In Pace Christi

Bormolini Gualberto

Bormolini Gualberto
Data di nascita : 06/10/1946
Luogo di nascita : Livigno (CO)/I
Voti temporanei : 09/09/1968
Voti perpetui : 02/02/1972
Data ordinazione : 28/06/1972
Data decesso : 29/08/1997
Luogo decesso : Addis Abeba/ETH

Papà Giuseppe e mamma Marina erano contadini in proprio e possedevano un paio di mucche che fornivano appena il latte sufficiente ai bisogni della famiglia. Nonostante ciò, i genitori non fecero mai mancare il necessario ai numerosi figli.

Gualberto nacque in casa, a Livigno, un piccolo paese a 1.816 metri sul livello del mare nelle Alpi Retiche, distante più di 30 chilometri dal centro abitato più vicino.

Nato il 6 ottobre 1946, decimo di 12 fratelli , 7 femmine e 5 maschi (ma due li prese il Signore in tenera età), Gualberto crebbe sano e vispo. Fin da piccolo, sia in famiglia che dagli amici, fu chiamato Albertino.

Mentre il papà, per arrotondare le magre entrate faceva il ciabattino, Alberto accudiva le bestie. I fratelli, già verso i 12 anni andavano a lavorare nella vicina Svizzera.

La messa delle 5,30

Un giorno, tornando a casa dopo aver portato le mucche al pascolo, Alberto entrò in un prato in cui c'era ancora l'erba alta per raccogliere un particolare fiore che era buono da mangiare. Il padrone lo vide e si mise a gridare attirando l'attenzione di papà Giuseppe, il quale, al suo rientro a casa, le suonò di santa ragione al figlio che non aveva rispettato la roba degli altri. È l'unica volta, ricordano i fratelli, che il papà abbia alzato le mani.

La famiglia era, ed è, molto religiosa; i genitori tendevano piuttosto al rigorismo: preghiere mattino e sera con rosario quotidiano da recitarsi in ginocchio. Tutte le mattine, anche d'inverno con neve e tormenta, si andava alla messa delle ore 5.30 del mattino, eccetto al primo venerdì di ogni mese in cui, oltre alla messa, c'era anche il rosario, quindi bisognava essere in chiesa alle 5.00. Gualberto faceva il chierichetto. Durante un omelia tenuta da un missionario sentì nel suo cuore i primi sintomi di vocazione. Fu poi consigliato e guidato dal suo parroco, Don Lorenzo Pegorari e dal coadiutore Don Giulio Roncan. E così espresse il desiderio di partire per il seminario. La sorella Agnese ed una zia paterna erano entrambe religiose.

Di carattere, Gualberto era calmo e piuttosto timido. I suoi compagni di gioco erano i fratelli e i vicini di casa, anche se giocava poco perché c'era sempre bisogno del suo aiuto in famiglia, per raccogliere la legna e portare l'acqua in casa. Diciamo subito che, anche durante le vacanze dal seminario, non stava in ozio, ma si prestava in tutti i modi per aiutare la famiglia, specialmente per la raccolta del fieno e dell'erba "livia" il cui fiore era molto ricercato per fare un digestivo. Con i soldi guadagnati si pagava la retta del seminario.

Quando il missionario venne a "reclutarlo", Gualberto aveva 10 anni e frequentava la quarta elementare. Nonostante la giovanissima età, partì con entusiasmo per il seminario comboniano di Rebbio (Como). Al momento dell'addio, però, due grosse lacrime gli rigarono le guance. I genitori accolsero con gioia la decisione della scelta missionaria da parte di Gualberto, anche se, logicamente, sentirono il distacco, specialmente perché si trattava ancora di un bambino.

La prova del fuoco

A Rebbio Gualberto frequentò le medie. Tra il 1959 e il 1963 frequentò il ginnasio a Crema e poi il liceo classico a Padova (1963-1966). Dobbiamo dire che egli fu uno dei pochi che si salvò dal cataclisma provocato dalla contestazione del 1968 che sconvolse il mondo studentesco dell'epoca con riflessi deleteri anche sul noviziato. P. Danilo Castagnedi, preside del Liceo, scrisse di Bormolini: "Ha mostrato tenacia, criterio, volontà e costanza, ma è tanto timido".

Entrato nel noviziato di Gozzano il 14 settembre 1966, fece la vestizione il 7 ottobre ed iniziò il suo tirocinio di formazione sotto la guida di P. Antonio Zagotto, maestro dei novizi, il quale trovò il nuovo venuto "molto sensibile, con notevole capacità di adattamento alle varie situazioni, dotato di spirito di pietà e buono di carattere per cui molto adatto alla vita comunitaria".

Ma aveva anche qualche limite, come una certa durezza di carattere che, certamente, risentiva della vita dura vissuta da bambino a Livigno, un po' impacciato di fronte alle persone, timido, influenzabile dal parere altrui e un po' chiuso.

Gualberto lavorò con impegno su di sé durante i due anni di noviziato fino a raggiungere "una visione soprannaturale della realtà, un notevole spirito di fede specialmente quanto alla virtù dell'obbedienza, una capacità di spirito critico in modo da saper decidere autonomamente, senza seguire supinamente ciò che dicono gli altri". Sono parole del padre maestro.

Emise i voti il 9 settembre 1968. Nella formula di consacrazione sottolineò quelli che gli sembravano i motivi della scelta da parte di Dio nei suoi confronti: "Dio mi ha scelto come strumento per salvare anime, e per ottenere questo sono disposto a fare fino in fondo la sua volontà... Affido la mia vocazione a Cristo che mi ha chiamato, a Maria Santissima che mi ha guidato fino ad oggi, al Comboni che mi ha messo nel cuore lo zelo per salvare le anime. Per questo compio con serenità e gioia questo primo passo...".

Dopo la professione passò a Verona per lo studio della teologia che concluse a Roma alla Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura (Seraphicum) nel 1972. I voti scolastici sono molto alti: tutti 28 e 30 trentesimi. Tra il 1969 e il 1970 fu per un anno assistente dei seminaristi comboniani nel seminario di Asti.

P. Battista Zanardi, superiore ad Asti, scrisse di Gualberto: "Ha fatto bene, impegnandosi nel suo difficile compito di assistente e ha dimostrato buone capacità pedagogiche. Di carattere è buono e accetta i suggerimenti con atteggiamento di riconoscenza e dimostra buona volontà di migliorarsi".

Dopo quattro anni di voti temporanei, invece dei sei normalmente richiesti, Gualberto pronunciò i voti perpetui. È interessante leggere la formula che egli stesso ha preparato, perché in essa sono contenuti i sentimenti che lo animavano alla vigilia dell'ordinazione: "Dio, Padre che hai scelto me, Gualberto Bormolini, per annunciare il mistero del Vangelo di Cristo tra le genti, accetta questo mio atto di consacrazione perpetua con i voti di povertà, castità e obbedienza, secondo lo spirito comboniano.

Compio questo gesto con grande "timore e tremore", perché il peccato è ancora radicato in me; i miei confratelli qui presenti, sono testimoni quotidiani della mia difficoltà d'amore.

Non considero, quindi, questo mio atto come una meta, ma l'inizio di una vera consacrazione cristiana, quasi un secondo battesimo.

P. Sina (che riceveva i voti a nome del Superiore Generale n.d.r.) e questa comunità di fratelli e sorelle sono testimoni dell'impegno che mi assumo di fronte alla Chiesa. La loro fede mi dia lo slancio per partire bene in questa pazzesca e stupenda avventura".

Sacerdote

Gualberto venne ordinato sacerdote il 28 giugno 1972, a Livigno, dal Comboniano Mons. Aldo Gerna, vescovo missionario valtellinese a São Mateus, Brasile. La cronaca della parrocchia registra: "Il triduo di preparazione ad anche la celebrazione erano stati animati da P. Vittorio Trabucchi, Comboniano. La chiesa parrocchiale, per l'occasione, inaugurava il nuovo altare rivolto verso il popolo, e i due amboni per le letture: opere dello scultore Martino Sandrini di Ponte di Legno, lo stesso che aveva fatto i quadri della Via Crucis, i pannelli della balaustra e i due angeli adoranti dell'altare maggiore".

Dopo la sua ordinazione, passeranno 23 anni prima che un altro giovane di Livigno venga ordinato sacerdote, segno che, anche in quel paese di montagna, le cose stavano cambiando a velocità supersonica, e non in meglio. Il benessere che, via via prendeva il posto della povertà di un tempo, la diminuzione di figli nelle famiglie, un cambiamento nella considerazione dei valori, insieme ad altre cause, erano alla base di questo fenomeno.

In un’intervista pubblicata postuma su "Il Nuovo al Restel" di Livigno del 15 settembre 1997, P. Bormolini vede la causa della carenza di vocazioni nel suo paese proprio per il troppo benessere entrato in conseguenza del turismo e la scelta di altri valori da parte della gente: non più la fede vissuta, condita di sacrificio, ma il denaro e le comodità.

Missionario nella rivoluzione

Nel 1973 P. Gualberto andò a Londra per studiare la lingua inglese e, nel gennaio del 1974, partì per l'Etiopia, proprio all'inizio della rivoluzione che aveva abbattuto il regime feudale del Negus Hailé Selassié e portato al potere i militari del DERG, un governo marxista.

La gente era scoraggiata, impoverita dalla guerra e aveva perso la speranza in un futuro migliore, quindi i missionari non solo dovevano aiutare una gran massa di poveri con beni economici, ma dovevano infondere fiducia negli animi. P. Gualberto si rimboccò le maniche e partì in questa direzione.

Dopo un anno passato ad Addis Abeba per lo studio della lingua amarica, trascorse i primi cinque anni di missione come parroco e incaricato della scuola a Fullasa (1975-1980). Dal 1980 al 1986 fu superiore locale a Dongora, dal 1986 al 1993 fu superiore e parroco a Teticcia e, dopo un anno (1993-1994) trascorso a Fullasa come economo, passò nuovamente a Teticcia con lo stesso incarico.

Teticcia è a 2.700 metri di altitudine sul livello del mare, con 6.200 cristiani. Quando P. Bormolini vi giunse trovò una situazione del tutto particolare. Il sacerdote etiopico che aveva retto la missione fino a quel momento, aveva regalato vestiti ed altri aiuti a tutti, anche a chi non ne aveva di bisogno. Ciò aveva creato nella gente un senso di dipendenza dalla missione per cui questo "dare" era diventato un "diritto a ricevere". P. Bormolini, sostenuto dal Vescovo e dal suo confratello, un messicano, con non poca fatica, rimise le cose a posto aiutando solamente i veri poveri e responsabilizzando gli altri.

Teticcia aveva 58 cappelle disseminate nel vasto territorio. In ogni cappella venne messo un bravo catechista e un consiglio di cappella. Ogni due mesi arrivava il missionario per la messa, le confessioni, i battesimi e per ascoltare i problemi riguardanti la comunità.

Per risolvere il problema della fame, problema endemico nella zona, più che chiedere aiuti dall'Italia, i missionari, specie attraverso un bravo Fratello spagnolo, diedero vita ad un progetto agricolo con i ragazzi della scuola (1.500). Il governo fornì il terreno, i missionari le zappe e le sementi. E la cosa cominciò a funzionare. Il beato Daniele Comboni diceva che l'Africa andava salvata attraverso gli africani. P. Gualberto cercò di attuare questo piano. A distanza di anni, dobbiamo riconoscere che, in parte, vi è riuscito. Se non altro la gente ha capito che, con un po' di buona volontà e di fantasia ce la può fare anche da sola.

Animatore missionario

Gualberto fu sempre molto attaccato al suo paese, alla sua gente, alla sua famiglia. In questo modo poté essere un grande animatore missionario. Sapeva anche chiedere, sempre e solo per i bisogni della missione, per i poveri. "Ricordo - scrive la nipote Tatiana - quando andavamo a fare delle passeggiate in montagna. Io e mia cugina Daniela gli chiedevamo dei suoi negretti, del perché non ne portava qualcuno a Livigno; lo avremmo curato noi due. Egli rispondeva che gli africani andavano aiutati in Africa in modo che si rendessero capaci di fare da sé. A portarli via avremmo fatto soffrire loro e le loro mamme".

"Quello che ho sempre ammirato in lui era la disponibilità, la forza e la sicurezza - dice Fiorella. - Era sempre pronto ad ascoltare chi gli parlava, senza mostrare fretta. Ha portato con forza la terribile malattia che lo ha colpito e non ha mai voluto arrendersi. Il suo desiderio, e lo diceva a tutti, era quello di tornare in missione al più presto. La gente, che conosceva il suo stato di salute, era ammirata e si sentiva spinta a pregare per lui e ad aiutare la sua missione".

"Una domenica - dice Andrea - si riunì tutta la famiglia Bormolini; i nonni e gli zii con le rispettive famiglie, per una santa messa. Lo zio, naturalmente, celebrava. Noi cugini litigammo per fare i chierichetti. A me toccò il compito di suonare il campanello. La messa cominciò e tutto filò liscio fino al sanctus. Al momento di suonare il campanello, mi accorsi che non c’era (eravamo nella chiesa di san Rocco, non in parrocchia). Non volendo rinunciare al mio compito, non ebbi altra scelta se non quella di fare con le labbra uno squillante 'din, din, din'. Tutti si misero a ridere, anche lo zio. Al termine mi disse con molta dolcezza che, quando si serve all'altare, certe cose non bisogna farle".

"Parlavo con lui soprattutto del suo popolo, i sidamo, dell'Etiopia, e allora si illuminava - dice Daniele. - Ricordo quel giorno in cui celebrò la messa nella camera di mia sorella gravemente malata. 'Signore - disse - sia fatta non la mia, né la nostra volontà, ma sia fatta la tua volontà'. Disse queste parole in un modo tale che non le ho più dimenticate".

"Mi è caro ricordare quanto mi sei stato vicino quando ero in Perù - scrive Dolores, nipote missionaria. - Ti avevo scritto delle mie paure, di sentirmi debole e di lasciarmi prendere troppo da quei poveri che incontravo ogni giorno. Ti chiedevo come facevi tu, che ormai vivevi tra loro da tanto tempo. Molto semplicemente mi hai risposto di essere me stessa, di vivere regalando sorrisi a quei poveri... l'unica cosa che non mi sarebbe mai mancata. Grazie zio".

Il suo metodo missionario

Oltre alla pastorale solita di ogni parroco nella chiesa centrale, come abbiamo accennato, P. Bormolini impostò il suo lavoro sulle visite alle comunità di cristiani sparsi in un immenso territorio lungo 85 chilometri e largo 30. Ogni settimana ne visitava tre o quattro. Celebrava la messa, faceva la catechesi e si dedicava alle confessioni. Un lavoro capillare che lo portava a contatto con tutti. Il contatto personale con ciascuno era il segreto della riuscita del suo apostolato missionario.

Entrava nelle abitazioni della gente e s'intratteneva col nucleo familiare inculcando loro il senso di responsabilità come cristiani nella Chiesa cattolica. Nella zona c'erano tante sette protestanti. Anche i cattolici erano tentati di formarsi la loro "Chiesa" come i fratelli separati.

Dice Mons. Lorenzo Ceresoli, suo vescovo: "Aveva una predilezione per gli anziani e i malati, normalmente i più esposti in una società dove spesso mancano anche le attenzioni più indispensabili specie per i lungodegenti, anche se il rispetto per l'anziano, l'ospitalità e la solidarietà ordinariamente non mancano.

P. Gualberto conosceva bene la lingua del popolo sidamo nelle sfumature e nelle espressioni proverbiali per cui poteva esprimersi liberamente riuscendo a comprendere anche le più sottili manifestazioni dell'anima della gente. Non era molto dedito alle opere materiali benché si prodigasse assai per ottenere aiuti necessari alle spese correnti, alla sistemazione delle cappelle, allo scavo dei pozzi, alle paghe dei catechisti e dei maestri... Si proponeva, tuttavia, di evitare quel genere di paternalismo che impedisce alla gente di dare il suo contributo attivo e responsabile.

Stimolava tutti al senso di responsabilità ricordando che, in un prossimo futuro, i sacerdoti nativi della tribù, divenuti parroci, avrebbero dovuto vivere e sviluppare le opere con le risorse locali, senza gli aiuti dall'estero".

Sette anni di calvario

Nel 1990, mentre P. Bormolini percorreva in lungo e in largo le montagne di Teticcia per incontrare i cristiani, si accorse che la resistenza fisica, proverbiale in lui, non era più quella di prima. Inizialmente pensò che si trattava dell'altitudine, ma poi si rese conto che gli mancava la resistenza anche quando scendeva a quote più basse.

Ben presto si scoprì che il suo organismo era minato da un male terribile, di quelli che "non perdonano". P. Gualberto, pur accusando il colpo, non si smarrì. Rientrato in Italia, si sottopose a terapia e, quando gli sembrava di essere migliorato, ripartiva per la sua missione. "La missione - diceva scherzosamente - mi fa più bene di tutte le medicine d'Italia. Ma il tumore al sistema linfatico camminava.

Era tornato nella sua missione all'inizio di giugno del 1997, dopo un'ennesima cura presso l'ospedale di Verona, quando il suo male ebbe un improvviso ed inaspettato peggioramento causato da un cedimento del cuore con riflessi sull'apparato respiratorio. Ricoverato all'ospedale di missione, ad Awasa, fu curato per tre settimane. Ma vedendo che il miglioramento era scarso, si decise di farlo rientrare a Verona.

Partì per l'Italia percorrendo i 400 chilometri che separano Teticcia dalla capitale. Era con lui Fr. Aldo Pedercini, Fr. Mario Camporese e Sr. Teresina Generoso, infermiera. Giunto ad Addis Abeba, P. Bormolini venne accolto nella casa dei Comboniani in attesa di prendere l'aereo già prenotato per quella stessa sera. Dopo aver pranzato con i confratelli, andò a riposare. Un'ora dopo un confratello andò in stanza per vedere come stava: lo trovò già in coma. Non ci fu niente da fare: l'infarto che era sopravvenuto lo aveva ormai ucciso.

Ossequienti al desiderio precedentemente espresso da P. Bormolini, e con il consenso dei familiari di Livigno, subito interpellati per telefono, i confratelli trasportarono la salma ad Awasa (300 Km), sede del Vescovo mons. Ceresoli e, dopo una sosta di 12 ore, nella sua parrocchia, Tetticcia (altri 100 Km). Non essendoci il cimitero in quanto ogni famiglia seppellisce i propri morti nelle vicinanze delle capanne, P. Bormolini fu sepolto a tre metri dal muro della chiesa, appena dietro l'abside, dalla parte esterna, in quello che sarà il cimitero della missione, da lui inaugurato.

Fu deposto in una tomba scavata nella terra, secondo l'uso locale, ma i cristiani imbottirono la fossa di tronchetti di bambù. Con lo stesso materiale coprirono la cassa. Poi vi aggiunsero foglie di eucalipto, quindi terra. Attorno alla tomba costruirono una protezione fatta con un intreccio di bambù. Così P. Bormolini riposa nella sua capanna, fresca e profumata, e quotidianamente viene visitato dai cristiani che pregano e gli rivolgono le loro richieste come a un fratello, ad un "padre nella fede" che per loro ha donato la sua giovane esistenza nell'entusiasmo e nella gioia e dal quale si sentivano profondamente amati. Domenica 31 agosto, in contemporanea con Teticcia, a Livigno, si sono svolti i funerali "absente cadavere" preceduti da una veglia di preghiera animata da P. Vittorio Trabucchi, lo stesso che aveva preparato la sua ordinazione sacerdotale 25 anni prima.

Di P. Gualberto la gente ricorda soprattutto la semplicità, l'impegno per i "suoi" sidamo, l'attenzione ai poveri e il profondo amore per la sua famiglia e la gente di Livigno. Alla comunione il celebrante principale ha voluto ripetere la frase che P. Bormolini pronunciava con intima convinzione quando mostrava l'ostia ai fedeli: "Beati noi, veramente fortunati, che siamo invitati alla mensa del Signore...".

"Ti era difficile accettare il nostro modo di vivere e la proposta di non poter più continuare il tuo lavoro in missione – ha detto una persona al termine della celebrazione funebre. - Tu hai dedicato la tua vita ai più bisognosi, a coloro che si avvicinano a Dio con semplicità e senza pretese. Ci hai insegnato ad apprezzare soprattutto le piccole cose, ad aver fede e fiducia in tutte le situazioni della vita, a vivere in sintonia con l'insegnamento del vangelo".        P. Lorenzo Gaiga, mccj

Da Mccj Bulletin n. 199, aprile 1998, pp. 74-81

******

 

Giuseppe and Marina were cultivators who worked their own land, and had a couple of cows - just enough to provide milk for the large family. However, they managed to see that none of their children went without the necessities of life.

Gualberto was born at home in Livigno, a hamlet at 1.186 metres above sea level in the Alps, over 30 km in any direction from the next settlements. The difficulty in communications and the long weeks of being cut off from the outside in the Winter meant that the local economy was based on self-sufficiency, with what came from the land and a few animals. This was before the days of mass tourism...

So, on 6 October 1946 the tenth of 12 children (7 girls, 5 boys, though two died in infancy) was born. Gualberto grew up strong and lively, and was always called Albertino.

To bring in a bit more money, his father was also a shoe-maker, and Alberto soon learned to look after the animals. Several of his brothers, as young as 12-13, went off to nearby Switzerland to look for work.

Mass at 05:30

One day, on the way back from taking the cows to pasture, Alberto ducked into a field where the grass was already high, to look for some edible plants. The owner saw him and shouted, attracting Giuseppe's attention. Albert got a hiding for not respecting the property of others, and the family remember the occasion as the only time their father had raised his hand to any of them!

It was a very devout family, with parents of the strict observance: morning and evening prayers, and the family rosary. All the year round there was Mass at 5.30 a.m., except on First Fridays when the Rosary was recited in church, and the services began at 5.00. Gualberto was an altar boy, and one day the sermon of a visiting missionary touched his heart. The counsel of the priests, Don Lorenzo Pegorari and don Roncan, guided him until he decided to apply to enter the seminary. A paternal aunt was a nun, and one of his sisters, Agnese, also entered the convent.

Gualberto was quiet and rather timid. He played with his brothers and neighbours' children when he was not busy with various tasks. Even during the holidays from the seminary he worked, especially at hay-making or collecting aromatic herbs. With the money he made he was able to help pay his seminary fees.

When the missionary priest came to "recruit" him, he was 10 years old. Even so, he went off with enthusiasm to join the Comboni junior seminary at Rebbio (Como). His parents let him go willingly, but all of them felt the pain of separation at such an early age.

Tried in the fire

Gualberto continued his middle school in Trento, then went on to Crema (1959-1963) and Padova (1963-66), completing his studies up to University entrance level. In some ways he was lucky, because he did not have to go through the turmoil of 1968: his superior in the Liceo found him a rather timid character.

On 14 September 1966 he entered the Novitiate at Gozzano, and began this important formation stage under the guidance of Fr. Antonio Zagotto, who found the new arrival "quite sensitive, but able to adapt to a variety of situations." His characteristics seemed to fit him for community life, according to the Novice Master.

There were limitations, naturally. His rather isolated childhood made it difficult for him to mix easily, and he was often tongue-tied in company. Sometimes he seemed to be too easily influenced by the opinions of others, though he also had one or two inflexible attitudes. Nevertheless, Gualberto worked hard during the two years of his Novitiate, at the end of which he was much more his "own man", and the Novice Master, noting his progress, had no hesitation in putting him forward for the Vows. His First Profession was on 9 September 1968.

He went to Verona to study Theology, and in 1972 was sent to Rome to specialize in the Pontifical Faculty of St. Bonaventure (Seraphicum). Before then, in the 1969-70 academic year, he was Assistant to our junior seminarians at Asti. Despite the fact that his theological studies were rather broken up, his marks during this period were always very high, mostly 9 and 10. The Lord had given him a powerful enough intelligence to handle it all!

Fr. J.B. Zanardi, superior at Asti, noted that Gualberto was both a hard worker, and able to handle the difficult task of Assistant. He showed good teaching qualities, too, and was open to suggestions and correction from superiors.

He was, in fact, admitted to Perpetual Profession after four years instead of the usual six. The formula, which he composed himself, indicates the sentiments with which he began his priesthood: "God and Father, you have chose me, Gualberto Bormolini, to proclaim the mystery of Christ's Gospel among the nations. Accept my act of perpetual consecration with the Vows of poverty, chastity and obedience, in the Comboni spirit.

I am making this important gesture "in fear and trembling", because sin is still rooted in me; my confreres here present are witnesses each day of how hard I find it to love. So I do not consider this act as a goal, but as the beginning of a true Christian consecration, like a Baptism.

Fr. Sina (the one who received the Vows on behalf of the Superior General) and the community here are witnesses to the commitment I take on before the Church. May their faith give me the impetus to start off well on this crazy and stupendous adventure."

Priesthood

Gualberto was ordained on 28 June 1972 at Livigno, by Bishop Aldo Gerna, Comboni Bishop of Sâo Mateus in Brazil. The parish diary notes that there was a triduum of preparation, animated by another Comboni Missionary, Fr. Vittorio Trabucchi. The altar facing the people was inaugurated in the parish church for the occasion, as well as two reader's stands. The next priest from Livigno would come along 23 years later, so by hindsight the event becomes even more significant.

In an interview published after his death, in "Il Nuovo al Restel" of 15 September 1997, Fr. Bormolini reflects on the lack of vocations, attributing it to the advance of materialism even in remote communities, and the choice of these values by the people.

Missionary during the Revolution

In 1973 Fr. Gualberto è went to London to study English, and left for Ethiopia in January 1974, just at the start of the revolution that would overthrow the feudal regime of the Negus, Hailé Selassié, and put in power the Marxist military government, run by the DERG.

The people were discouraged, impoverished by the war and with little hope in a better future. The missionaries found that they had both the task of trying to help as many as they could materially, and that of building up their spirits and giving them some trust. Fr. Gualberto rolled up his sleeves and got to work.

After a year at Addis Abeba studying Amharic, he spent five years as pastor and director of schools at Fullasa (1975-80). For the next three years he was superior at Dongora, then from 1986-93) superior and Parish Priest at Teticcia. He spent one year as bursar at Fullasa (1993-4) before returning to his previous positions at Teticcia.

This mission is 2,700 metres above sea level, with 6,200 Catholics. When he first arrived there, he found a rather fraught situation: his predecessor, an Ethiopian priest, had been distributing clothing and other assistance to all and sundry, even those not in want. It had created a mentality of dependence on the mission: the people had begun to consider that they had a "right to receive" hand-outs from the mission. Fr. Bormolini had to put a great effort into bringing things back into balance, even with the support of the Bishop and the active collaboration of his Mexican confrere. The parish continued to assist those in need, but also reminded others of their responsibility to help the poor.

Teticcia had 58 chapels scattered over a very wide area. In each one there was a catechist and a Chapel Council. A missionary would arrive about every two months to celebrate Mass, with all the "trimmings": Confessions, Baptisms, discussions of community problems, counseling, etc.

One of the endemic problems was malnourishment - even downright hunger. Rather than seeking outside help from Italy the missionaries, especially a very capable Spanish brother, started off an agricultural project with schoolchildren (about 1500 of them). The government gave the land, and the missionaries provided digging tools and seeds. It began to work! It was an application of "Saving Africa with Africa", and though not a total success, the scheme did teach a lot of people that, with a bit of imagination and good will, it is possible to become self-sufficient.

Missionary animation

Gualberto was always close to his home and family. This enabled him to be a first-class missionary animator. he was also good at asking, but never asked for himself; just the needs of the mission, of the poor. His nieces and nephews remember him as a patient fielder of questions, able to give explanations they could understand about the importance of helping those in need in far-off Africa. He would listen attentively to the questioner, and give direct answers. The youngsters learned to appreciate these qualities. Even when he was ill, they recall how his one desires was to return to his mission as soon as possible, and this gave him strength both to fight his malady and to bear it with patience. The people showed their solidarity in prayer and in sympathy, as well as by continuing to help his mission.

Daniele, one of his nephews, writes: "I used to talk to him about his people, the Sidamo, and about Ethiopia, and he would light up as he spoke. I remember the day he celebrated Mass in my sister's room, where she was seriously ill.  he said, . But he said it in such a way, I have never forgotten!"

Dolores, a missionary in Peru, wrote: "I treasure the memory of when I asked your advice, about my doubts and fears, especially that of becoming too involved with the poor. I knew you had a long experience... And quite simply you told me to be myself, and to at least give them my smile... which was the only thing that would not run out! Thanks, uncle."

His missionary methodology

Besides the usual duties of a pastor in the central mission, Gualberto had a programme of visits to the Catholic communities scatters over a parish that was 50 miles long and 20 wide. He would manage two or three a week. He would usually hear confessions, celebrate Mass and spend some time giving religious instruction. This activity brought him into touch with the majority of his parishioners, and the personal contact was one of the secrets of his missionary apostolate.

He would visit families, talking to the older members about their Catholic responsibilities within the Church. There were many Protestant sects in the area, and Catholics would sometimes think of founding their own "churches". Another of his main concerns, as Bishop Lorenzo Ceresoli, his Ordinary, writes, was for the elderly and the sick: "usually the most exposed in a society ill-equipped for even basic attention to the long-term sick or bed-ridden old people, even when respect for the aged and the spirit of hospitality and solidarity were not lacking.

Fr. Gualberto knew Sidamo well, even subtle meanings of words and proverbs: So he was able to speak freely and express himself accurately, and get right home to his listeners. He did not take a big interest in material activities, although he made great efforts to obtain donations for running costs, to build or repair chapels, dig wells, pay catechists and teachers... In all this he would avoid any appearance of the paternalism that does not let the people start to take on their own responsibility and make their own active contribution.

He would urge everyone to make an effort, reminding them that their own priests would take over the parishes, and would have to run and develop them with local resources, probably with no outside help at all".

Seven years of agony

In 1990, while travelling around the highest areas of Teticcia, Fr. Bormolini realised that his stamina seemed to be declining - and it was almost proverbial. He comforted himself that it was due to the altitude, and that he would regain all his strength lower down. But the lack of stamina was noticeable even at lower levels.

It was not long before a very serious illness was diagnosed - the one that is called "unforgiving", or the "Big C". It was a shock, but he did not lose his head or his usual manner. He returned several times to Italy for treatment, and when he felt some improvement, set off back to his mission. "The missions do me much more good than all the medicines in Italy!" he joked. But the cancer kept progressing in his lymphatic system.

After his return to the mission in June 1997 after treatment in Verona, his illness became critical, suddenly and unexpectedly. His heart had begun to fail, and this in turn caused complications with his lungs and circulation. He was treated in the hospital at Awasa for three weeks, without any improvement, so it was decided to try to get him to Verona.

The journey began with a 400 km. drive from Teticcia to the capital. He was accompanied by Bros. Aldo Pedercini and Mario Camporese, and another nurse, Sr. Teresina Generoso. At Addis Abeba he went to our house for a few hours before the evening flight to Italy. He ate something at lunch with the confreres, then went to lie down. An hour later one of them went to see how he was, and found him unconscious. His heart had given way, and there was nothing anyone could do.

Following his own wishes, and with the consent of his relatives in Livigno, the body was taken back to Awasa, and then, 12 hours later, to his parish of Teticcia. Since the custom is to bury the dead at their home village, there is no real cemetery; the father was buried a few yards from the wall of the church, by the apse. The immediate area is now designated as the parish cemetery, and he is the first to lie there.

He was buried in a grave dug according to local custom. The people covered the bottom with lengths of bamboo, and piled them on top of the coffin. Then they covered them with eucalyptus leaves, and finally, earth. A bamboo fence was erected all round the grave. So Fr. Bormolini lies at rest in his little "hut", visited by the faithful who come to pray for him and to him every day. He is a young "father in the Faith", and they pray to him as to a much-loved and much-lamented brother.

At the same time, on that 31 August, a Requiem was celebrated at Livigno. There was first a prayer vigil animated by Fr. Vittorio Trabucchi, 25 years and two months after the one he had led in preparation for Gualberto's ordination.

Fr. Gualberto is remembers as a quiet, simple person, committed to his Sidamo people, but very much attached to his roots at Livigno. At the Communion, the celebrant repeated the words Gualberto himself used to say as he showed the Host to the people: "Blessed and truly fortunate are we, who are invited to the Lord's table."