In Pace Christi

Branchesi Olivio

Branchesi Olivio
Data di nascita : 05/08/1918
Luogo di nascita : Montefabbri di Colbordolo PE/I
Voti temporanei : 07/10/1937
Voti perpetui : 07/10/1942
Data ordinazione : 27/06/1943
Data decesso : 01/12/1998
Luogo decesso : Bologna/I

Nato a Montefabbri di Colbordolo il 5 agosto 1918, è morto a Bologna il primo dicembre 1998.

Entrato tra i Comboniani da ragazzino, venne ordinato sacerdote il 20 giugno 1943, in piena seconda guerra mondiale. Dopo un paio d’anni a Firenze come insegnante dei novizi comboniani, partì per l’America con lo scopo di lavorare tra i Neri e di fondare un seminario per futuri missionari comboniani americani.

Nel 1948 fondò, diresse e diffuse la rivista missionaria Frontier Call che raggiunse subito le 25.000 copie. Contemporaneamente promosse e sostenne dei progetti missionari che coinvolgevano gli americani nell’opera missionaria in Africa. Con la penna, attraverso i suoi scritti e le lettere, allargò la cerchia degli amici e dei benefattori delle missioni.

Nel 1977 fece dieci anni di Africa vera, in Kenya, come amministratore della Congregazione africana “Apostoli di Gesù”. “E’ stata un’esperienza bellissima”, ha scritto.

Nel 1987 tornò definitivamente in Italia, prima come superiore della casa anziani e ammalati di Arco, Trento, e poi come superiore della casa comboniana di Bologna, sede del p. Provinciale.

Uomo di squisita carità e di profonda pietà, ha lasciato un grande rimpianto in tutti per la sua bontà e allegria. E’ morto, stroncato da infarto, dopo aver raccontato l’ennesima barzelletta ai confratelli.

Prima di alzarsi da tavola dopo il pranzo, raccontò ai confratelli l’ultima barzelletta (fu proprio l’ultima questa volta) sul solito Pierino. “Pierino - dice la maestra - dimmi un avverbio di luogo”. I compagni suggeriscono: “Qui, qua”. E Pierino: “Un’oca, signora maestra”. Terminata la risatina di rito, il Padre piegò la testa in avanti e disse: “Mi sento male”. Tre minuti dopo era morto.

Nato a Montefabbri di Colbordolo (Pesaro) il 5 agosto 1918 da una famiglia numerosa e povera (il papà era campanaro e calzolaio), entrò nel 1930 nel piccolo seminario missionario che i Comboniani avevano aperto nel 1928 a Riccione.

Il paesello, raccolto dentro l’antica cinta muraria, visto da lontano dà l’idea di una corona regale sulla testa di un’amena collina, una di quelle dolci colline che costellano le Marche. Sulla sommità spicca la torre del castello e, tutto intorno, campi e vigneti a non finire: un paesaggio da fiaba. Questo paesaggio agreste e povero, che pur ricordava un’antica modesta potenza locale dalle strade strette e lastricate sulle quali risuonava lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli montati da uomini chiusi in armature di ferro, con lunghe spade e lucenti scudi, p. Olivio se lo portò negli occhi e nel cuore per tutta la vita, e lo richiamava volentieri, specialmente quando si aggirava tra i grattacieli dell’America e tra il lusso sfrenato delle vie metropolitane o delle strade a 24 corsie che attraversano gli Stati Uniti.

La vocazione

Poi fece l’itinerario uguale per tutti i comboniani del tempo: Brescia per il ginnasio; Venegono per il noviziato, dove emise i primi Voti il 7 ottobre 1937; quindi Verona per il liceo e la teologia: Voti perpetui il 7 ottobre 1942. Ordinazione sacerdotale, sempre a Verona, il 27 giugno 1943.

Dopo due anni di permanenza a Firenze come insegnante ai nostri novizi (doveva anche laurearsi in lettere e si iscrisse alla Facoltà, ma si era durante la guerra) nel 1946 partì per gli Stati Uniti con i primi Comboniani del dopo guerra. Vi rimase, praticamente fino al 1977.

“Negli Stati Uniti - scrisse - trovai l’Africa che avevo sognata da fanciullo”. La sua presenza in Usa aveva due scopi: lavorare tra i Neri e fare animazione vocazionale dando inizio a un piccolo seminario missionario.

Negli Stati Uniti, nel 1948, ha fondato, scritto e diffuso la rivista missionaria Frontier Call con una diffusione di 25.000 copie. Lavorò nella parrocchia di S. Antonio di Cincinnati e, dal 1964 al 1977 in Montclair, NJ, come promotore dei progetti missionari. Dal 1952 era cittadino americano.

Nel 1977 fu inviato in Kenya come amministratore della Congregazione degli Apostoli di Gesù. “Ringrazio il Signore di quella esperienza africana”, scrisse.

Dieci anni dopo, nel 1987, venne definitivamente in Italia per assumere la direzione della casa anziani e ammalati di Arco, Trento. Qui fu operato di tumore all’intestino, ma se la cavò egregiamente.

Governò con mano paterna, direi materna per cui, quando lasciò Arco per diventare superiore della casa di Bologna (1994), ci furono di quelli che piansero.

Le missioni e l’Africa furono sempre nel cuore di p. Olivio. A Nago (vicino ad Arco), per esempio, animava un gruppo missionario che aiutava le missioni dove era stato vescovo mons. Mazzoldi (nativo di Nago). Con le sue buone maniere seppe accrescere il numero dei benefattori dovunque andò, dagli Stati uniti a Bologna. Scriveva lettere e lettere di ringraziamento, sentendosi in questo modo un animatore missionario nei confronti di tante famiglie.

Uomo sempre allegro, ottimista, di squisita carità e di profonda pietà, lascia in chi l’ha conosciuto un ottimo esempio di missionario realizzato e un grande rimpianto. RIP.

Era il 5 agosto 1993. Da Limone sul Garda ero andato alla vicina Arco di Trento per fare gli auguri a p. Olivio Branchesi, superiore della comunità comboniana di quella cittadina, in occasione del suo 75° compleanno. Qualche mese prima, il 27 giugno, aveva celebrato il 50° di sacerdozio. Seduti sotto gli alberi del giardino davanti alla casa, ci godevamo la brezza che spirava dal lago e che ci accarezzava la fronte. Padre Olivio era sereno, disteso, contento e in vena di confidenze.

“Dopo 75 anni di vita - cominciò - sono arrivato qui dove sono oggi, direttore di una casa di risposo per Comboniani che, come me e prima di me, hanno fatto la stessa strada nel lavoro e nel mondo missionario... Siamo in undici, e tutti insieme avremo presto mille anni: seicento di questi mille anni li abbiamo passati a servizio dei poveri nelle missioni. Ci consola il pensiero che forse nella nostra lunga esistenza abbiamo fatto del bene a qualcuno, e questa, a noi pare, è la miglior vocazione alla quale può essere chiamato un uomo sulla terra”.

“So che hai girato il mondo prima di approdare ad Arco. Chissà quante cose hai visto!”.

“Non c’è mai stato niente di straordinario nella mia vita, eccetto forse il fatto che, prima o poi, il Signore mi ha sempre dato quello che ho maggiormente desiderato”.

“Cioè?”

“Studiare, diventare sacerdote e missionario, vivere e lavorare... Il Signore mi ha condotto in Africa e in America, ho fatto il parroco, ho conosciuto il mondo al di fuori del mio paesetto, Montefabbri, ho fatto una lunga esperienza tra i poveri del terzo Mondo e, alla fine, sono tornato dalle parti dove ho cominciato... Tutto questo mi è capitato, spesso con particolari meravigliosi, con qualche ora di solitudine e di scoraggiamento, con sorprese piacevoli, con qualche strapazzo, con alcune malattie, con molte preghiere e aridità, con qualche successo sul pulpito e con la penna, sempre con la ferma decisione e la grazia di seguire la mia vocazione con fedeltà, anche quando costava. E qualche volta mi è costato molto... Voltandomi indietro dopo 75 anni, devo riconoscere che è stato il Signore a condurre la mia vita. Pensa, da bambino, giocando a mosca cieca di fronte a casa mia, sono caduto dalle mura che circondano il mio paese arroccato su di una collina, con tanto di castello. Allora le mura non erano recintate. Andai a finire in un orto sottostante, lasciandovi una bella buca dove aveva battuto la testa, ma questa è rimasta illesa...”.

“Ricordi ancora la tua casa, la tua famiglia, i tuoi cari...?”.

“E come non potrei! Sono ricordi meravigliosi che custodisco nel cuore come tesori. I miei sette fratelli ed io siamo nati in una famiglia povera, che però possedeva la casa che è ancora nostra. Papà Gigi, come lo chiamavano tutti, era il sagrestano, il campanaro e il calzolaio del paese, mestieri che rendevano poco. I contadini, per i quali faceva o riparava le scarpe, erano poveri come noi e non avevano soldi per pagare. Così, dopo la trebbiatura, mio padre andava da loro a riscuote un po’ di grano e così riuscivamo a sbarcare il lunario. Mia madre, la Pepa, ha sempre sofferto alle gambe. Per camminare, si appoggiava a me e per questo mi chiamava ‘il mio bastone’.

Nel mio cortiletto c’era il forno pubblico. Le varie famiglie, a turno, cuocevano il pane, pagnotte da due chili. C’era sempre un buon profumo nell’aria. A nove anni cominciai a lavorare come garzone in una famiglia. Portavo da bere ai mietitori, le mannelle agli uomini che legavano i covoni, spaventavo gli uccelli che venivano a beccare il grano...

Tutti mi volevano tanto bene, ma mi pagavano poco. Allora mi misi a lavorare in proprio come spigolatore dove erano passati i mietitori. Un anno raccolsi un quintale di grano. Ho fatto anche il boscaiolo. Raccolsi cento fascine e la mia mamma, come regalo, mi diede i soldi per andare in pellegrinaggio al santuario di Montebarroccio. Fu la prima volta che salii in corriera. E’ stata una cosa emozionante.

“Come ti è venuta l’idea di lasciare un mondo così bello per farti missionario?”

“E’ il Signore che depone il seme della vocazione nel cuore di un ragazzo, proprio come fa il contadino quando mette il grano nella terra. Fin da piccolo ho sentito il desiderio di far conoscere il Signore a chi non lo conosceva. Il mio parroco, don Alfonso Fiorani, era in contatto con i missionari comboniani che avevano un seminario a Riccione, aperto nel 1928. Il 5 ottobre 1930, avevo 12 anni, vi entrai per iniziare le medie. E’ stata la prima volta che sono salito in treno. E quello è stato l’inizio di un viaggio che durò per tutta la mia vita e che dura ancora”.

Come hanno reagito i tuoi di fronte alla tua idea di farti missionario?”

“La gente che se ne stava sfaccendata lungo le mura, diceva: ‘Non sai che i preti di Riccione vanno in Africa a farsi mangiare dai leoni?. Altri dicevano. ‘Se io fossi tuo padre non venderei un figlio in questo modo come un orfanello’. La mamma, invece, disse a mio padre: ‘Lasciamolo andare, così qualcuno pregherà per noi quando siamo morti’.

“Dove ti ha portato questo lungo viaggio?”

“Fui ordinato sacerdote a Verona nel 1943. Alla mia prima messa al paese c’era poca gente. Gli uomini erano al fronte, i contadini erano indaffarati per la mietitura... La mia mamma disse: ‘Mi pareva di essere ritornata al giorno delle mie nozze, 45 anni fa’. E mio padre, da allora, volle sempre servirmi la messa, quando ero in paese, dopo aver suonato le campane e preparato i paramenti. Dopo l’ordinazione mi iscrissi alla facoltà di lettere all’Università di Firenze, ma per due anni dovetti far scuola agli studenti comboniani di Fiesole. Furono due anni terribili per me. All’università mancavano i libri, alcuni professori erano fuggiti perché ebrei, i bombardamenti ci terrorizzavano quasi ogni giorno... I rischi furono tanti e gravi. Ne parlo solo per ringraziare Dio che mi ha preservato.

Nel 1946 i superiori mi fecero interrompere gli studi per andare negli Stati Uniti con il primo gruppo di Comboniani. Avevo 28 anni. Dovevo lavorare tra i neri d’America, allora mal visti dagli americani. E poi avrei dovuto aprire un seminario comboniano per preparare giovani americani a diventare missionari. Vi rimasi fino al 1977. Per 31 anni ho lavorato per l’uno e per l’altro scopo”.

“Hai pubblicato anche dei libri?”

“Sì, ho scritto molto per animare i giovani all’ideale missionario, ho predicato nei 50 stati USA, ho viaggiato, ho fondato una rivista e ho anche scritto qualche libro che... non mi ha portato fortuna... La segretaria che lo ha dattilografato, mi ha chiesto quando lo avrei pubblicato. ‘Mah, vedremo’, risposi. ‘Lo pubblichi perché a qualcuno ha già fatto del bene. Trascrivendolo ho deciso di farmi suora’. Così rimasi senza segretaria. Adesso Barbara è già badessa in un monastero di Washington. Da bambino avevo letto in scuola “Dagli Appennini alle Ande” e avevo visto anche il film. Ricordai quei giorni infantili quando andai proprio sulla Ande. A 6.000 metri di quota l’aria era così rarefatta che si respirava a stento, e la prima notte credetti di morire”.

“Quale idea hai di te stesso?”

Che domanda! Comunque io credo di essere sempre rimasto un uomo piccolo. Non ho mai trascinato folle dietro di me, non mi sono fatto un gran nome, anche dove ho vissuto più a lungo come Cincinnati, New York o in California. Avevo un grande amico a New Yiok che era il pilota degli elicotteri del sindaco e delle autorità della città. Mi offriva spesso dei passaggi per visitare la città e i dintorni. Sono stato ai piedi di un missile alto come un grattacielo a capo Kennedy... In queste occasioni dicevo a me stesso: ‘Dio, dandoti la vocazione missionaria, ti ha dato la possibilità di vedere tante meraviglie che non avresti neppure immaginato restando a Montefabbri’, e dal cuore mi scaturiva una preghiera di ringraziamento.

Ho visitato i miei confratelli  del Brasile, dell’Ecuador, del Messico, del Perù. Fui colpito dalla loro povertà, dal loro troppo lavoro e dalla miseria della gente. Quando tornavo ero umiliato e convinto che, a confronto dei miei confratelli, stavo troppo bene.

Dal 1977 al 1987 andai in Kenya. Non fui in una missione di prima linea ma a Nairobi dove un uomo di 60 anni poteva cominciare una vita nuova, anche se un po’ più dura, ma più missionaria. e, dal 1987 sono in Italia, qui ad Arco...

“Cosa vorresti dirmi di importante, da ricordare?”

“L’aver lasciato i genitori da ragazzo non voleva dire, come si diceva, che ero stato venduto e neppure che ero diventato un orfanello. Diventare sacerdote e missionario, anche se non mi sono reso conto subito, voleva dire entrare a far parte di un’altra famiglia, composta di tanti fratelli, tutti ottime persone che, anche se non uniti da vincoli di sangue, si vogliono bene e lavorano per un comune ideale, senza interessi personali, a servizio della Chiesa, nel campo specifico dei più poveri e abbandonati. Un po’ alla volta ho scoperto quell’elemento impalpabile che si chiama vocazione, cioè un dono speciale di Dio riservato a pochi, che mi spronava a perseverare nello studio, nel lavoro, nell’obbedienza, nelle rinunce che un sacerdote e un cristiano deve affrontare per essere fedele. Insomma sono stato un ragazzo fortunato, molto amato da Dio e ora sono un anziano felice, contento di vivere e di rendermi utile... fino a quando il Signore vorrà”.

Martedì primo dicembre 1998 un infarto ha improvvisamente fermato p. Olivio Branchesi. Lo ha fermato per la strada terrena per dargli modo di iniziare l’altra, quella che non terminerà più.       P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 203, luglio 1999, pp. 105-112