“Sono nato a Borno, in provincia di Brescia, il 20 ottobre 1932 da due poveri operai - scrisse il seminarista Giovanni Battista Sanzogni dal Seminario vescovile Santangelo di Brescia in data 30 maggio 1952 -. Sono il secondogenito di cinque figli. Nel 1944 sono entrato nel seminario di Brescia e vi ho trascorso regolarmente il periodo ginnasiale e liceale.
Al termine del ginnasio ho dato gli esami pubblici d’ammissione al liceo e ne ho conseguito il diploma. Ora sto preparandomi alla maturità classica, terminando il terzo corso di filosofia. Come salute non sono troppo forte, però non ho disturbi particolari per cui ho potuto attendere sempre regolarmente a tutti i miei doveri.
In famiglia la mia decisione a farmi missionario ha suscitato grave malcontento, però sembra che lentamente tutto vada sbollendo. Se lei fosse tanto gentile da inviare ai miei genitori qualche parola di conforto, questo è l’indirizzo... Io intanto prego il Signore affinché mi dia la forza del distacco perché mi sento molto debole di fronte a queste esigenze del cuore, che sembrano tanto giuste...”.
Il rettore volle aggiungere una postilla: “Di mia iniziativa penso di aggiungere una riga: prima di tutto di saluto al vecchio compagno di scuola al Collegio Arici e poi di assicurazione circa il seminarista Sanzogni. E’ uno dei migliori per intelligenza, per serietà, per formazione. Ha superato grandi difficoltà interne ed esterne per il distacco. Il Signore lo premierà... Don Carlo Montini”.
P. Leonzio Bano rispose al giovane seminarista in questi termini: “Non mi meraviglio delle difficoltà e del dolore che provano i tuoi cari al pensiero di vederti partire da casa con la prospettiva di doverti un giorno dare un addio forse per anni. Non c’è come la sofferenza per santificare un ideale. Pensa alle parole che Gesù rivolse ai genitori nel tempio. Si applicano al distacco che devono affrontare i religiosi e i missionari che lasciano la famiglia per il regno di Dio... Scriverò anche ai tuoi cari”.
Papà Cesare era minatore e sempre sofferente quanto a salute, morì all’età di 55 anni. Il suo ultimo respiro fu raccolto proprio da p. Giovanni Battista che, nel 1960, si trovava per caso a Borno.
La mamma, Maria Aramini, lavorava in una filanda e, a “tempo perso”, lavava i panni presso le famiglie facoltose del paese. Morì nel 1974 da ictus mentre il figlio missionario era in Mozambico. La famiglia era di sentimenti profondamente cristiani.
Fin da piccolo Giovanni Battista amava la chiesa, e il suo gioco preferito era quello di imitare il sacerdote nella celebrazione della santa messa. La sua partenza per il seminario diocesano fu accolta con gioia dai genitori anche se quella spesa in più incideva sul loro magro bilancio, ma nella sua famiglia il sacrificio non faceva paura.
Negli anni 1950 il chierico Sanzogni ebbe modo di incontrare più volte e per lunghi mesi i missionari comboniani che andavano con i seminaristi dell’Istituto Comboni in villeggiatura al suo paese, ospiti nelle scuole comunali. Sovente s’intratteneva a parlare or con l’uno or con l’altro, particolarmente con i missionari più anziani che avevano lunga esperienza di vita africana.
Giunto, dunque, alla soglia della teologia, ha seguito la voce di Dio che lo chiamava alla vita missionaria superando il dramma di cui abbiamo parlato. Un suo compagno d’infanzia e di seminario, ora parroco a Darfo, ha detto: “Era la più bella mente della mia classe. Se ai suoi tempi ci fossero stati i sacerdoti fidei donum ne avrebbe certamente fatto parte. Egli, infatti, affermò più volte che si era sempre sentito attratto dalla missione, non dalla vita religiosa in una Congregazione o in un Ordine. Ma, non essendoci alternativa a quel tempo, entrò tra i Comboniani che meglio rispondevano alle sue esigenze missionarie”. Questo fatto spiega alcuni comportamenti del Padre che possono aver lasciato perplesso qualche confratello che ha condiviso con lui la missione.
Professore col cuore in missione
Scrivendo a p. Pietro Rossi, maestro dei novizi, in data 12 settembre 1952 così si esprimeva: “Una nuova anima entra nel suo mondo di conoscenze e di educazione. Entro col desiderio vivo di fare un passo innanzi nella mia formazione e sono certo di trovare in lei la guida sicura per questo faticoso cammino”.
Entrato nel noviziato di Gozzano il 29 settembre 1952 insieme ai seminaristi dell’Istituto Comboni, emise la prima professione il 9 settembre 1954 e i Voti perpetui a Venegono Superiore nel 1956.
Essendo trascorsi solo due anni dalla professione dei Voti temporanei, si dovette chiedere al Papa la facoltà di anticipare la professione perpetua. Gli fu concessa.
Fu ordinato sacerdote il 15 giugno 1957 nel duomo di Milano dall’arcivescovo mons. Montini. Partì immediatamente per Roma dove, nella Pontificia Università Lateranense, si laureò in Diritto Canonico magna cum laude, anche se lui avrebbe preferito Teologia e Filosofia. La sua tesi venne stampata in 80 copie e consegnata alla Segreteria della Facoltà.
Era logico che una così “bella testa” finisse in un’aula scolastica. Infatti fu dirottato a Venegono Superiore dove insegnò Diritto Canonico agli studenti comboniani di teologia. Se dicessimo che ha accettato quell’incarico volentieri, diremmo una bugia. Egli aveva lasciato il seminario diocesano per essere missionario, possibilmente di prima linea. Comunque per tre anni fu insegnante preciso, preparato, chiaro nella sua esposizione e comprensivo con gli studenti. Ma non lasciava passare l’occasione per importunare i superiori affinché gli dessero il via per la missione.
Una vita per la missione
E il permesso arrivò. P. Sanzogni partì per l’Uganda dove rimase dal 1960 al 1967 dedito particolarmente all’insegnamento nel seminario di Gulu. Ciò non gli impedì di prestarsi per il ministero domenicale e, nei periodi di vacanza, nelle cappelle dei villaggi, entrando così in contatto con la gente. Aveva un’arte tutta particolare per intrattenere i bambini dei quali diventava subito amico.
Nel 1961 frequentò un corso di lingua inglese in Inghilterra conseguendo il diploma. Ben presto, però, sentì il bisogno di cambiare aria e anche nazione. Ecco le tappe della sua vita missionaria, sempre alquanto movimentata: Mozambico (1969-1975) e Malawi (1976-1983). Prima di partire per il Malawi fece il mese di Esercizi spirituali a Varese e sostò alcuni mesi a Venegono perché “sento il bisogno di raccogliermi in preghiera per un buon periodo per riflettere sulla mia vita”, scrisse. Quindi andò in Kenya (1983-1985) e, alla fine, in Brasile (1989-1998).
Come si vede c’è un vuoto di quattro anni dal 1985 al 1989. Cos’era successo? Dopo la sua esperienza missionaria in Kenya, p. Sanzogni, in data 6 agosto 1985 scrisse al Padre generale: “Mentre voi facevate il bilancio del vostro sessennio, io ho fatto il bilancio della mia vita in Congregazione e ho concluso che i pochi anni che mi rimangono ancora da vivere, è meglio che li passi come sacerdote missionario diocesano. La vita comunitaria è stata per me una fonte di troppe sofferenze e certamente ha influito sulla mia salute. Spesso mi sono visto sottovalutato più del necessario; quando ho fatto dei gesti che mi sembravano doverosi in coscienza, sono stato commiserato o falsamente interpretato...”. A questo punto cita alcuni fatti successi in Malawi e in Kenya. Poi aggiunge:
“Non intendo lasciare la Congregazione per questi fatti. Scriva pure che la ragione è l’eccessiva difficoltà che incontro nel vivere la vita comunitaria. Il Vescovo di Araçui (Brasile), mio compagno di seminario a Brescia, col quale ho parlato del mio caso, mi accetta ben volentieri nella sua diocesi e così mi rende possibile continuare nel ministero sacerdotale missionario, al quale non rinuncerò mai, perché è la sostanza della mia vita. Accludo la lettera del Vescovo”.
I superiori, prudentemente, gli concessero un periodo di esclaustrazione semplice. Ma dopo qualche anno la salute del Padre peggiorò per cui, col primo gennaio 1987 fece parte della Provincia italiana. “Poiché la tua salute in questi ultimi tempi ha dato adito a preoccupazioni, è bene che per ora non pensiamo alla missione e che per tre anni ti fermi in Italia. Dopo vedremo”, gli rispose p. Pierli.
Come appare da questa lettera del Padre generale, il nostro Confratello era rientrato. E col primo luglio 1989 venne assegnato alla Provincia del Brasile.
Missionario all’avanguardia
“Con una intelligenza molto vivace, acuta, accompagnata da una profonda capacità di intuizione, sapeva analizzare le cose - ha detto p. Casagrande che è stato con lui in Malawi - tanto che vedeva i problemi con un anticipo di 10 anni. Interiorizzava e idealizzava le cose lasciandosi prendere da slanci di entusiasmo ai quali seguivano momenti di delusione. Aveva una volontà tenace per cui era difficile distoglierlo dai suoi progetti. Ciò lo portava a iniziative che agli altri potevano apparire sogni con conseguente sofferenza da parte sua e da parte degli altri.
In Malawi era parroco di Gambula. Nell’impostazione del suo ministero andava al di là delle regole stabilite dalle strutture consolidate da anni di tradizione. Era capace di rompere, era innovativo, uscendo dagli schemi comunitari e pastorali. Insomma, non voleva essere imprigionato in regole prefissate, preferendo rischiare e pagare di persona. Era sensibile e perciò vicino ai problemi della gente. Le ingiustizie contro i poveri gli bruciavano le carni. Si coinvolgeva nei problemi della fame, della sofferenza, dell’alfabetizzazione, della promozione umana... al punto che i drammi della gente diventavano suoi. Per questo non era una persona facile. Eppure Dio ha scritto una pagina di storia con questo missionario impetuoso e intraprendente”.
La nipote Marinella ricorda con ammirazione lo zelo dello zio nei confronti dei malati di lebbra che curava con grande affetto. “Mi raccontava - dice la signora Marinella - come i malati di lebbra sapevano portare la loro malattia con dignità. E anche nella morte erano dignitosi, davvero da fare invidia a noi sani”.
“Negli ultimi anni - scrive don Franco Rivadossi, suo compaesano e amico che lo accolse in casa per anni quando il Padre era in Italia - mi sembra abbia parecchio sofferto, chiudendosi in sé sfiduciato per varie situazioni a volte vere a volte, forse, frutto di pessimismo. Sono contento di avergli voluto bene e me lo riconosceva ampiamente”.
P. Sanzogni, quando andava in vacanza, difficilmente sostava nelle case comboniane. Preferiva rivolgersi agli amici sacerdoti, suoi vecchi compagni di seminario, e condivideva con loro il vitto, l’alloggio e il ministero.
P. Sanzogni soffrì anche perché, mentre vedeva che alcuni confratelli potevano assecondare i loro carismi in campo pastorale e missionario, alle volte senza la totale benedizione dei superiori, a lui ciò era impedito. Questa “ingiustizia” gli bruciava dentro e lo inquietava, anche perché era consapevole di non essere inferiore a quei liberi battitori come intelligenza, zelo missionario e spirito di iniziativa.
Soffrì molto anche quando il suo compaesano e compagno di seminario, l’arcivescovo mons. Giovanni Battista Re, sapendo delle tribolazioni in cui si dibatteva l’amico, lo richiese per un servizio in Segreteria di Stato, data la sua conoscenza dell’inglese e la competenza in Diritto Canonico, oltre che per la sua intelligenza e capacità di discernere le cose. I superiori lo sconsigliarono. Padre Sanzogni venne a sapere che gli era stata chiusa la porta senza parlare con lui, e anche questo fu motivo di amarezza.
P. Rogerio, presente al funerale e suo compagno di scolasticato e di missione in Mozambico, ha detto:
“In Mozambico (si era al tempo del colonialismo) non era contento di quel tipo di Chiesa dove non c’era neanche un vescovo mozambicano e dove gli altri, tutti portoghesi, erano in genere troppo legati al governo. Voleva una Chiesa libera, forte, che fosse segno chiaro della presenza di Dio tra gli uomini. Lo ricordo nella missione di Mueria quando si sfogava a denunciare quelle ingiustizie. Ma quando le cose sono cambiate, sono andate pure peggio. Il governo marxista leninista, instaurato con il Frelimo, scatenò la persecuzione contro la Chiesa, contro le missioni. La situazione si è fatta talmente pericolosa per un tipo come lui, che dovette lasciare il Paese. Questa messa gli apre le porte del paradiso e gli fa trovare quella pace che non è mai riuscito a trovare sulla terra”.
La malattia
P. Sanzogni ebbe molto da soffrire fisicamente dal 1983 in poi, tanto che dovette rientrare in Italia e, da allora, la salute gli creò continui problemi. Scrive don Franco Rivadossi, sacerdote nativo di Borno: “Con p. Battista condivisi in profonda amicizia gli anni dell’infanzia, della fanciullezza e della giovinezza fino a quando, nel 1952, lasciò il seminario di Brescia per entrare nella Congregazione dei Comboniani.
Nel 1983 fu ospite in casa mia per un anno, poi in seguito ancora per 10 mesi. A casa mia si sentiva come a casa sua. Non era molto amante della vita di comunità. Dopo varie peregrinazioni in casa di cura o di riposo, partì per il Brasile con la comunità di p. Baresi. Rientrò per alcuni mesi e ripartì per Oro Preto. Nello stesso settembre fece di nuovo un rientro. E pensava di ripartire ancora.
La poca affezione dei suoi familiari (fratelli e sorelle) fu sempre motivo di sofferenza. Continuava a ringraziarmi per l’amicizia nostra durante tutta la vita. L’ho sempre molto stimato e seguito. Prego per lui e spero che lui, ora, possa fare di più per me e per quanti gli hanno voluto bene”.
Come scrive don Franco, p. Sanzogni ha sempre rifuggito la vita di comunità e, mancandogli anche l’appoggio della famiglia, si è certamente sentito solo.
Nel 1995 fu eletto giudice del Tribunale diocesano di Vittoria, in Brasile. Per questo si fece mandare da Roma la fotocopia del diploma di laurea in Diritto Canonico.
“Nel mese di novembre del 1997 - scrive fr. Zabeo, infermiere a Milano - p. Sanzogni ritornò dal Brasile e si fermò subito al CCA di Milano per il normale check-up. I medici evidenziarono, dopo vari esami, ischemia cerebrale transitoria in paziente con ipertensione arteriosa, diabete melico tipo 2°. Il Padre informò i sanitari che in Malawi aveva avuto la malaria cerebrale.
Rimase alcuni mesi nel nostro Centro dove ottenne dei buoni miglioramenti. Andò al suo paese in piena primavera e ritornò in Brasile alla chetichella, senza sentire i medici. Nel periodo in cui è rimasto a Milano, si è notato in lui una grande accettazione della sofferenza. Uomo intelligente e dal carattere dolce e sensibile, ridotto a una vita quasi inerte, si è rivolto alle persone che gli parevano emarginate. E’ stato giudicato uomo di poco equilibrio e per troppo tempo è stato considerato come un numero e non una persona.
Nel settembre del 1998 - prosegue fr. Zabeo - tornò dal Brasile con gli stessi problemi dell’anno prima, in più era soggetto a forti crisi con dolori lancinanti all’addome. L’ecografia evidenziò calcolosi alla colecisti per cui venne ricoverato all’ospedale San Pio X dei Camilliani dove venne operato di colecistomia per calcoli. Tollerò bene l’operazione e per alcuni mesi si sentì bene tanto che poteva dedicarsi al ministero.
Alla fine di gennaio del 1999 ebbe altre crisi con dolori fortissimi. Fu ricoverato all’ospedale Niguarda. Si notò la presenza di altri calcoli per cui venne sottoposto a un intervento di rimozione mediante sonde.
Lentamente si riprese e si mise a disposizione dei superiori. Il suo desiderio più intenso era quello di partire al più presto per il Brasile. Il 27 marzo il padre Provinciale, passando per Milano, gli comunicò l’obbedienza: restare in Italia e dedicarsi al ministero passando, dal Centro Ammalati, alla comunità degli addetti alla chiesa. Egli rimase scosso e deluso. Trascorse il sabato pomeriggio e la domenica completamente assente dalla vita comunitaria. I suoi discorsi erano quelli di una persona sfiduciata, delusa, stanca.
Alla domenica sera non è apparso alla cena. Alle 21.00 un confratello andò a fargli visita. La stanza era chiusa a chiave e p. Battista rispose dal di dentro: ‘Tutto bene’. Lunedì mattina, 29 marzo, non vedendolo agli atti comunitari si andò nella sua stanza. Non sentendolo rispondere al saluto, si entrò nella stanza e lo si trovò steso sul letto, morto. Il medico ha stabilito che si è trattato di arresto cardio-circolatorio”.
Indubbiamente quella di p. Sanzogni è una morte che ci deve far pensare. Da una parte deve spingere ognuno di noi a “vivere la comunità” superando ogni individualismo, ogni critica esasperata e facendoci stare al nostro posto senza uscire troppo dalle righe. Dall’altra parte deve sollecitare i superiori a trattare tutti con la stessa misura, senza privilegi per nessuno. Ogni confratello, poi, deve sforzarsi di mettere in pratica quella carità verso tutti, specie i più fragili, di cui tanto parliamo e che, per noi Comboniani, dovrebbe essere il marchio di famiglia.
Mercoledì 31 marzo si è svolto il funerale nella chiesa Madonna di Fatima a Milano e poi la salma è stata portata al suo paese, Borno, per un secondo funerale e per la sepoltura. P. Sanzogni lascia in tutti il ricordo del suo amore per le missioni che lo ha tenuto sulla breccia fino all’ultimo nonostante la malattia, e della sua totale dedizione ai più poveri e “necessitosi”, nello stile del suo concittadino il beato Daniele Comboni. P. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n. 204, ottobre 1999, pp. 137-143