola di Dio. Nella comunità era sempre presente con un timbro sereno e gioioso, preoccupato di tessere buoni rapporti umani. Non ha mai fatto pesare sugli altri la sua malattia. Aveva accettato la sua immobilità fisica, ma ha sempre aiutato tutti.
Quando la malattia lo ha inchiodato su una sedia a rotelle, la sua vita di comunione con i novizi era diventata ancor più intensa, un po’ perché aveva bisogno di loro per i vari servizi, ma soprattutto perché li amava e perché voleva comunicare loro i valori della vita missionaria.
“Per noi – scrive il fratello Peppino – è stato un grande esempio di bontà e di accettazione della volontà di Dio. Nel 2000 ci morì la mamma. Il mattino del 20 aprile, giovedì santo, con P. Antonio presente, abbiamo raccolto l’ultimo suo respiro. Anche in quel momento di dolore P. Antonio fu per noi familiari di grande aiuto. La sua fede cristallina ci illuminava, ci sosteneva. Sì, lui credeva davvero nelle realtà eterne, in ciò che ci attende dopo la morte. Ed era sereno.
Il 5 maggio aveva l’appuntamento a Limone sul Garda con quattro novizi che dovevano fare gli esercizi in vista della professione. P. Antonio teneva molto a quell’appuntamento. Il primo maggio ebbe un’indisposizione. Le analisi denunciarono una epatite virale che metteva in evidenza una cirrosi epatica, rimasta nascosta. Epatite e cirrosi se lo portarono via in pochi giorni.
Ora lo pensiamo nella pace insieme ai nostri cari, sicuri che ci aiuterà sempre… Antonio scriveva spesso alla mamma e in particolare condivideva la sua vita nel suo scorrere. Quando non riusciva più a scrivere, si faceva intendere col telefono… Andare adesso a Venegono e non trovarlo più nella sua stanza di fronte al Monte Rosa, lascia in me un grande vuoto. Ci sono di aiuto le sue parole che ci ripeteva spesso: ‘Vivi ogni momento pensando che Dio ti è a fianco’. Sì, non dimenticheremo mai queste sue parole e soprattutto la forte lezione che ci ha impartita con la sua vita, con la sua sofferenza, con il suo eloquente silenzio degli ultimi tempi. P. Antonio era importante, prima, per la nostra famiglia, ma lo è ancora di più adesso. Sentiamo la sua presenza, la sua intercessione, il suo aiuto. Grazie P. Antonio”.
“Alla fine P. Antonio era diventato un agnello afono – scrive P. Ravasio – che però ha parlato a tutti noi, spesso afflitti dall’affanno apostolico, come se tutto dipendesse dai nostri progetti, piste, programmazioni…”.
Ai confratelli di passaggio da Venegono ricordava che non potendo più camminare per il mondo, faceva come Mosè sul monte: alzava volentieri le mani per implorare da Dio la fecondità del lavoro dei confratelli. È spirato all’ospedale di Tradate all’alba del 23 maggio 2002.
Da questo confratello, oltre alla capacità di accettare serenamente la sofferenza e l’immobilità (cosa non da poco), dobbiamo imparare il primato che diede sempre al “vivere con la gente”, al “camminare col passo dei suoi cristiani”, al “saper progettare insieme”. Fu esempio di collaborazione anche con le suore e con i laici promuovendo e sviluppando i loro carismi. Soprattutto di lui gli africani ricordano la bontà per cui ancora oggi è ricordato come “un uomo di Dio”. Dopo i funerali a Venegono, la salma è stata inumata nel cimitero del suo paese. (P. Lorenzo Gaiga, mccj)
Fr. Antonio Colombo was born in Seprio, archdiocese of Milan, Italy, on 6 March 1933. He did his first year novitiate in Florence and the second year in Sunningdale, England, where he took his first vows in September 1952. He then continued his studies in Sunningdale and completed them in Venegono. He was ordained priest on 15 March 1959.
We quote from Fr. Benedetto Giupponi of the community of Venegono. “The arrangement was to meet in Limone on 5 May. We were scheduled to start the retreat with four novices who were about to make their first religious profession. Fr. Antonio was counting on keeping this appointment! During his last few years, here in Venegono, the novices had become part of his life. At first he was associate master of novices; then, when his illness had put him in a wheelchair, that relationship with the novices became, if possible, even deeper, partly because he needed their help, but above all because he loved them and wanted to share with them the values of missionary life, and wanted to support them in their spiritual journey. The love was mutual.
On 1 May Fr. Antonio had not felt well. Medical tests revealed a viral hepatitis which showed a cirrhosis of the liver that had up to then gone undetected. These two, plus the illness that had plagued him since 1993, proved fatal.
In 1993 Fr. Antonio had returned from Kenya with problems in his legs. After several tests, they had found a rare disease: the motor-neuron syndrome, an illness that breaks up the ligaments of his muscles, leading to paralysis and death. The prognosis was that he would not live long. Instead Fr. Antonio, with great serenity coming from the depth of his spiritual life and a lot of courage (helped all along by Ms. Maureen, an English friend), had been able to resume his life, first as formator, and then as a member of the community.
He loved to say Mass with the novices and to share the Word with them; within the community his was always a serene and joyous presence, busy in building good human relationships, and never burdening others with his illness and sufferings.
He often reminded us and the visiting confreres that he could no longer walk around the world, but, like Moses on the mountain, he was willingly to raise his arms to ask God that our work be fruitful.
From the very start of his missionary life Fr. Antonio had a great love for young people, first in England, in 1959-1964, where he taught and formed our seminarians, besides being active in vocation promotion; secondly in Uganda, where he applied himself totally to form a very active youth movement among the Alur. He was greatly appreciated by the teachers who ran the movement. Actually, his success did not please president Obote, a protestant. So in 1967 Fr. Antonio was expelled from Uganda together with nine of his confreres.
Fr. Antonio was in Italy from 1967 to 1973, assigned to formation. Those were difficult days. There was a cultural revolution taking place, which required formators who could be at one with the students and at the same time strong and open to new things. He was in Brescia and Asti, then in Florence and Carraia with the novices, and finally in Crema.
Then in 1973 the time came to leave for the missions in Kenya where he stayed until 1984. One of his traits was a sociable character that moved him to underline the primacy of “living with the people” and walk at their pace. He always wanted to journey together, to make plans together: he was very concerned with establishing cooperation with the Sisters and lay people, helping them to develop their gifts. It was during this time that the confreres, as a sign of their trust, elected him as their provincial.
He later was back in England, from 1985 to 1990, working in mission promotion.
Having returned to Kenya in 1991, God was waiting for him with the unexpected development of his illness. Just as Jacob, who fought with God and found himself with a twisted hip, so Fr. Antonio ended up in a wheelchair. His presence, though, was a blessing for many of us, probably because God had won. This is certainly the message he leaves us: if we want to be holy missionaries, we must have a strong relationship with God. Fr. Antonio showed us this much.”
Fr. Antonio died at dawn on 23 May 2002 in the hospital of Tradate, near Venegono.
Da Mccj Bulletin n. 216 suppl. In Memoriam, ottobre 2002, pp 105-114