In Pace Christi

Buffoni Alberto

Buffoni Alberto
Data di nascita : 28/03/1923
Luogo di nascita : Valsecca (BG)/I
Voti temporanei : 07/10/1945
Voti perpetui : 24/09/1948
Data ordinazione : 11/06/1949
Data decesso : 13/04/2000
Luogo decesso : Milano/I

Se ne andato giovedì 13 aprile alle ore 5.30 del mattino, l’ora in cui era solito alzarsi per iniziare la sua giornata. Si trovava all’ospedale Niguarda di Milano dove era giunto da pochi giorni. Era rientrato d’urgenza dal Malawi in seguito a grave perdita di equilibrio, tanto che doveva muoversi aiutandosi con due bastoni e col sostegno di un confratello.

P. Alberto conosceva bene quell’ospedale perché, appena 40 giorni prima, aveva subito un’operazione e, ai primi di dicembre del 1999, era voluto tornare nella sua missione facendosi accompagnare dal fratello P. Giuseppe. Aveva in progetto l’apertura di una nuova missione nel Marambo e, per questo, si era anche portato il casco perché pensava di usare la motocicletta. Ma l’improvviso aggravarsi del male lo costrinse a un precipitoso ritorno. Il Padre stava male, ma tanto era l’ardore missionario, che insisteva di voler ritornare al più presto possibile.

Una lettera del suo P. provinciale scritta dal Malawi il 18 febbraio 2000 dice:

“Mi sono giunti da Milano i referti sulla tua salute e le considerazioni dei medici a proposito del tuo desiderio di tornare. Qui, però, siamo del parere che per te sia conveniente fermarti ancora in Italia dove puoi avere migliore assistenza medica e condurre un tipo di vita più confacente alla tua età e alla salute. So che queste mie parole non ti piaceranno, ma devi essere realista e capire che qui non potresti essere curato in modo adeguato alle tue necessità.

Conosco il tuo animo generoso ed entusiasta per la missione, e credo che devi ringraziare il Signore per tutti gli anni che hai trascorso in America latina e in Africa. Io credo che il Signore in questo momento della tua vita non ti sta chiedendo di vivere la missione della latitudine geografica, ma quella della spoliazione, dell’abnegazione, del lasciarsi guidare dai suoi piani i quali possono essere diversi dai nostri. Ricorda Santa Teresina di cui sei tanto devoto. Tu sei stato un uomo di prima linea e puoi continuare ad essere di prima linea anche adesso, in un altro modo...”.

Esaminando la vita di questo nostro confratello e leggendo le sue lettere, vi troviamo un anelito missionario incontenibile, un desiderio di evangelizzare, di far conoscere Gesù Cristo agli uomini, tali da farlo paragonare a Comboni o a san Francesco Saverio.

La vocazione missionaria

Alberto è il settimo dei 10 figli di Giuseppe e di Teresa Rota, poveri contadini che vivevano alle falde del Resegone. Un figlio e una figlia morirono in tenerissima età e gli altri otto, 6 fratelli e 2 sorelle, crebbero sotto le vigilanti cure dei genitori timorati di Dio, che, col pane diedero loro grandi esempi di vita cristiana.

Il papà spese molti anni lavorando in Francia e in Germania come muratore. Ritornava a trovare la sua famiglia a Natale e per i figlioletti era una grande gioia riabbracciarlo e dirgli grazie per il suo donarsi continuamente per loro. La mamma, con la figlia maggiore Maria, guidava la squadra nelle vie del Signore. Ogni mattina si recitavano in comune le preghiere, ai pasti si chiedeva al Signore la benedizione sul cibo, sul papà all’estero, su tutti coloro che soffrivano. Alla sera dopo cena c’era il rosario con una preghiera alla divina Provvidenza. Appena cresciuti, si dovevano alzare alle cinque del mattino per andare alla chiesa parrocchiale, circa un chilometro di distanza, per la Messa.

Il Signore ha premiato questa famiglia: quattro figli felicemente sposati e gli altri quattro (Alberto, Luigi, Giuseppe e Maria) consacrati a Dio nella Congregazione comboniana. La mamma, che morirà tragicamente il 10 gennaio 1945, non ebbe la gioia di vedere realizzato il piano di Dio per questi suoi quattro figli, ma li aiutò a realizzarlo dal paradiso.

Fin da ragazzo Alberto si distingueva per pietà, zelo, aiuto in famiglia e in parrocchia. In tutte le cose che intraprendeva dimostrava una forte volontà di arrivare al termine, sia nella scuola come nel lavoro e nel gioco. Anche da missionario dimostrerà questa forte volontà di diffondere il Vangelo.

“La fiamma missionaria nella nostra famiglia - scrive P. Giuseppe - partì dalla sorella maggiore, Maria, che voleva farsi missionaria all’età di 17 anni, ma su consiglio del parroco dovette attendere per aiutare in famiglia. Il suo zelo missionario, però, contagiò i suoi ultimi tre fratelli i quali, dopo un tirocinio nel seminario diocesano di Bergamo, si decisero per le missioni”.

Nel 1935 Alberto manifestò il desiderio di entrare in seminario per diventare sacerdote. Anche se tale decisione comportava ulteriori sacrifici per i genitori, non gli dissero di no, anzi cercarono di favorirlo poiché vedevano in un figlio sacerdote il massimo della benevolenza di Dio nei confronti della loro famiglia.

In seminario Alberto volle subito far parte del gruppo missionario, che era molto attivo, e in poco tempo ne divenne il principale animatore. Col suo entusiasmo contagiava anche i compagni. Come profitto scolastico fu per molti anni “il primo della classe” e la sua condotta giudicata “molto buona”. Durante le ricreazioni i suoi discorsi preferiti riguardavano i problemi missionari e gli episodi di vita africana che aveva letto sulle riviste missionarie e sui libri. Di tanto in tanto qualche missionario passava dal seminario per tenere delle conferenze e ciò contribuiva ad aumentare la “temperatura missionaria” nell’ambiente.

La scelta dei Comboniani

Ed ecco che, alla fine dell’anno scolastico del 1943, Alberto prese la penna in mano e scrisse ai superiori dei Comboniani di Verona: “Il sottoscritto Alberto Buffoni, alunno del seminario di Bergamo, promosso alla terza liceo, previo consenso del direttore spirituale, del parroco, del rettore e dei genitori, inoltra umilmente la domanda di ammissione a questo Istituto missionario...”.

La mamma, essendo il papà all’estero per lavoro, espresse il suo consenso con una lettera del 6 settembre 1943. “Col consenso anche del marito attualmente all’estero, permetto liberamente che il detto figlio entri in questo Istituto”. Inutile aggiungere che, sia il parroco come il rettore, rilasciarono le migliori informazioni. Il parroco assicuro che “già da tempo sente la vocazione per le missioni estere e, dopo prolungata e matura riflessione, si è deciso a fare il passo”.

Nel seminario minore di Clusone, Bergamo, Alberto s’imbatté nel libro “Trattato della vera devozione alla Madonna” del beato Maria Grignon de Montfort. Quella lettura-meditazione gli mise le basi di una solida devozione alla Madre di Dio, che portò avanti e aumentò in tutta la sua vita. Segno di questa devozione è anche ciò che accadde alla morte della sua mamma: volle che tutti i familiari nella stanza dove giaceva la defunta, cantassero con lui il Magnificat, e da sacerdote lo si vedeva sempre con il rosario in mano.

In Messico, durante il terremoto, egli si trovava in chiesa e, vedendo la statua della Madonna che traballava, corse ad abbracciarla perché non cadesse gridando: “Io salvo te e tu salva me”. Nelle sue prediche e istruzioni c’era sempre il riferimento alla Madonna e questo avveniva anche nelle famiglie che visitava.

Nelle varie richieste per la rinnovazione dei Voti e per accedere agli Ordini sacri, si appellava sempre all’intercessione dell’Immacolata per assicurarsi la fedele perseveranza nella vocazione e negli impegni assunti. Accanto alla Madonna c’era San Giuseppe del quale era pure particolarmente devoto. Ma, tra le sue devozioni, vanno ricordati (poiché li nomina spesso nelle lettere) Santa Teresa di Lisieux, San Martino de Porrez e, naturalmente, il beato Daniele Comboni del quale ripeteva continuamente i detti specialmente quelli che si riferiscono all’evangelizzazione.

Verso il sacerdozio

Il 7 settembre 1943 Alberto entrò nel noviziato di Venegono Superiore dove era maestro dei novizi P. Antonio Todesco. Tre giorni dopo gli arrivò la cartolina-precetto per il militare. Sarebbe dovuto andare in Russia, ma ormai era novizio per cui si salvò. Alberto si impegnò subito a vincere il suo carattere alquanto impulsivo e portato all’espansività. “E’ buon e generoso - scrisse il P. maestro - pieno di buona volontà per riuscire un buon missionario. Ama la vocazione e per esserle fedele non bada a sacrifici. Ha sempre manifestato forte e convinta pietà. Il suo carattere si mantiene ancora un po’ leggero e distratto, ma le sue qualità e il suo impegno gli consentono di andare avanti”.

In noviziato, e anche dopo, divenne un instancabile animatore vocazionale nei confronti dei suoi fratelli Luigi e Giuseppe che, nel frattempo, erano entrati nel seminario diocesano. “Le sue lettere - scrive P. Giuseppe - erano un crescendo di entusiasmo missionario. Si vedeva chiaramente che Alberto non aveva altro in mente che il sacerdozio e l’Africa. Questa sua vocazione era costantemente alimentata dalla sorella Maria con la quale aveva uno scambio di approfondimento”.

Il 7 ottobre 1945 emise la professione temporanea e passò immediatamente a Verona per completare lo scolasticato, ma dopo il primo anno di teologia nel seminario diocesano, fu inviato a Crema come assistente dei ragazzi di quel piccolo seminario comboniano. Per la quarta teologia tornò a Venegono dove nel frattempo era stato trasferito lo scolasticato teologico.

P. Giacomo Andriollo, superiore a Venegono, lo definì: “Carattere impulsivo ed esuberante, molto pio, attivo ed intelligente. Ha, però, bisogno di controllarsi, ma farà un’ottima riuscita perché vuole diventare sacerdote missionario ad ogni costo”.

P. Capovilla aggiunse: “Si spera che, terminati gli studi, si riprenda dall’esaurimento di cui soffre. Ha sempre avuto costumi illibati, grande docilità ai comandi dei superiori. E’ incline alla leggerezza, ma ha buon criterio. Sarà un buon soggetto in Congregazione”

Nell’ottobre del 1948 il fratello Luigi entrò nel noviziato di Gozzano e Giuseppe in quello di Firenze, mentre la sorella Maria, in dicembre, entrò nel noviziato delle Comboniane a Buccinigo d’Erba. Una infornata da svuotare la casa. La sorella, che si chiamò Maria Teresa per ricordare la mamma, fece la professione nel 1951 e P. Alberto, sacerdote ancora fresco di ordinazione, celebrò la Messa. Maria Teresa partì poi per gli Stati Uniti, destinata ad una missione tra i neri. Il 30 giugno 1960, assistita dal fratello P. Luigi se ne volava al cielo all’età di 43 anni.

Il 15 agosto 1968 i tre fratelli Buffoni concelebrarono insieme per la prima volta al loro paese. Fu una festa grande. Il 18 dicembre di quell’anno, P. Luigi, all’età di 40 anni, fu stroncato da infarto a Landsdale in Pensilvania (USA). I due fratelli Alberto e Giuseppe gli celebrarono il funerale e lo seppellirono nella tomba della sorella suor Maria Teresa. Una famiglia benedetta e, appunto per questo, segnata dalla croce. Fatta questa digressione, proseguiamo con la storia di P. Alberto che venne ordinato sacerdote a Milano l’11 giugno 1949 dal Card. Idelfonso Schuster.

Reclutatore e confessore

La sua prima esperienza come sacerdote ebbe luogo a Padova. Vi rimase dal 1949 al 1955. Gli fu assegnato l’incarico di promotore vocazionale, ma doveva anche dedicarsi alla chiesa annessa all’Istituto. Come animatore vocazionale percorse paesi e parrocchie in cerca di ragazzi desiderosi di farsi missionari. Col suo modo di fare portato all’entusiasmo riusciva bene in quel compito. Abbiamo dei bravi confratelli reclutati da lui ed egli, con un pizzico di orgoglio, ogni tanto li ricordava.

P. Alberto, però, privilegiava il lavoro in chiesa a contatto con le anime. A questo proposito abbiamo una lettera del superiore di allora, P. Angelo Giacomelli, molto significativa. E’ del 1953:

“P. Alberto è reclutatore e ha la cura della chiesa. Il secondo ufficio tende a prevalere sul primo, non nel senso che trascuri il reclutamento, ma perché in chiesa mostra il suo zelo, la sua vera passione di fare del bene alle anime. Natura ricchissima, ottimista sempre, anche se non è sempre ordinato nelle idee e nell’esprimerle perché manca di concisione, tipo fisicamente simpatico e attraente, incontra facilmente favore al confessionale: giovani, donne, suore e anche uomini maturi. Prende tutto con molta serietà per cui alle volte è piuttosto lungo nelle confessioni, perché pensa che il novanta per cento delle confessioni siano invalide o addirittura sacrileghe perché i penitenti mancano di qualche elemento indispensabile come il dolore e il proponimento di non commettere più quel peccato. Per questa sua minuziosità e desiderio di mettere in pace le anime, gode molta stima nei paesi e presso i parroci che avvicina.

E’ portato anche alla direzione spirituale, che fa bene, e a dare ottimi consigli alle persone, anche se alle volte si dilunga un po’ troppo specie parlando al telefono. Conosciamo la sua dirittura morale e il suo zelo che lo porta a cercare unicamente il bene delle anime, e i frutti del suo ministero si vedono. Potrebbe essere fatto benissimo superiore di un nostro seminario”.

Missionario del mondo

La vita missionaria di P. Alberto spazia dall’America all’Africa passando per l’Europa e l’Asia. Iniziò in Ecuador. Dal 1955 al 1969 fu a Quinindé come superiore locale. Lavorò bene, tanto che una nota dice: “Quanto fece in quella prima missione di Quinindé che da un acquitrino trasformò in cittadina con ospedale, scuole, segheria, cooperativa di risparmio e prestito, ecc! Seppe trasformarsi in tuttofare, diventando il punto di riferimento per decisioni da prendere, situazioni difficili da sistemare con le buona, ma anche con qualche benevolo cazzotto”.

A proposito di cazzotti, un giorno il Padre affrontò due che volevano ammazzarsi. Prese per il braccio quello che andava tutte le domeniche a messa e gli mollò una sonora sberla per calmarlo. Quegli disse: “Da te accetto anche un ceffone, ma l’altro me la deve pagare”. Al che il Padre gliene diede un’altra dicendogli: “Questa perché ti ricordi che come cristiano devi perdonare”. E tutti tornarono a casa pacificati. Insomma P. Alberto aveva dei metodi di apostolato tutti suoi, ma erano efficaci. Possiamo dire che la sua fu una vita da pioniere con Mons. Barbisotti e con il primo drappello di Comboniani giunti in quella zona.

Quando giunse la notizia della morte di P. Alberto la città di Quinindé si commosse. Furono celebrate diverse sante messe in suo suffragio in chiesa e nella scuola da lui fondata. La sera del 25 aprile si radunò la comunità parrocchiale, tra cui molti insegnanti e studenti di tutte le scuole cittadine, rappresentanti dell’ospedale che porta il suo nome e della cooperativa di risparmio e prestito.

Nella Messa presieduta dal P. Provinciale fu ricordato che P. Alberto era uomo di Dio, innamorato della gente, sempre disponibile ed allegro, che seppe guardare e sperare nel futuro di questa città. Quinindé deve moltissimo all’opera che questo autentico comboniano vi svolse per 18 anni. Nell’entusiasmo generale si è anche parlato di raccogliere dati per una sua futura biografia e si è deciso di dedicargli una nuova opera sociale che sarà una residenza per bambini di strada.

Era un uomo di grande comunicativa e riusciva con battute umoristiche (e non sempre umoristiche) a sanare tante cose. I ragazzi gli correvano dietro e lo ascoltavano, i grandi lo stimavano e le autorità lo rispettavano. Con il suo savoir faire sistemò tante famiglie portandole al matrimonio religioso (dicono che per questo avesse un carisma tutto speciale), creò piccole comunità di preghiera dove si meditava la Parola di Dio, si pregava e ci si accostava ai sacramenti .

Il vescovo Mons. Barbisotti, commentando un giorno l’operato di P. Alberto, disse: “Averne di questi buffoni!”.

I confratelli apprezzarono il lavoro di P. Alberto e, nel 1969 lo elessero superiore provinciale dei Comboniani dell’Ecuador. Coprì la carica fino al 1973. Come provinciale dovette abbandonare la prima linea per ritirarsi ad Esmeraldas. Non è che P. Alberto stesse fermo, tuttavia l’ufficio di provinciale costituì per lui una specie di gabbia che mal sopportava.

In Africa via Spagna

Teminato il compito di Padre provinciale, per P. Alberto si profilò il secondo mondo missionario, quello che aveva sempre sognato e che lo aveva determinato a lasciare il seminario diocesano: l’Africa. Ma prima doveva dare il suo servizio all’Europa e accettò, non troppo di buon grado, di essere inviato in Spagna come animatore vocazionale. Il suo parlare convinto e convincente, ora arricchito dall’esperienza missionaria, fece breccia in tanti cuori di giovani che si decisero per la vita missionaria. Si fermò a Granada per un anno, dal 1973 al 1974, perché il Padre non smetteva di scalpitare per poter andare in missione, quella vera.

Ed ecco che finalmente gli arrivò il via per la missione del Malawi. Anche qui doveva essere un iniziatore di opere comboniane. Fondò Lirangwe e vi rimase dal 1975 al 1977, poi passò a iniziare Chipini, dove fu parroco dal 1977 al 1981; quindi venne trasferito a Vubwi, in Zambia, dal 1981 al 1984.

Vedendo le necessità della gente, P. Alberto puntò molto sulla promozione umana che il Concilio aveva definita come parte integrante della missione. E cominciò a organizzare le prime cooperative. Il lavoro dei Comboniani in Malawi e Zambia meriterebbe una storia a parte perché è stato veramente encomiabile.

Animatore vocazionale in Messico

Nel 1984, dopo le sue vacanze in Italia, P. Alberto ricevette la proposta di prestare il suo servizio missionario in Messico. Conosceva la lingua spagnola e aveva già fatto esperienza di America latina per cui non sarebbe stato difficile il suo adattamento in quel nuovo posto di apostolato. Con il solito entusiasmo il Padre fece le valigie e partì. Dobbiamo dire che era conteso da tre luoghi di missione, come lui stesso racconta in una lettera del luglio 1984: “In pentola c’erano tre tipi di arrosto, ma chi ha vinto nel menarlo sono stati quelli del Messico. Così la mia sospensione è finita e il salame, atterrando, si trovò col sombrero in testa. Sul tavolo avevo una lettera nella quale mi davano per scontato che sarei finito in Cile, ma ne avevo anche due dall’Ecuador, che reclamavano la mia presenza ‘perché sei nostro’. E la commedia dell’uomo che propone finì, come di solito, con Dio che dispone.

Ed io, con la nostalgia dell’Africa, ma con il canto in cuore, parto con l’illusione di trovare tanti disposti a continuare la nobile impresa indicataci da Comboni”. Fu a Valle del Chalco per quattro anni come addetto al ministero e all’animazione vocazionale.

In questo periodo cominciò un piccolo disturbo alle corde vocali per cui il Padre aveva qualche difficoltà nella predicazione. “Ho notato che il clima umido e freddo mi accentua il disturbo compromettendo la predicazione, quindi l’animazione”.

La tappa in Italia

Rientrando in Italia nel 1988 per il corso a Roma e per le vacanze si imbatté in una sorpresa che non avrebbe voluto trovare. Il superiore generale, P. Pierli, gli scrisse: “Sei assente dall’Italia da più di 30 anni. Penso che un po’ di servizio alla provincia d’origine ti faccia bene e soprattutto faccia bene a coloro ai quali comunicherai il tuo entusiasmo. Anche il nostro Fondatore ha condiviso la sua vita missionaria fra il servizio diretto in Africa e l’animazione missionaria in Europa. La Chiesa italiana ti presenta delle sfide che dovrai affrontare e che ti aiuteranno a crescere nella tua esperienza. Non considerarti un rubato all’Africa, ti si chiede solo un servizio di alcuni anni”.

Dopo un anno come animatore missionario a Troia, P. Alberto pensava di aver già pagato il suo debito all’Italia, e cominciò a scalpitare. “Se non parto per la missione divento vecchio e poi, un rottame, chi lo vuole più?”. Questi erano i suoi argomenti. P. Pierli, per calmarlo, gli fece un ragionamento sulla rotazione che, credo, valga la pena riportare perché è molto opportuno in ogni stagione:

“Apprezzo il tuo desiderio di tornare in missione, però vorrei farti notare che nella rotazione ci vuole un po’ di calma perché se è annuale o biennale, in Congregazione abbiamo un valzer selvaggio. Il Capitolo del 1985 ha criticato fortemente la rotazione selvaggia e ha detto di rispettare i 6-8 anni che poi possono essere anche 4-5. Accelerando di più si dà l’impressione di meteore che arrivano, fanno un po’ di lavoro e poi spariscono. E’ nella pazienza e nella costanza che si costruisce qualcosa. Pensare alla rotazione ancor prima di arrivare in un posto, vuol dire trascurare la legge fondamentale della missione che è l’incarnazione. Questo vale per la missione e anche per l’Italia...”. Parole sante.

Tuttavia P. Alberto passò, sempre come animatore, a Rebbio. prestandosi alla predicazione di Giornate missionarie anche nella diocesi di Novara. Chi scrive ricorda una sua predica nel Duomo di Novara: “Per la strada non si passa a causa delle auto che si rincorrono, e qui in chiesa vedo banchi vuoti. Dov’è la fede che ci hanno instillata le nostre mamme?”. E poi passava a fare il confronto con l’Africa dove la gente era affamata più di Parola di Dio che di pane. Bisogna dire che i suoi discorsi facevano breccia e incidevano negli ascoltatori. E anche le offerte e i nuovi amici di quel missionario ardente aumentavano.

P. Alberto fu un animatore di prima qualità. Nessuno saprà mai quanti amici avesse. Amici delle missioni e in funzione delle missioni, naturalmente. Ma lui, come Comboni, scriveva lettere su lettere, telefonava in continuazione tanto da tenere bloccato il telefono della casa in cui si trovava e facendo inquietare i confratelli che poi pagavano il conto.

Il fascino dell’Asia

Fin dal 1989, mentre era a Troia, si dichiarò disponibile ad andare in India o in Asia. “E’ passato un anno da quel fatidico ‘obbedisco’ anche se non capisco” Ho sentito che state preparando rinforzi per le Filippine e allora vi offro la mia sincera disponibilità”. scrisse. Gli fu concesso un viaggio. E il 15 marzo 1990 poté celebrare nella chiesa di San Francesco Saverio a Macao. Un benefattore illustre gli aveva consegnata una bella somma che egli portò di persona ai confratelli delle Filippine che erano in necessità per le numerose opere che stavano sorgendo in quella nazione. P. Alberto non si accontentò di fare il ‘babbo Natale’, ma contattò quattro vescovi del Kerala, che si dichiararono disponibili per una fondazione comboniana nelle loro diocesi, alla quale si sarebbe dichiarato disponibile. Scrisse al padre generale: “Penso di poter fare qualcosa con l’aiuto di San Giuseppe e Saverio, oltre che con la cara Madonna. Questa speranza mi fa ringiovanire e sognare e prego: ‘Signore, se è roba mia, vada pure giù per la piena, ma se è roba tua, apri la strada?” Teniamo presente che P. Alberto era un mago delle lingue. Ne conosceva alla perfezione quattro e aveva una grande facilità ad impararne di nuove, quindi la sua aspirazione alle possibili missioni dell’India non era campata in aria.

Per motivarsi e, soprattutto per convincere i superiori, si appellava all’Enciclica Redemptoris Missio nella quale il Papa diceva che “Bisogna guardare all’Oriente”. Il superiore generale aveva da fare le sue per tenerlo a bada. Eppure, nella sua insistenza, P. Alberto in ultima analisi si appellava all’obbedienza e alla preghiera: “Da parte mia c’è una preoccupazione di non imporre la mia volontà, ma insieme sento l’impulso o il tormento che non passa e non cambia. E allora? Allora prego e aspetto. La passione missionaria non si è mai spenta e non è mai venuta meno, anzi, col passare del tempo aumenta. Termino pregandoti solo di non lasciarmi in esilio deve mi hai relegato, sia che tu cambi o che continui come Generale. Continuerò a pregare: questi ultimi sono stati gli anni più intensi di preghiera, gli anni del Rosario. ’Prendimi per mano, o Maria, e guidami nel mondo a modo tuo’. Qualificami come vuoi, caro P. Francesco, basta che ambedue siamo strumenti nelle mani di Dio e della cara Madonna. Uniti nella preghiera cerchiamo insieme i progetti e i disegni di Dio. Va bene?”.

Il P. Generale gli rispose: “L’India fa parte dell’Asia a cui ci siamo aperti. Abbiamo già fatto un salto doppio, quello triplo ora sarebbe troppo. Siamo partiti da zero quattro anni fa (scriveva nel 1991 n. d. r.) , ora abbiamo tre comunità e dieci confratelli coinvolti con un postulato funzionante e una rivista affermata. Sta’ in contatto con l’Asia e aiutali”.

L’uomo dai tanti nomi

Finalmente, nel 1992 P. Alberto ricevette il via per la missione. Ritornò in Malawi dove era atteso dai cristiani e un po’ meno dai confratelli. Poi diremo il perché. Andò Chipata, nella parrocchia di St. Mathias Mulumba dove rimase fino ai suoi ultimi giorni. Dapprima è stato impegnato come cappellano dell’ospedale di Chipata, poi come insegnante di religione in un collegio di scuola secondaria e quindi nella cooperazione con la Diocesi alla fondazione del Centro di Preghiera nella località di Mphangwe.

Per il suo lavoro in Europa, in America, in Africa e in Asia scherzosamente amava definirsi “L’eroe dei quattro mondi” tanto per far concorrenza a Garibaldi che era eroe di solo due mondi. Ma i confratelli e gli amici lo chiamavano “Il leone”o “L’Albertone” per la veemenza delle sue prediche e per la sua dolcezza nei rapporti personali. Egli ripeteva nelle sue lettere e nelle sue parole il motto di Comboni “O Nigrizia o morte” oppure quello paolino “Sono stato chiamato e mandato per evangelizzare”.

Anche all’età di 77 anni era pronto ad altre conquiste, ad altri idiomi, ad altre imprese. In una lettera, commentando la morte di un giovane confratello si lamenta così: “Mi arrabbio con il Padre eterno. Perché non muoiono i vecchi o coloro che hanno perso l’entusiasmo per la missione!”. Proprio per questo ardore missionario affrontò pericoli senza paura, come quando si imbarcava sulle fragili canoe in Ecuador, e non sapeva nuotare, o quando si avventurava in luoghi sconosciuti. Anche con le autorità civili e religiose sapeva destreggiarsi molto bene per cui riusciva sempre a risolvere i casi anche più intricati e difficili. Il suo segreto era quello di essere “uomo di Dio” e con Dio diventava onnipotente.

La sua preghiera si protraeva lungo il corso della giornata. Il Rosario scorreva continuamente tra le sue dita, anche quando guidava, ma quando poteva, lo recitava davanti al Santissimo Sacramento.

“Quando nel settembre del 1999 - scrive P. Giuseppe - fummo in Canada dai nipoti e visitammo “l’Oratorio di San Giuseppe” (uno stupendo santuario unico al mondo) scoppiava dalla gioia e diceva: ‘Finalmente San Giuseppe è stato onorato degnamente’. Le sue difficoltà e quelle degli amici le scriveva su dei pezzetti di carta che poneva sotto la statua di S. Giuseppe che teneva gelosamente in stanza e che mi chiese di mandargli dopo la dolorosa notizia dei superiori che non sarebbe più tornato in Africa, proprio lui che ha sempre sostenuto di voler morire in Africa. A San Giuseppe diceva: ‘Caro il mio Giuseppe, qui c’è pane per i tuoi denti’. Spesso mi ripeteva:‘ Le vocazioni escono dalla barba di San Giuseppe. Se oggi non ce ne sono è perché noi missionari ci ricordiamo più delle partite di calcio che di onorare San Giuseppe’.

Il suo ideale erano le vocazioni e spesso apostrofava i genitori troppo interessati del successo materiale dei figli. E diceva loro: ‘Se non sei partito, manda e non startene con le mani in tasca’. Aveva sempre in cuore la missione”. Il suo rapporto con la gente era immediato e cordiale, accompagnato da forti strette di mano, da simpatiche e furbe risate e da qualche cordiale pacca sulle spalle o più in giù. Da Alberto si accettava tutto.

Ha dato tutto perché ha dato se stesso

Verso la fine del 1998 qualche acciacco si affacciava già, anche se, per esorcizzare la malattia, si vantava di non essere mai stato malato. Infatti la malaria non aveva mai trovato dimora nel suo sangue. Il nuovo ruolo di ammalato, quindi, gli costò enormemente e gli fu motivo di grandi meriti.

Una settimana prima della morte ha telefonato al fratello P. Giuseppe che era in Malawi e gli ha detto: “Non sono stato bene in questi giorni, ma ora sto riprendendomi: Ho preso sulla testa una tremenda tegola. Il Generale è venuto da Roma e mi ha detto di non pensare più all’Africa. Io spero che si ravveda. Ora, però, devo obbedire e obbedisco. Tu, però, abbi un occhio a quella moto Honda semiautomatica che mi andrà ancora bene...”. Lo diceva mentre per muoversi aveva bisogno di due bastoni e di una persona che lo sorreggesse.

Davvero P. Alberto è stato il missionario che ha dato tutto perché ha dato se stesso nella totalità, senza mezze misure. Onestamente dobbiamo riconoscere che, qualche volta, la vita comunitaria e le regole gli stavano strette per cui il nostro Alberto era portato a gestirsi in proprio la missione con i nessi e i connessi. E ciò non piaceva ai confratelli. Ma sappiamo che questo è il peccato, se poi è un peccato, delle persone grandi, dotate di forte personalità e totalmente dedicate a una causa, cominciando da Comboni. Quindi glielo perdoniamo.

In occasione del funerale, il suo Provinciale ha scritto: “P. Alberto, io ricordo il tuo entusiasmo pionieristico per la missione, sempre pronto a cominciare qualcosa di nuovo con l’entusiasmo di un bambino. Qualche volta ho cercato di metterti le redini e tu, sorridendo, mi dicevi che ero un coniglio.

P. Alberto, avevi il dono di amare la gente e sapevi chiedere preghiere e denaro per le missioni. Qualche confratello, scherzando, diceva che avevi la scopa per raccogliere soldi, ma tu eri di una povertà estrema: tutto era per la missione, non solo la tua, ma anche per quelle più bisognose. Io sono certo che tu sei andato in paradiso e che ora stai scorrazzando in motocicletta tra tanta gente che hai conosciuto e che hai mandato avanti. Il Signore è stato buono con te e ti ha chiamato subito, senza farti stare qualche anno in carrozzella dove certamente saresti diventato triste. E poi, uomini come te non possono altro che morire sulla breccia. Ora prega per noi e dì al Padre eterno, il padre di tutti i popoli, di benedire l’Africa. I tuoi confratelli del Malawi-Zambia”.

P. Giuseppe, l’ultimo rimasto dei dieci fratelli, alla presenza dei parenti, confratelli ed amici, il 17 aprile 2000 ha benedetto la salma di P. Alberto che ora riposa nel cimitero di Venegono Superiore nella cappella dei Missionari Comboniani.

Lo stesso giorno è stata celebrata una solenne messa di suffragio nella missione di Mulumba, presieduta dall’Amministratore Apostolico Mons. George Lungu. A P. Alberto ha applicato queste parole: “Il missionario è uno che si prende cura della gente, e che rischia”. Nella preghiera dei fedeli la gente ha ricordato l’amore di P. Alberto per la Parola di Dio, le sue istruzioni ben preparate e comprensibili, la sua compassione per i poveri e la sua devozione alla Madonna. Ora questo ardente missionario sta vivendo il suo Giubileo eterno con Comboni e con i santi che ha sempre invocati.

Le celebrazioni in Ecuador, in particolare a Quinindé di cui abbiamo parlato, hanno un seguito con una Messa celebrata il 13 di ogni mese, secondo il costume locale, in memoria di P. Alberto. Che dal cielo faccia scendere un poco del suo spirito a tanti confratelli che magari hanno perso lo smalto per la missione e l’entusiasmo per la loro vocazione.       P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 207, luglio 2000, pp.94-105