In Pace Christi

Metelli Mario

Metelli Mario
Data di nascita : 24/05/1918
Luogo di nascita : Cologne (BS)/I
Voti temporanei : 08/12/1947
Voti perpetui : 07/10/1953
Data decesso : 11/04/1998
Luogo decesso : Nampula/MO

Mentre i “primi fanti” passavano il Piave che “mormorava calmo e placido”, fr. Mario Metelli nasceva a Cologne (BS) proprio quel 24 maggio 1918. Era l’ultimo di nove fratelli di cui tre maschi e sei femmine; ed è stato anche l’ultimo a lasciare questo mondo nella missione di Nampula, in Mozambico l’11 aprile 1998, per un forte attacco di malaria con accompagnamento di broncopolmonite.

Il papà era contadino in proprio, la mamma Piva Rosa, casalinga. Ragazzino vivace, capobanda tra i compagni, combinava frequenti marachelle. Ben lo sapevano i poveri uccelli che facevano i loro nidi sui pioppi lungo i fossati e che, quando i piccoli erano pronti per il primo volo, finivano regolarmente in padella.

Un giorno il piccolo arrivò a casa con un pancione spaventoso. Lo portarono immediatamente dal medico. “Niente paura - disse costui - sono pesche. Andrà a posto da solo se non gli scoppiano le budella”. Una buona passata da parte del papà, favorì l’operazione.

Imprigionato dai fascisti

Dopo le elementari al paese, Mario aiutò il papà in campagna. Era un tipo ribelle. A 18 anni assaggiò la prigione perché si era rifiutato di prendere parte alla “scuola di mistica fascista” e dovette pagarla cara. La reclusione, fortunatamente, durò appena due giorni.

Nel 1939 partì soldato e venne inviato a Trento nel corpo di Artiglieria motorizzata, primo Reggimento.

Nel gennaio del 1941 partì per l'Africa, in Libia, e lì prese parte alle battaglie di Tobruk, e di El Alamein nel luglio del 1942. Qui venne ferito. Mentre guidava un trattore che trainava un cannone, arrivarono gli aerei americani e bombardarono. L'artigliere Metelli bloccò il trattore e saltò a terra dalla parte destra. Un ufficiale e tre commilitoni che erano sul trattore, si buttano a sinistra e una bomba li uccise. Egli restò solamente ferito alla scapola.

A causa di quella ferita dovette rientrare in Italia. Era l’ottobre 1942. Due mesi all'ospedale dell’Ordine di Malta a Roma e sei mesi di convalescenza, poi tornò alla sua caserma di Trento.

L'8 settembre 1943 fuggì da Trento aiutato dalla gente che gli diede un vestito borghese, e tornò a casa a fare la vita di fuggiasco, nascondendosi qua e là per non farsi acchiappare dai tedeschi o dai fascisti.

I suoi compagni, dopo la sconfitta italiana in Africa, finirono prigionieri in Inghilterra e altri a sud del Cairo, nel deserto. Alcuni tornarono a casa mezzi matti a causa degli strapazzi subiti.

La vocazione

Da soldato in Africa, spesso Mario si sorprendeva ad ammirare la vastità del deserto e la miseria della gente. Egli allora ha pensato che, forse, valeva la pena di impegnare la vita per loro. Ma come? Alla fine della guerra venne a conoscenza dell’Istituto Comboniano, presente a Brescia in Viale Venezia. Fece una visita al superiore e parlò della sua esperienza africana come soldato nell’esercito italiano.

“E perché non continui come soldato di Cristo, in quello stesso deserto?”, gli rispose p. Giovanni Battista Cesana, superiore e futuro vescovo di Gulu, in Uganda. Mario accettò. E i suoi familiari gli diedero la benedizione, orgogliosi che uno di loro si mettesse al servizio del Signore come Fratello missionario in Africa.

Nella lettera del 25 giugno 1945, che era indirizzata al Superiore Generale e che invece finì nella mani del superiore di Brescia (p. Cesana) Mario scrisse: “Dando ascolto alla voce del Signore che insistentemente mi chiama ad essere operaio nella sua vigna nelle missioni, umilmente chiedo di essere ammesso a far parte della famiglia comboniana. Sono reduce dalla guerra di Libia, di professione agricoltore (con diploma di frutticoltore), conosco abbastanza bene la meccanica e spero, con l’aiuto di Dio, di essere utile alle missioni affinché presto tutti gli africani abbiano a conoscere e amare il Signore”.

Abbiamo anche la lettera che p. Cesana scrisse al p. Maestro, in data 26 ottobre 1945. In essa parla di Mario Metelli come di “un buon giovane che mi ha fatto ottima impressione, animato da buona volontà e ben preparato spiritualmente. Anche il suo parroco dà buone referenze”.

Il 14 novembre 1945 Mario, a 27 anni di età, entrò nel noviziato comboniano a Venegono Superiore, in provincia di Varese, trovandosi fianco a fianco con dei ragazzi di quindici o sedici anni.

Maestro dei novizi era p. Antonio Todesco, futuro p. Generale della Congregazione.

I primi mesi furono un po’ duri per il nostro Mario, con tutto quel silenzio, quelle piccole regole che spezzavano la volontà, con un orario che sembrava fatto apposta per non permettere di terminare un lavoro iniziato.

Egli era abituato alla vita libera dei campi, agli allegri incontri con i compagni sul sagrato della chiesa dopo le funzioni, a qualche scappata al bar per un bicchiere con i compagni di naia...

Il p. maestro capì il disagio del giovanotto e, chiamatolo in stanza, gli disse: “A voi vecchiotti se non si torce il collo subito, non si ottiene più niente. Tuttavia ti concedo di leggere qualche giornale e di fumare qualche sigaretta ma, attento a non farti vedere dai giovani”. E il fratello si trovò subito bene, se non altro per il fatto di sentirsi capito.

Nella cartella del noviziato è scritto: “Buon desiderio di perfezionamento, tenace nel lavoro e amante della preghiera. Ingegno buono per cui sa industriarsi in tante cose. Carattere adattabile e sincero. Salute ottima”.

In Mozambico

Emise i Voti religiosi l’8 dicembre 1947 e andò a Thiene dove c'era una scuola di formazione per futuri Fratelli missionari. Compito di Mario fu quello di tenere la campagna e assistere i ragazzi. Si trovò molto bene.

Nel 1948 p. Todesco, che era diventato Generale della Congregazione, dopo un suo viaggio in Messico, lo invitò ad andare là, ma p. Pietro Rossi, superiore a Thiene, lo trattenne ancora per un anno. Fr. Mario, infatti, si era dimostrato un ottimo assistente e un avveduto educatore di quei giovani che aspiravano a diventare Fratelli missionari.

Solo nel 1949 poté lasciare Thiene e andò in Portogallo, a Viseu, per studiare la lingua. Nel 1950 partì per il Mozambico con la seconda ondata di missionari comboniani che andavano in quel Paese, colonia del Portogallo. Erano in otto. Con fr. Metelli c’erano p. Zoia, p. Ruggera, p. Calvi, p. Martini, p. Busi, fr. Morganti e fr. Restani.

Imbarcatosi a Lisbona sulla nave “Patria”, passarono le loro vesti nere ai confratelli ed essi indossarono quelle bianche, tanta era la povertà di quei missionari.

Il viaggio fu tribolato per il mare grosso e fr. Mario soffrì il mal di mare: Quel purgatorio durò 24 giorni. Quando si trattò di doppiare il Capo di Buona speranza c’era in corso una tempesta spaventosa che sbatteva la nave su e giù come un fuscello. Qualcuno aveva paura di finire ai pescicani, ma fr. Mario lo rassicurò con queste parole:

“Vuoi che il Signore ci abbia fatto superare i pericoli della guerra e tutto il resto per darci in cibo agli squali?”.

Come Dio volle arrivarono a destinazione, ma erano ridotti a stracci da buttare.

Fonda la missione di Nacaroa

Fr. Mario fu destinato a Nacaroa dove doveva sorgere una nuova missione. Cominciò disboscando il terreno, tagliando tronchi ed estirpando cespugli. Un lavoro improbo anche perché i mezzi di cui i missionari disponevano erano pochi e modesti.

Nessuno conosceva  il Macua, la lingua locale, tuttavia si arrangiarono e si fecero intendere dai locali che si prestarono a lavorare con loro in un clima di cordiale amicizia.

Superiore regionale era p. Zambonardi, di Gardone, che si preoccupò di insegnare ai novellini l’arte del missionario.

P. Zambonardi aveva un cuore grande e idee chiare: “Cercate di andare d'accordo; se uno sgarra, compromette la nostra opera in questa regione”, amava ripetere.

Cominciarono i primi attacchi di malaria anche per fr. Mario e p. Zambonardi lo serviva come avrebbe fatto la mamma. Dice fr. Metelli: “Mi portava via perfino il vaso da notte e mi puliva la biancheria. Alle mie proteste per quel lavoro così umile, rispondeva: ‘E se toccasse a me essere ammalato, tu non faresti altrettanto? E allora lascia che ora lo faccia io. Davvero p. Zambonardi fu uno dei più grandi missionari che abbia incontrato nella mia vita. Se qualcuno gli scrivesse la biografia - e se la meriterebbe - il titolo dovrebbe essere questo: ‘Un gigante’, perché fu proprio un gigante di missionario”.

Manovale e ingegnere

Fr. Mario Metelli, oltre che muratore, divenne anche progettista. I disegni delle scuole, dei dispensari, dei laboratori, erano ormai compito suo, ma poi doveva anche costruire quei fabbricati.

Insegnò agli africani a costruire le fornaci, a impastare i mattoni e a cuocerli. Alcuni giovani, alla sua scuola, divennero abili muratori.

Fr. Mario non fu solo muratore, ma anche falegname, fabbro ferraio, idraulico... Con lui c’erano altri bravi fratelli. Ricordiamo, per esempio, fr. Agostini di Verona, maestro in muratura e uomo di grande allegria. Dove c’era lui non poteva esistere la malinconia perché era solito cantare a squarciagola le opere liriche che aveva sentite in Arena. Poi c’era fr. Antoniazzi, attualmente a Carapira.

Anche dentista

Restò a Nacaroa 10 anni dove costruì la scuola, la chiesa, le varie cappelle della zona, e il dispensario. Ma fece anche il dentista. Un giorno venne una donna lebbrosa in stato interessante, che chiedeva le venissero levati un paio di denti guasti. Il fratello non voleva metterle le pinze in bocca, già devastata dalla lebbra, ma p. Calvi, il superiore, gli disse: “Fratello c’è la Provvidenza, cavate quei denti!”.

Il fratello si fece coraggio e infilò la pinza in bocca, ma con i due denti uscì anche un pezzo di gengiva. Il fratello era disperato, la donna invece, come niente fosse, tornò a casa sua.

Dopo un mese era di nuovo alla missione con un bel bambino in braccio e una gallina per il dentista.

Dal 1960 al 1963 il nostro Fratello venne inviato in Portogallo per dare una mano alla casa di Famalicao. Dal 1963 al 1965 sostò a Verona come aiutante dell’economo e incaricato delle spese per la casa. Poi un anno a Firenze, in noviziato, come economo e aiutante nelle giornate missionarie.

Un vita per il Mozambico

Nel 1966 partì nuovamente per il Mozambico e, da allora, salvo per le vacanze, non lasciò mai quella missione.

Lavorò a Netia per costruire la chiesa e l’ospedale (1966-1967). Poi fu a Carapira (1967-1969) dove cominciò e portò a termine la scuola tecnica, lavorando come muratore col gruppo di operai che si era formato e col quale era molto affiatato.

Costruì anche il Centro pastorale di Anchilo (1969-1970) e, ad Alua, (1970-1974) edificò la scuola di arti e mestieri.

Fr. Metelli in Mozambico ha vissuto l’epoca del colonialismo portoghese, in cui la gente locale contava poco. I ragazzi mozambicani non potevano arrivare oltre la terza elementare. Sotto i colonialisti gli africani dovevano appena saper leggere e scrivere, tanto da essere in grado di pagare le tasse senza il pericolo che arrivassero ai posti di comando.

Poi fr. Mario ha visto la rivoluzione che ha portato il Paese all’indipendenza nel 1975, quindi la guerriglia che si è scatenata tra governo di ispirazione marxista-leninista e i ribelli che reclamavano maggiore libertà.

Visse gli anni terribili della fame, della gente che moriva con l’erba in bocca, delle distruzioni di case e villaggi, di uccisioni sia da parte dell’esercito regolare, sia da parte dei guerriglieri, del colera, della persecuzione contro la Chiesa, dell’espulsione dei missionari e il domicilio coatto imposto ad altri. Tra i Comboniani ci furono anche due martiri: suor Teresa Dalle Pezze e il medico missionario fr. Fiorini.

Il mulino di Carapira

Dopo l’indipendenza fr. Metelli lavorò nel mulino a Carapira (dal 1974 al 1993). Macinava 4-5 tonnellate al giorno di miglio, mandioca, granoturco per la gente che arrivava con il grano e tornava al villaggio con la farina. Il fratello lavorava di giorno e di notte anche per la Caritas che forniva grano per gli affamati.

A Carapira ha avuto la visita dei ribelli per ben 22 volte. Il giorno di Pasqua furono uccise 20 persone in missione, venne devastata la scuola, l'ospedale e il mulino... I pericoli della guerra sono stati gravi. Il Fratello è stato anche minacciato, eppure non ha mai chiesto di venire via, di tornare in Italia.

Nel 1994, su richiesta delle Suore carmelitane spagnole, costruì, a Mirrote, l’ospedale per i tubercolosi. Ottanta posti letto. Come sua residenza, dal 1994 alla morte, fu la missione di Namapa, però egli era sempre disponibile a improvvisi spostamenti per aiutare chi aveva bisogno di lui.

Nel 1995 era al centro pastorale di Alua: 60 posti letto, cucina, refettorio e sale di riunione. Anche ad Alua portò un mulino per aiutare la gente a vivere dignitosamente. Evangelizzazione e promozione umana era stato il motto del Concilio Vaticano II, e fr. Mario lo metteva in pratica ogni giorno.

“Salvare l’Africa con gli africani” aveva detto il beato Comboni, e fr. Mario non venne mai meno al desiderio del fondatore del suo Istituto formando generazioni di muratori, di carpentieri, di falegnami...

Nel 1996 mise a posto la casa di Mirrote che era stata devastata da alcuni inquilini.

Progetti per il futuro

Nel 1997 è rientrato in Italia per un controllo della salute e per celebrare il 50° di professione religiosa. La festa è stata celebrata proprio nella sua chiesa di Cologne tra la commozione di tutti. Alla fine i 250 parenti che gli si strinsero attorno per il pranzo sembrava percepissero che quello era l’ultimo saluto al loro missionario.

Alla fine di quel convito, al quale era presente anche chi scrive, fr. Mario disse parole toccanti. Soprattutto sottolineò la missionarietà del paese, della comunità parrocchiale, della famiglia, che egli intendeva portare nel cuore dell’Africa, quale loro rappresentante. “Ma - aggiunse - voi conoscete i miei anni. Bisogna che qualcuno si prepari a prendere il mio posto che potrebbe restare libero da un giorno all’altro, perché laggiù, in un Paese appena uscito da una lunga guerra, c’è tanto da fare e c’è lavoro per tutti”.

A metà ottobre, all’età di quasi 80 ben portati, fr. Mario Metelli tornò ad Alua per cominciare una scuola di arti e mestieri, e costruire varie cappelle. Ma c’era anche un nuovo centro pastorale a Carapira che lo aspettava.

Gli africani sono stati i miei maestri

Con gli africani fr. Mario si è trovato benissimo. Ha imparato tante cose: l’ospitalità, il volersi bene, il dividere le poche cose che si hanno...

Degli operai: falegnami, muratori, fabbri, carpentieri, agricoltori... alcuni si sono messi in proprio e sono diventati costruttori e hanno fatto piantagioni di cocco, di mandarini.

“Quando passo a visitarli - diceva il Fratello - c’è sempre una gallina, un buon pranzetto e una parola di riconoscenza per chi li ha aiutati a bastare a se stessi, a vivere con dignità”.

Fr. Metelli ha saputo dar loro fiducia.

“Quando ricevono fiducia - commentava - si buttano nel fuoco per aiutarti”. Tutti volevano andare con lui quando c'era qualche lavoro da fare. “Siamo in Africa per fare degli uomini, dei buoni cristiani, più che per fare cose”, soleva ripetere il Fratello. Stando con gli operai era diventato anche il loro consigliere e amico.

“Viceprete”

Quando era con p. Capra, 1972-74, mancando i sacerdoti per le messe domenicali nelle cappelle lontane, faceva da prete amministrando l’Eucaristia, spiegando la Parola di Dio e guidando la preghiera. Le sue catechesi ai ragazzi, semplici e chiare, erano seguite con attenzione e interesse.

Ha dato anche un battesimo: si trattava di una vecchietta che volle essere battezzata proprio dal lui. P. Capra, scherzosamente, lo chiamava il mio viceprete.

“Bisogna mettersi nella loro pelle - diceva. - Vedere cosa mangiano, come vivono, quali problemi di famiglia e di figli hanno. Così si è anche più comprensivi, più caritatevoli, più tolleranti.

“Mi sono sempre trovato bene con tutti, sia con la gente come con i confratelli. Con questi ultimi si parlava dei problemi della settimana, della programmazione del lavoro, proprio come in una delle migliori famiglie. E la vita di missione diventava un paradiso per le soddisfazioni che procurava, anche se mancavano tante comodità che ci sono nel nostro mondo italiano. Non sono le comodità o le tante cose che si possiedono che fanno felice il cuore”.

“Ho anche esperimentato l'aiuto del Signore. L'anno scorso, per esempio, mentre passavo su un torrente quasi asciutto, la land rover si è rovesciata. L'autista non aveva visto una pozza d’acqua che lo ha tradito. Potevo ammazzarmi, invece fui solo investito dall'acido della batteria che mi spelò parte di una gamba, ma poco dopo guarii perfettamente”.

Prima di lasciare il paese nell’ottobre scorso, ha detto: “Ora, visto che sto bene, che ho ancora una buona salute, torno volentieri in missione. E quando il Signore mi chiamerà, vorrei essere in Africa per restare per sempre con la gente che il Signore mi ha assegnato e tra la quale mi sono sempre trovato bene”.

Ora possiamo dire che il Signore lo ha esaudito, proprio alla vigilia di Pasqua, quasi per fargli gustare la gioia della risurrezione dal paradiso. Un improvviso attacco di malaria con accompagnamento di broncopolmonite lo ha fatto passare da questa terra alla casa del Padre.

Di lui ci resta il ricordo di un missionario autentico, di un uomo sempre contento e felice della sua vocazione, di un saggio che, con la fede, ha portato al popolo africano un po’ di benessere e la dignità umana.     P. Lorenzo Gaiga, mccj

Da Mccj Bulletin n. 201, ottobre 1998, pp. 90-96