La morte di P. Tolmino Taddei è stata annunciata da una e-mail di P. Enrico Galimberti con queste significative parole: “Buon giorno… natalizio di Comboni sulla terra e natalizio nel cielo per P. Tolmino Taddei. È spirato questa mattina verso le ore 5,30 a Teresópolis RJ, Brasile. Rimaniamo uniti nel giorno genetliaco del Beato Comboni e nel fraterno suffragio per P. Tolmino. San Giuseppe, patrono della buona morte, prega per noi”.
P. Tolmino, un uomo, un missionario che molti confratelli non avevano neanche mai visto e che quasi non sapevano esistesse, tanto era vissuto nel silenzio e nel nascondimento, se n’era andato quasi geloso del suo stile improntato alla massima riservatezza.
Se di lui non hanno mai parlato i giornali e le cronache, parlano i poveri per i quali si è consumato, parlano le sue opere tutte improntate alla dimenticanza di sé e al bene degli altri, di quelli che, agli occhi del mondo, non contano e dei quali nessuno parla.
Quando in Tolmino scattò l’impulso a farsi Missionario Comboniano, era alunno del seminario diocesano di Reggio Emilia e aveva appena concluso con voti brillanti il liceo. La sua vocazione era associata a quella di P. Silvio Caselli, che si fece pure Comboniano. Tolmino scrisse da Regnano, dove abitava la sua famiglia:
“Il sottoscritto Taddei Tolmino di fu Giovanni, della parrocchia di Regnano, diocesi di Reggio Emilia, attualmente alunno interno del seminario vescovile di Reggio Emilia, ammesso al corso teologico, dopo seria riflessione, udito il parere del padre spirituale, ha deciso di farsi missionario tra i Figli del Sacro Cuore. Fa, pertanto, istanza di essere accolto nella sua famiglia nella ferma speranza di corrispondere a grazia sì segnalata…”. Era il 15 luglio 1936.
In una lunga lettera scritta a P. Giocondo Bombieri, allora padre maestro a Venegono, il giovane seminarista parla della sua famiglia e della sua vocazione. Così sappiamo che già da 10 anni nutriva il desiderio, non solo di farsi sacerdote, ma anche missionario. Dopo le elementari al paese, entrò nel seminario diocesano di Marola, come esterno. In seminario arrivava Nigrizia e il Piccolo Missionario che gli risvegliarono la vocazione alle missioni. Frequentò il liceo nel seminario di Albinea. Qui, oltre alle riviste missionarie, incontrò missionari di passaggio e libri che parlavano di missioni. E il suo progetto missionario assunse contorni sempre più nitidi.
Ad un certo punto parlò di questa sua vocazione col rettore e col padre spirituale ed essi gli assicurarono che la sua era vera vocazione. Non mancarono le difficoltà. “La più grande sorse dal mio carattere piuttosto timido, poco rumoroso e lento a prendere una determinazione. Non sono troppo espansivo e sono estremamente meticoloso. Pensavo che con un carattere così non ero adatto alla vita missionaria così movimentata. Poi temevo anche per il mio scarso grado di pietà. Mi pareva di non riuscire a mantenere la continua unione con Dio come un missionario dovrebbe fare. Intanto vivevo il mio voto di castità privato, emesso con il permesso del padre spirituale, che rinnovavo ad ogni primo venerdì del mese”.
I superiori, con i quali si apriva, dissiparono i suoi dubbi, assicurandogli che niente gli impediva di essere un bravo missionario.
La famiglia di Tolmino era composta dalla mamma, Concetta Sacchini, e da tre fratelli: Afro, Ezio e lui, il più giovane.
“Mia mamma – scrisse - è una di quelle donnette di campagna semplici e credenti che sono invecchiate nel lavoro e nella preghiera. Il papà è morto nel 1917 durante la guerra in un ospedaletto da campo in seguito a ferite riportate alla testa. Per farmi studiare, la mia famiglia ha fatto dei debiti, ma nessuno si lamenta per questo. Ed io sono molto riconoscente ai miei fratelli che mi lasciano partire per le missioni, e così pure la mamma”.
In una seconda lettera, il rettore aggiunge: “Le sue ottime qualità (di Tolmino) davano molto a sperare di avere un buon sacerdote per la diocesi, ma la Provvidenza vuole diversamente. Fiat voluntas Dei. Ho, comunque, il piacere di dichiarare che il seminarista Taddei Tolmino è un giovane di ottimi costumi e di pietà edificante. Nell’anno scolastico 1935-36 ha frequentato la terza liceo nelle scuole del seminario e, nel luglio, ha felicemente superati gli esami ed è stato promosso alla teologia. Tanto per la verità. Can. Luigi Garimberti, Rettore. Seminario di Reggio Emilia 1 agosto 1936”.
La mamma, non essendo spedita nello scrivere, fece fare al figlio la lettera con la quale gli concedeva il suo consenso a partire e si limitò a firmarla. Il Rettore del seminario, scrivendo al superiore dei Comboniani, precisò: “Mi assicura, Tolmino, che la mamma dà il permesso di entrare in religione. Invitata a sottoscrivere la dichiarazione in merito, ha pregato il figlio di scrivere in sua vece scusandosi dicendo che poco sa scrivere e che ci vede poco, cosa che il figlio ha fatto. Questo le dico perché sappia tutte le cose come stanno, ché, venuto a conoscenza della cosa, non pensi a qualche sotterfugio che non c’è punto stato”.
Con queste lettere in tasca il nostro giovane partì per il noviziato di Venegono Superiore dove venne accolto dal nuovo padre maestro Antonio Todesco che sostituiva P. Giocondo Bombieri.
La mamma di Tolmino morì il 2 settembre 1936, all’età di 51 anni, pochi giorni dopo l’entrata del figlio in noviziato. Il giovane corse a casa, ma fece appena in tempo a vederla nella cappella del cimitero poiché era passata dalla salute alla morte nel giro di tre giorni.
Rientrato da casa con una ferita così profonda nel cuore, Tolmino s’impegnò con tutte le sue forze all’acquisto delle virtù proprie di un missionario.
“Progredisce con sempre maggiore serietà e persuasione. Trova qualche difficoltà riguardo l’obbedienza, mentre realizza parecchie vittorie a riguardo della carità. Molto intelligente, positivo e pratico, ma alquanto rude e alle volte troppo franco nel parlare e tenace nelle sue idee”.
Durante il secondo anno di noviziato frequentò la prima teologia recandosi a scuola nel seminario diocesano di Venegono Inferiore.
Sacerdote
Emise la prima professione il 7 ottobre 1938, poi passò a Verona per completare la teologia nel locale seminario diocesano. Venne ordinato sacerdote da Mons. Girolamo Cardinale, vescovo di Verona, il 29 giugno 1940. Intanto era scoppiata la guerra. P. Tolmino fu inviato nel seminario comboniano di Padova come addetto al ministero. Giornate missionarie, servizio nella parrocchie e anche un po’ di insegnamento ai seminaristi riempivano la sua giornata in attesa di poter partire per la missione. Questa possibilità, proprio a causa della guerra, si faceva sempre più difficile.
Dopo due anni di servizio a Padova, nel 1942 fu dirottato a Troia con lo stesso incarico, ma con un particolare riguardo ai fedeli che frequentavano la chiesa della Mediatrice. Erano gli anni in cui era ancora viva la memoria di P. Bernardo Sartori che aveva impresso nella popolazione un’impronta così significativa di Dio.
Dobbiamo dire che P. Tolmino si sforzò di mettersi in sintonia con il più illustre confratello che, dall’Africa, faceva arrivare le sue lettere traboccanti di spirito missionario e devozione alla Madonna. E vi riuscì. Infatti a Troia è ancora ricordato per la sua cordialità e la capacità di stare con la gente, particolarmente con i più poveri.
Nel 1947, su richiesta della Santa Sede, fu mandato in Kenya per assistere spiritualmente le centinaia di operai italiani, di varie professioni, che erano stati reclutati per lavorare in quel paese, aggregati in qualche modo alla British Army. Gli operai abitavano in 7 luoghi diversi disseminati in un raggio di 700 km. Tolmino visitava periodicamente tutti i gruppi, avendo residenza in una tenda nel gruppo maggiore.
Vi rimase tre anni, dal 1948 al 1951. La situazione di quegli uomini che lavoravano nelle grandi ditte in Kenya era piuttosto precaria in quanto mancavano assolutamente di assistenza religiosa. P. Tolmino divenne non solo il pastore di quel gregge disperso, ma anche l’amico, il fratello, il consolatore. Durante la guerra altri Comboniani - ricordiamo per tutti P. Giovanni Giordani - avevano esercitato l’ufficio di cappellano dei prigionieri ottenendo frutti di conversioni. Ora P. Tolmino rinnovava l’esperienza con gli operai.
Nel 1951 ritornò in Italia per due o tre settimane, quindi partì per l’Inghilterra - Yorkshire - per assistere gli emigrati italiani: specialmente gruppi di ragazze che lavoravano nelle industrie tessili o come domestiche e gruppi di uomini che lavoravano nelle miniere. Giovane e in buona salute, era in continuo movimento, spingendosi fino a Nottingham e a Lancester al Sud e a Lancashire, verso Ovest, avendo come base la casa comboniana di Stillington. “Si difende bene con l’inglese”, scrissero i superiori. Fu sempre molto grato ai parroci inglesi che lo aiutarono in quel periodo.
I superiori avevano visto che questo tipo di ministero gli si addiceva, perciò lo favorirono. I frutti, da un punto di vista delle amicizie e dell’evangelizzazione, furono grandi. P. Tolmino si prestava ad aiutare quegli operai anche per le pratiche da sbrigare e perfino scrivendo e leggendo le lettere di coloro che avevano qualche difficoltà nel tenere la penna in mano. Questo periodo fu molto utile a P. Tolmino anche perché gli diede la possibilità di apprendere alla perfezione l’inglese, la lingua che - pensava - gli sarebbe stata utile per la missione in Africa.
Il lungo apostolato in Brasile
Il 20 luglio 1960 giunse a P. Tolmino la nuova destinazione. Non l’Africa, ma il Brasile, nella regione dello Espírito Santo dove i Comboniani lavoravano, da una decina di anni, sotto la guida del fondatore della missione, P. Rino Carlesi.
Le tappe dell’attività missionaria di P. Tolmino in Brasile sono state le seguenti:
1961: San Matteo (episcopio), per lo studio della lingua.
1961 - 1963: João Neiva, come addetto al ministero.
1963 - 1964: San Paolo, come addetto al ministero.
1964 - 1967: San José do Rio Preto, in parrocchia.
1968 - 1970: Nova Venécia, in parrocchia
1970 - 1971: Ancora a San José do Rio Preto, come addetto al ministero in parrocchia.
1971 - 2002: Rio de Janeiro, come addetto al ministero. In realtà, proprio nel 1971 aveva ottenuto il permesso di andare a vivere a Teresópolis, un complesso abbastanza grande a 100 chilometri da Rio, dove funziona un centro di spiritualità. Ufficialmente, P. Tolmino era cappellano delle suore che animavano il centro. Doveva essere un’esperienza provvisoria, che però si protrasse per oltre 30 anni.
Il missionario delle favelas
Nella città di Teresópolis, P. Tolmino diventò una figura conosciutissima e quasi leggendaria per il suo amore ai poveri, tanto da essere chiamato “il missionario delle favelas”. Evangelizzazione e aiuto materiale ai poveri furono il binario su cui condusse la sua esistenza. La sua casa era diventata il luogo di convegno dei poveri e dei disperati che, negli ultimi tempi, non gli davano il tempo neppure di mangiare e di dormire. La sua porta era sempre aperta a tutti ed egli ascoltava ciascuno. I casi più imprevedibili finivano nel suo cuore ed egli non si dava pace finché non riusciva a risolverli.
Ciò lo portò a vivere povero con i poveri e per i poveri. Diceva: “Mi dedico soprattutto agli ultimi; vedo tante sofferenze: disoccupazione, malattie, alcoolismo... e lacrime. Vedo mamme eroiche - in vari casi abbandonate e sole - che si sacrificano per i figli. Aiuto tante famiglie, in tante, tante maniere”.
Molte volte l’hanno visto fare lavori da muratore e da falegname per aiutare qualche famiglia particolarmente bisognosa. A modo suo, senz’altro visse il carisma comboniano che vuole che ci dedichiamo soprattutto ai più poveri e abbandonati.
Come si vede, questo confratello non è mai stato superiore di comunità e neanche parroco. Ciò è dovuto soprattutto al suo carattere riservato, timido, mite e incapace di esporsi. In tanti anni, non ha mai disturbato i superiori con lettere o con scritti e, a quanto risulta dalla sua cartella, non ne ha neanche ricevuti. Le uniche due righe che ci restano e che ha scritto da sacerdote dicono: “Ero assai portato allo studio, ma tale attitudine non fu sfruttata al tempo utile”.
Il santo dei poveri
Scrive P. Giovanni Munari, suo superiore provinciale: “Diversamente da quanto si potrebbe immaginare, P. Tolmino fece tutt’altro che una vita tranquilla. Ovunque passò divenne una figura conosciutissima per il suo amore ai poveri. Nella favelas della città era la presenza più costante ed aspettata.
Dava assistenza religiosa e, nelle visite che faceva alle comunità, celebrava con la gente poi visitava tutte le case e ne conosceva tutte le persone. Condivideva le situazioni più drammatiche non limitandosi ad ascoltare ma coinvolgendosi personalmente. La sua casa diventò punto di riferimento per tantissime persone che lo cercavano fin dalle prime ore del giorno e, ultimamente, non gli davano il tempo neppure di mangiare.
Riceveva tutti, parlava con tutti, conosceva tutti. Erano bambini che andavano a salutarlo, adulti che andavano a ricevere qualcosa da mangiare, sacerdoti che andavano a confessarsi, gente rispettata della città che lo vedeva come un canale sicuro per poter vivere la fraternità e la solidarietà.
Fu trovato svenuto nella casetta dove viveva in povertà estrema, forse per mancanza di nutrimento. Fu ricoverato in ospedale. Quando l’ho visitato e gli ho espresso la necessità di cominciare a pensare un po’ di più alla sua salute e al suo futuro cominciò a parlarmi dei ‘casi’ che seguiva e che lo lasciavano visibilmente preoccupato: di una mamma che non sapeva come mantenere i cinque figli, dell’altra che era stata abbandonata dal marito; della ragazza madre che era dovuta scappare di casa; di quella che aveva il ‘compagno’ in prigione… Li sentiva come problemi che gli gravavano sulle spalle e che non riusciva più a scrollarsi di dosso. Era il suo mondo. Parlava solo di questo, viveva solo per questo.
Nella sua casa aveva un lettino in un angolo della cameretta. Non volle mai che gli cambiassero il letto e il materasso ormai consunti dal tempo. E non voleva che gli mettessero le cose a posto, perché riservava tutto lo spazio, al di fuori di qualche libro, per le cose che comprava e riceveva per i poveri: latte, riso, fagioli, olio, vestiti, qualche giocattolo per i bambini. Il suo lavoro era raccogliere e distribuire. Ogni tanto qualcuno gli faceva osservare che forse qualche persona che lui aiutava non aveva poi così bisogno come faceva sembrare. Diceva:
‘Lascia perdere; questi sono i più poveri’. In quella povera casetta lo colse l’ultima malattia all’età di 86 anni, dopo 41 di ministero in Brasile. Il decesso avvenne in ospedale.
Ai suoi funerali partecipò una grande folla.
‘La città intera è qua’, disse una delle suore che osservava quelli che facevano ressa per vederlo e toccarlo un’ultima volta. Il vescovo di Petrópolis, Dom José Carlos de Lima Vaz, ha voluto presiedere l’eucaristia. Attorno a lui c’era una ventina di sacerdoti della città, collaboratori e, soprattutto, centinaia di anonimi che facevano solo questo commento:
‘Tolmino è un santo’. Così se n’è andato nel giorno della nascita del Comboni, circondato dai poveri e ricordato come il santo dei poveri”. E sono stati i poveri che l’hanno accompagnato, commossi, nell’ultimo viaggio.
Testimonianze
Abbiamo raccolto alcune testimonianze di persone che, in qualche maniera, hanno avuto contatti con lui:
“Ho conosciuto P. Tolmino nel 1974, nell’occasione in cui ero andato a prenderlo in macchina nella casa dove viveva. Quando sono arrivato, era già uscito. Era partito a piedi. L’avevo incrociato per strada, ma non l’avevo riconosciuto. Vestiva in maniera così semplice che, più che un prete, sembrava un vecchio operaio. P. Tolmino è un santo che ho conosciuto nella mia vita” (Waldair Queiroz).
“P. Tolmino ci fa ricordare il brano: ‘venite, benedetti dal Padre mio, nel regno preparato per voi da tutta l’eternità. Perché avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere...’ Tolmino ha fatto tutto questo in vita” (P. Mario Coutinho).
“Era l’uomo della bontà, dell’amore, dell’umiltà e del servizio, specialmente verso i più poveri” (P. Nivaldo).
“Noi della comunità cattolica di Teresópolis siamo tristi e pieni di gioia allo stesso tempo. Tristi perché P. Tolmino è morto e ci ha lasciato, ma pieni di gioia perché da oggi abbiamo un santo in più in cielo” (Paulinho Nascimento).
Il suo corpo è stato sepolto nel cimitero di Teresópolis tra infinite altre tombe di poveri quasi a proclamare ai vivi che il missionario è l’uomo che condivide la vita e la sofferenza degli altri, e con essi è solidale anche nella morte. (P. Lorenzo Gaiga, mccj)
Fr. Tolmino Taddei was born in Viano, Reggio Emilia, in 1915. He attended secondary school in the diocesan seminary of Marola (Reggio Emilia). After that he entered the Comboni novitiate of Venegono Superiore and took his first vows on 7 October 1938. He then studied theology for one year in Venegono and for the remaining three years in Verona. He was ordained priest on 29 June 1940.
He spent the first 20 years of his priesthood between Padova (1940-1942), Troia (1942-1947), Kenya (1948-1951) and Stillington, England (1951-1960). He then was sent to Brazil where he remained for the next 41 years of his life. Fr. Tolmino died in Teresópolis, in the State of Rio de Janeiro, Brazil, on 15 March 2002 at the age of 86.
Writes Fr. Giovanni Munari: “He had lived in Brazil since 1961. After working in several parishes of the province (Conceição da Barra, João Neiva, Axingui, São José do Rio Preto and Nova Venécia), he obtained permission to take up residence in Teresópolis, a large institution that also includes a centre of spirituality. He soon became the official chaplain of the center. It was supposed to be a temporary arrangement. Fr. Tolmino stayed there for 30 years.
Notwithstanding what one might think, Fr. Tolmino’s life was all but quiet. He became a very well known personality in the city because of his love for the poor. In the “favelas”, his was a most sought after and respected presence. He would give religious assistance to the communities he visited by celebrating Mass with the people first and by immediately doing the rounds of the homes to get to know each and everyone. He shared in their traumatic situations, because not only did he listen, but he felt personally involved. His home became a point of reference for many people who would look for him from early morning and who, more recently, did not even give him time to eat. He would welcome everyone, and speak to everyone. He knew everybody. Children went by to greet him, adults went to ask for food, priests went to confession to him, respectable city dwellers saw in him a safe channel to practice solidarity and sharing.
During the last few weeks he had to be admitted to hospital. He had been found unconscious on the floor in the little house where he lived in absolute poverty. When I went to see him, I told him about the necessity of caring a little more about his health and his future, but he began to tell me of “situations” he was involved with and which visibly worried him: A mother who could not provide for her five children; another who had been abandoned by her husband; a single mother who had to run away from home; a woman with his “companion” in jail. He felt that all these problems had been placed on his shoulders and could not shake them off. It was his world. He spoke of nothing else and lived only for that.
At home he had a small cot in a corner of a little room. He did not want anyone to replace his bed or mattress by now long worn out. He did not allow anyone to put order in his room because he reserved all the available space for the things he bought or received: milk, rice, beans, oil, clothing, toys. His task was to give things out. As soon as he received something, he handed it out. Occasionally someone used to remark how some of the people he was helping were not really as needy as they pretended to be, but he would simply answer: “Let it be. These are the poorest.”
A large crowd came for his funeral. A religious sister, seeing the crowd pressing on to touch him one last time, said: “The whole town is here.” Dom José Carlos de Lima Vaz, bishop of Petrópolis, presided at the Eucharist surrounded by about 20 priests from the city, many helpers and, above all, hundreds of anonymous people who kept on saying: “Tolmino was a saint.”
And so he passed away on the day of Comboni’s birthday, surrounded by his poor and remembered as the “saint of the poor.”
Da Mccj Bulletin n. 216 suppl. In Memoriam, ottobre 2002, pp. 58-66